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Yekatit 12

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto