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Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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