Giacomo Matteotti e l’attualità del suo impegno antifascista
Pubblichiamo un estratto dal libro "Matteotti. Dieci vite" (Neri Pozza) di Vittorio Zincone.
Li ha visti arrivare. Prima degli altri, più degli altri. Diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime, Giacomo Matteotti percepisce l’avvento di una dittatura. Lancia l’allarme. Cerca di impedire l’ascesa di Mussolini e il consolidarsi del governo del Duce. Muore il 10 giugno 1924, rapito e accoltellato da un commando della cosiddetta Ceka fascista.
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Ma chi era Giacomo Matteotti, martire della democrazia e icona della più tenace opposizione al fascismo? Figlio ricco del poverissimo Polesine, socialista riformista, giurista brillante, sindacalista energico, neutralista-pacifista, anti-retorico, anti-populista e molto coerente nei comportamenti. Marito assente, ma presentissimo. I quotidiani ostili oggi scriverebbero di lui: «il socialista impellicciato». Ed è esattamente quello che scrivevano i suoi detrattori negli anni Venti del Novecento. A dimostrazione (e non è l’unica similitudine) che alcuni vizi della politica, della propaganda e dell’informazione hanno radici profonde almeno cento anni. La sua storia è quella di un uomo, di un leader politico, che ha visto avanzare il fascismo centimetro dopo centimetro. È la storia di allarmi lanciati e rimasti inascoltati. La storia di una resa, quella dell’Italia e della sua classe dirigente, nelle mani di Mussolini.
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Matteotti era un socialista riformista. Gradualista, ma radicale e intransigente. Nulla a che vedere con l’accezione che spesso si dà oggi del riformismo, come declinazione sbiadita del moderatismo o del compromesso al ribasso.
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Non subì mai il fascino della dittatura del proletariato. Anzi. Persino nell’utilizzo degli scioperi sosteneva che ci si dovesse limitare. Era convinto che prendere il potere con le armi fosse cosa facile, ma allo stesso tempo inutile, perché poi la difficoltà più grande era sempre quella di costruire il socialismo dentro le persone: lo spirito socialista, la cultura socialista, mai disgiunta, come per tutti i riformisti, da quella liberale. Di qui l’attenzione alla scuola, continua e incessante, come momento primo di educazione necessaria e pilastro democratico per edificare l’emancipazione dei singoli. Di qui la difesa dello Stato di diritto e di tutte le libertà costituzionali: di espressione, di stampa, di riunione. Di qui la necessità di costruire un fisco che colpisse chi aveva di più e non solo chi era più raggiungibile; e di organizzare un’amministrazione pubblica efficiente, per ridurre gli sprechi e per difendere il bene comune, anche a costo di essere pedanti e troppo puntigliosi.
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Matteotti ha attraversato sulle barricate il passaggio delicatissimo dall’Italia liberale dei notabili a quella dei partiti di massa. Vide crescere la violenza dei fascisti nelle sue terre. Fu uno dei primi a comprendere la natura predatoria delle squadracce nere, il loro legame con gli interessi economici locali e l’immobilismo, o peggio la collusione, degli apparati dello Stato. E poi l’evoluzione sempre più aggressiva del fascismo, con l’attacco alle amministrazioni, la presa del potere, lo svuotamento delle prerogative del Parlamento per mezzo di un eccesso di decretazioni. Fu anche uno dei primi a parlare di dittatura e a denunciare alla Camera i crimini di Mussolini. E non parliamo, ovviamente, delle oscene leggi razziali o della partecipazione disastrosa alla Seconda guerra mondiale, perché quelle arrivarono con Matteotti già morto da più di un decennio. Parliamo della fine della democrazia sotto i colpi dei manganelli, dell’illegalità imperante, della stretta assillante alla libertà di espressione, dei soprusi e dello svuotamento delle istituzioni. Matteotti denunciò tutto a Montecitorio. Le sue denunce restarono inascoltate, colpevolmente inascoltate, caddero nel vuoto e nel silenzio di una classe dirigente liberale che sperava ingenuamente di ammansire il Duce.
Matteotti pagò tutto. Nel marzo del 1921 venne rapito, picchiato e abbandonato in un campo. Volevano umiliarlo anche per interrompere la sintonia creata negli anni con le masse proletarie. I fascisti gli imposero il «bando». Cioè, malgrado fosse un deputato del Regno, non poté più circo- lare nella provincia dove era stato eletto, dove risiedeva e dove si trovavano la sua casa e la sua famiglia. Tutto questo nell’indifferenza (o nell’impotenza) delle forze dell’ordine. Tutto questo mentre in Parlamento i fascisti in pratica non avevano rappresentanza (i primi trentacinque deputati fascisti ufficiali sono eletti nel maggio del 1921). Negli anni successivi subì altre aggressioni. Non si fermò mai.
Nel denunciare le violenze fasciste e le complicità governative arrivò a ipotizzare una ritorsione forte da parte dei proletari socialisti. Soprattutto nel corso dell’anno 1921, cioè prima della Marcia su Roma e prima dell’incarico di governo a Mussolini, cercò di smuovere le coscienze della vecchia maggioranza liberale, minacciando una reazione delle masse contro i soprusi fascisti. Ma forse sapeva che questa reazione non ci sarebbe stata.
E sapeva anche che nel rapporto con la violenza, il socialismo, soprattutto quello massimalista, si era sempre trovato nella peggiore posizione possibile: quella di chi predicava la necessità della violenza rivoluzionaria e poi non la praticava, se non in modo confuso, sporadico, non strategico, quindi senza una reale capacità di ribaltare il tavolo o almeno di contrastare le azioni delle milizie fasciste. Così facendo anzi, i socialisti legittimavano le manganellate nere di fronte alla classe dirigente liberale: il pericolo delle piccole violenze socialiste che annunciavano la grande rivoluzione rossa fece preferire all’establishment italiano la grande violenza fascista che almeno era al servizio degli industriali e dei proprietari terrieri, e che ristabiliva un ordine apparente.
Matteotti era perfettamente consapevole di questo meccanismo e per questo, dopo l’ascesa di Mussolini alla Presidenza del Consiglio, scrisse un volumetto per denunciare l’ondata di brutalità delle camicie nere e per smascherare sia le false promesse economiche del Duce sia il mito del fascismo come salvatore della patria dalla minaccia barbarica dei bolscevichi. Mito che, purtroppo, era stato comodamente sposato dal re, dal papa e dalla classe dirigente liberale.
Inoltre, proprio per spezzare i legami con Mussolini di tutti quelli che avevano creduto alle sue favole, lavorò incessantemente alla costruzione di un fronte larghissimo antifascista, che comprendesse anche i cattolici del Partito popolare di don Luigi Sturzo. L’operazione fallì.
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Come ha scritto lo storico Degl’Innocenti, «il mondo di Matteotti non c’è più. Ma proprio per questo quando compaiono similitudini e coincidenze significative, vanno valutate alla luce del “respiro profondo della storia”». Le ingiustizie sociali procedono con costanza, la corruzione e i conflitti d’interesse navigano indisturbati, le pulsioni securitarie riaffiorano (in forma quasi grottesca, ma riaffiorano), i tentativi di accentramento del potere si fanno sempre più concreti.
Quindi, dicevamo, «avercene» di Matteotti!
Nell’Italia dei nostri tempi, con politici, ministri e sottosegretari che più o meno nascostamente, usano spesso la politica anche per migliorare la propria condizione economica e i propri affari, per trovare case o accumulare benefit e prebende a cui i comuni cittadini non hanno accesso, quanto sarebbe concretamente e simbolicamente importante un segretario di partito o un parlamentare che fa l’opposto come Matteotti?
Nell’Italia dei rider col cubo sulle spalle, dei clandestini che lavorano la terra come schiavi, degli stipendi che sembrano mance, dei servizi sociali e pubblici che arrancano... quanto sarebbe salutare avere un politico capace di leggere i bilanci dello Stato e delle aziende, preparato e pronto a difendere il potere d’acquisto del salario, che invece di arrendersi e dire «il pubblico non funziona quindi deleghiamo ai privati», rilanciasse, lottando perché il bene comune resti tale e venga gestito meglio?
In un Paese dove molti leader e molti politici twittano e retwittano tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore, dove si ascoltano strafalcioni immondi dai banchi dei deputati, dove la coerenza è un miraggio e la preparazione una chimera, quanto sarebbe tranquillizzante un deputato che non cambiasse idea a ogni tremolio dell’opinione pubblica, e che soprattutto tendesse a fare, in termini di leggi e di provvedimenti, quello che ha dichiarato ai suoi elettori e ai suoi lettori?
Sono domande che si è fatto anche Sergio Luzzatto, nella prefazione al volume Contro il fascismo, in cui sono pubblicati due importanti discorsi parlamentari di Matteotti (quello del 31 gennaio 1921 e quello del 30 maggio 1924).
Sono domande a cui non si può rispondere se non dicendo «sarebbe importante», «sarebbe salutare», «sarebbe tranquillizzante».
Eppure, nel porre queste domande, quasi banali, già si sente l’eco degli annoiati, dei sempre scettici, dei cinici del tanto meglio tanto peggio, dei senza speranza, di quelli per cui essere contro il populismo giustizialista e incompetente vuol dire sventolare il motto atroce «meglio lo Stato corrotto che lo Stato rotto».
Ecco, Matteotti lottava, e lo ha fatto fino all’ultimo giorno della sua vita, per uno Stato integro e sano. Era sia contro il populismo sia contro la corruzione, sia per il ri- spetto del diritto, sia per la soluzione concreta dei problemi dei cittadini, avendo sempre ben presente la meta di una trasformazione socialista del Paese.
(Immagine anteprima: frame via YouTube)