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sfruttamento

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

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Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

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