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Contro il Pelecidio, Luca Sciacchitano: “Il diritto di Israele a difendersi è diventato un presunto diritto a invadere e colonizzare”

Benvenuti alla terza parte della rubrica “Contro il Pelecidio” che consiste nella pubblicazione, una volta a settimana, di una mini-intervista allo scrittore Luca Sciacchitano sui temi del suo ultimo interessantissimo saggio intitolato “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”  – edito da Multimage La casa editrice dei diritti umani – che senza filtri, con cognizione di causa ed una certa parresia, mette sotto accusa quello che è il colonialismo israeliano, il sionismo, l’occupazione belligerante di Israele in terre palestinese, i crimini di guerra, il terrificante sistema d’apartheid razzista e il “genocidio incrementale” messo in atto da ormai più di 70 anni, svelando apertamente le strategie colpevolizzanti della hasbara israeliana e della strumentalizzazione sionista della Shoah.

Il “diritto di Israele a difendersi” è un altro mantra che sentiamo spesso pronunciare dalle nostre classi dirigenti liberali (conservatrici o progressiste che siano) sia nazionali sia europee. Cosa ha di fortemente ambiguo questo mantra e quanto confonde l’oppresso con l’oppressore?

È curioso notare come, dopo l’iniziale bombardamento post 7 ottobre, questo claim si sia lentamente rarefatto fino a evaporare quasi completamente dal lessico delle cancellerie. Si trattava infatti di uno slogan fondato su un’operazione di “gaslighting” che sollevava più di una contraddizione.
Il motivo di questo dietrofront, nonostante sia pacifico che Israele abbia il diritto a difendersi, così come lo ha l’Italia, la Francia e la Germania, risiede nello stesso diritto alla difesa che non poteva essere negato al popolo palestinese, sotto oppressione da più di un secolo, così come testimoniato già nel 1891 da Ahad Ha’am. Anzi, la questione dell’autodifesa diventava ancora più imbarazzante quando, andando a interrogare il corpus giuridico internazionale, emergeva che il popolo palestinese godeva perfino di una tutela legale nella sua lotta armata.

Cerchiamo di capire quest’ultimo passaggio assieme facendo un salto indietro nel tempo, e ritornando a quel 10 giugno del 1967; il giorno che concluse la Guerra dei Sei Giorni.
A quella data Israele si ritrovò ad occupare tutto un plateau di territori che fino a cinque giorni prima non facevano parte dei suoi confini (legalmente, neanche oggi farebbero parte dei suoi confini). Nello specifico, quelli che qui ci interessano sono la Striscia di Gaza, strappata all’Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, prese alla Giordania, e le Alture del Golan, di proprietà della Siria.
Territori conquistati a seguito di un’azione bellica e, in quanto tali, normati da precisi regolamenti internazionali.

Su questo punto occorre consultare l’art. 2.4 dello Statuto delle Nazioni Unite (a cui Israele aderisce) che vieta “l’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Stesso concetto peraltro ribadito dalla Risoluzione ONU n. 242 in cui si richiedeva formalmente il ritiro di Israele dai territori. Il punto che qui ci preme sottolineare, per procedere nel nostro ragionamento, è che tali territori vengono espressamente indicati, al punto 1.i, come territori “occupati”.

Il passaggio successivo diventa dunque capire cosa uno stato può e cosa non può fare nei territori da lui occupati. Qui entra in gioco la Quarta Convenzione di Ginevra, ratificata anch’essa da Israele nel 1951, che all’art. 49 così recita: La potenza occupante non può procedere a deportazioni o trasferimenti forzati di parte della popolazione civile del territorio occupato, né può trasferire nella zona occupata parte della propria popolazione civile.

Sarebbe inutile in questo articolo elencare tutte le deportazioni forzate, né le centinaia di colonie create dentro i territori occupati in quanto patrimonio documentale già acquisito dal lettore. Quello che dobbiamo fare, per proseguire nel nostro ragionamento, è sottolineare l’effettiva violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.

Va altresì specificato che non tutte le violazioni alla Convenzione di Ginevra sono classificabili con la stessa gravità. Esiste una fonte di diritto internazionale appositamente creata per elencare le violazioni e classificarle. Nel nostro caso specifico, in base all’art.8(2)(b)(viii) dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale “si intende per «crimini di guerra» […] viii) il trasferimento, diretto o indiretto, ad opera della potenza occupante, di parte della propria popolazione civile nei territori occupati o la deportazione o il trasferimento di tutta o di parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di tale territorio”

Abbiamo qui raggiunto un punto fermo: lo stato di Israele è uno stato criminale non perché lo afferma qualche terrorista esagitato o qualche manifestante con la bandiera palestinese garrente al vento; lo stato di Israele è colpevole di crimini di guerra a norma del diritto internazionale e, a meno che non si decida di stracciare la legge a favore di questo o quello stato amico, la questione è indiscutibile.
Ma la domanda iniziale non verteva sull’oggettiva o meno colpevolezza di Israele, quanto sul suo diritto alla difesa e sul diritto alla difesa del popolo palestinese. Ci servono altri due passaggi per arrivare alla conclusione del ragionamento.

Il primo è la natura coloniale del progetto sionista e quindi della politica israeliana. Non è un caso se si parla di “colonie” ebraiche e, per estensione, di un progetto di colonialismo di insediamento. Su questo punto c’è una vastissima letteratura e poco importa se, in un processo di ribaltamento della realtà, i coloni ebrei affermano di non essere coloni ma proprietari della terra a norma biblica.

Il secondo punto è la natura di apartheid e segregazione razziale dell’occupazione, come messo nero su bianco dalla Corte Internazionale di Giustizia nel luglio 2024 (Summary 2024/8 – 19 July 2024).
Dunque, di fronte a queste due condizioni in substrato, i combattenti palestinesi hanno il diritto a difendersi o, per meglio dire, alla resistenza? Al di là della retorica di pancia, che potrebbe portarci ad affermare un SÌ empatico, esistono anche qui dei puntelli legali in grado di dirimere la questione dal punto di vista normativo.

Nello specifico, l’art. 1.4 del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra tutela come (legittimi) combattenti quei “popoli (che n.d.r.) lottano contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro i regimi razzisti, nell’esercizio del diritto dei popoli di disporre di sé stessi, consacrato nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale”.

Va qui chiarito che, nell’Occidente del pacifismo, può risultare arduo comprendere che per lotta armata non si intende sparare a salve in aria per incutere timore al nemico. Quando si parla di lotta armata si intende guerra. Una guerra soggetta anch’essa alle normative internazionali (ad esempio sulla tutela dei civili e sulla loro salvaguardia), ma pur sempre una guerra armata in cui il confine tra combattente e terrorista non lo decidono le cancellerie amiche o nemiche ma i codici internazionali.

Una guerra che nessuno di noi vorrebbe e che potrebbe forse essere disinnescata togliendo ogni legittimità a quei combattenti palestinesi nel momento in cui venissero meno i due requisiti di cui sopra: occupazione e apartheid. Una strada furba, a mio avviso, che potrebbe essere imboccata il prima possibile, con una obbligatoria pacificazione tra i due popoli finalizzata a una soluzione a due stati.

 

Link alle prime 50 pagine in pdf del libro “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”: https://www.first-web.it/pelecidio1-50.pdf

Lorenzo Poli