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8 marzo ancora in piazza!

Ancora un otto marzo. E nonostante la situazione di generale oppressione sociale, nonostante il peso della specifica oppressione sessista che marca le nostre vite, nonostante tutte le ragioni che spingono ad essere nelle piazze in una giornata internazionale che vuole essere un grido di libertà, nonostante tutto questo c’è chi continua a parlare dell’otto marzo come di un appuntamento rituale.

A dire la verità ci piacerebbe che l’otto marzo fosse un appuntamento rituale, una data attesa per essere goduta come una bella festa, come si fa per l’ultimo dell’anno. Ma non è così.

La realtà è un’altra, nonostante i sempre più pervasivi pinkwashing commerciali, aziendali e addirittura militari, nonostante il presunto femminismo legato allo sfondamento dei tetti di cristallo, un modo becero di giustificare il potere, nonostante gli assurdi proclami di chi nega l’esistenza del patriarcato, sia esso il Valditara di turno o qualche intellettuale in costante ricerca di visibilità. La realtà è un’altra e richiede tutta la nostra energia, la nostra presenza nelle piazze, il nostro lavoro quotidiano, per rompere la cappa oppressiva che trasversalmente è segnata da sessismo.

È evidente come le questioni di genere intrecciano e attraversano una quantità di questioni, da quelle economiche, a quelle politiche, a quelle sociali.

Salari bassi, precarietà, disoccupazione, massicci tagli dei servizi e della spesa sociale: una situazione disastrosa, resa drammatica da quella che da qualche anno è a tutti gli effetti un’economia di guerra. E questa situazione porta inevitabilmente con sé anche un rilancio del familismo. Rispetto alla necessità di far fronte alle attività di cura, ai servizi che mancano, così come alla perdita di reddito soggettivo e di autonomia economica, la famiglia rappresenta per il sistema capitalista la soluzione più comoda e meno costosa, consolidata nel corso dei secoli dall’impostazione patriarcale e disciplinata secondo un modello di divisione del lavoro rigidamente impostato su base sessista e assai congeniale alle esigenze capitaliste. Un modello che comunque è sottoposto alle contraddizioni della società moderna e che quindi ha bisogno di essere rinforzato da una martellante propaganda familista che riproponga in modo marcato la morale sessista, i ruoli tradizionali e soprattutto la funzione riproduttiva assegnata alle donne come ineludibile compito sociale. L’imposizione della maternità come unico orizzonte della vita femminile, il contrasto feroce all’autodeterminazione di donne e soggettività con utero che deliberatamente e consapevolmente non vogliono assoggettarsi all’obbligo riproduttivo, l’omofobia rivolta contro tutte le persone non conformi sono elementi che marcano in modo inequivocabile la realtà dell’era meloniana, certamente in continuità con fasi storiche e politiche precedenti, ma con un ulteriore livello d’impatto sociale che ne moltiplica la portata.

Quella struttura patriarcale e sessista di divisione del lavoro e di imposizione di comportamenti riferibili ai ruoli binari che rappresenta una caratteristica costante della società capitalista assume infatti nella fase attuale, con il governo in carica, la dimensione effettiva di atti legislativi precisi. È un passaggio politico molto importante, di cui bisogna essere consapevoli.

Mai come in questo periodo si sono intensificate politiche demografiche indirizzate all’incremento della natalità, al contrasto ad aborto e contraccezione, alla persecuzione di chi si sottrae al compito riproduttivo; mai come in questo periodo si sono avute precise disposizioni di legge e atti governativi apertamente omofobi, rivolti contro persone che rifiutano la concezione binaria sfuggendo alla dimensione familista.

Quello che sta avvenendo con il governo attualmente in carica prende non solo la forma, già vista in altri momenti, di una generale crociata ideologica, ma anche quella di concreti e circostanziati atti legislativi.

E il Governo non agisce in solitudine.

A sostenere queste politiche abbiamo come sempre i settori reazionari, in primis la Chiesa cattolica e l’apparato militare.

Papa Bergoglio, che a qualcuno è sembrato accattivante grazie alle sbiadite esternazioni su guerra e ambientalismo rilasciate mentre curava abilmente affari, interessi e profitti del suo stato, il più stabile del mondo; lo stesso papa, che pure è riuscito a mostrarsi affabile in tante situazioni, non ha tuttavia mai perso occasione per fare guerra aperta e rabbiosa all’autodeterminazione delle donne e delle libere soggettività ribadendo costantemente la morale tradizionale, la necessità e la naturalità dei ruoli assegnati ai sessi, agitando lo spauracchio del gender e la condanna perpetua dell’aborto. Una guerra che il fervore identitario cattolico esaltato dall’occasione dell’anno del Giubileo non può che rendere più aggressiva.

Analogamente va considerato quanto il massiccio incremento del militarismo legato alla fase attuale di guerra esterna e interna rafforzi le politiche sessiste. È noto che nelle operazioni militari vere e proprie lo stupro è stato spesso usato come arma di guerra, facendo del corpo delle donne un campo di battaglia. Altrettanto noto è che sessismo e femonazionalismo sono caratteristiche ricorrenti delle politiche militariste e coloniali, così come la mission della liberazione delle donne da regimi oppressivi è stata spesso sbandierata per giustificare occupazioni militari, politiche di aggressione, sfruttamento di territori e risorse. Ma è altrettanto evidente che proprio il militarismo in quanto tale rappresenta il culto della forza, della violenza, della gerarchia, dei ruoli, della subordinazione, l’esaltazione del maschio vincitore, della virilità e del suprematismo maschile: una matrice patriarcale, sessista e machista che nessun pinkwashing dell’esercito, nessuna apertura dei ranghi militari a donne e addirittura a persone Lgbtqia+ può scalfire e che viene costantemente riproposta nel nostro quotidiano, nelle scuole, nelle strade, in qualsiasi contesto di una vita sociale sempre più militarizzata.

Rispetto a tutto questo la lotta quotidiana è una necessità, la piazza dell’otto marzo è una necessità.  Le piazze transfemministe sono fatte di corpi concreti che oppongono la materialità della lotta all’oppressione quotidiana. Lo sciopero generale, che anche quest’anno caratterizza la giornata dell’otto marzo, vuole rappresentare in modo reale e non certo simbolico la necessità di rottura e di interruzione dallo sfruttamento perpetuo del lavoro produttivo e riproduttivo. La lotta transfemminista attraversa una quantità di aspetti e di problematiche perché viviamo in una società in cui sessismo e patriarcato sono sistemici. È indispensabile riuscire a cogliere le connessioni tra le varie questioni che determinano gerarchia e sfruttamento, occorre farlo senza istituire una gerarchia delle problematiche e delle soluzioni. Lo sguardo transfemminista è anche il nostro sguardo, lo sguardo di tant3 anarchic3 che quotidianamente lottano per trasformare radicalmente l’esistente in una prospettiva complessiva di rivoluzione sociale, con la loro presenza attiva sui luoghi di lavoro, nei collettivi, nei movimenti. E nelle piazze dell’otto marzo. In ogni città e in tutto il mondo.

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