Cosa succede se l’Ucraina va a nuove elezioni?
La complicità politica tra Trump e Zelensky – se mai ci fosse stata – sembra essere giunta al capolinea dopo le dichiarazioni del presidente americano secondo cui Zelensky sarebbe un dittatore con un tasso di approvazione intorno al 4%, reo di non voler convocare nuove elezioni.
Predire con certezza cosa avverrà nel prossimo futuro è pressoché impossibile.
Tuttavia, le iniziative dei vari attori coinvolti possono darci un’idea di ciò che è probabile che succeda.
Perché si è tornati a parlare di elezioni?
Il tema della legittimità del presidente ucraino è stato riproposto dopo che il mandato di Zelensky è scaduto a maggio dello scorso anno.
La costituzione ucraina, tuttavia, impedisce lo svolgimento delle elezioni durante la durata della legge marziale, motivo per cui l’attuale presidente è rimasto in carica – legalmente – oltre scadenza.
Perché, dunque, la posizione di Zelensky rimane un nodo da sciogliere? Le motivazioni sono varie.
Innanzitutto, bisogna ricordare che il fatto che Zelensky sia in carica legalmente non significa che la sua figura goda dello stesso tasso di approvazione di due anni fa. Anzi.
Nonostante i sondaggi in tempo di guerra lascino il tempo che trovano, è evidente che il presidente ucraino non goda più della stessa, quasi unanime stima di cui ha goduto nei primi mesi dopo l’inizio dell’invasione.
Questo cambiamento è fisiologico, ed è anzi sintomo di una società che, nonostante tutto, rimane dinamica e variegata.
Lo stesso Zelensky è conscio del fatto che la legge marziale non assicura il mantenimento del consenso, come dimostrano le sue recenti iniziative in politica interna – vedi, per esempio, le sanzioni all’ex presidente Petro Poroshenko.
Per il quadro che sta piano piano delineandosi, una rielezione di Ze (il cui tasso di approvazione è ben superiore al 4% inventato da Trump) potrebbe essere l’unico vero argine ad una restaurazione russofila e possibilmente antidemocratica.
Ma per fare ciò bisogna necessariamente ottenere la vidimazione delle urne.
Tutti contro Ze?
Un altro scoglio da affrontare, è evidente, riguarda la posizione dell’attuale presidente ucraino rispetto alle trattative in corso tra Russia e Stati Uniti.
Quello di Zelensky non è mai stato un problema di legittimità democratica (e ci si potrebbe chiedere, d’altronde, quale legittimità democratica possa avere Putin), ma di legittimità all’interno del quadro negoziale.
Da una parte Mosca ha ribadito che, nonostante le recenti aperture da parte ucraina, non è disposta a trattare con Zelensky.
Una posizione che il Cremlino ha tenuto per più di un anno e sulla quale si è rivelato abbastanza intransigente, rendendo pressoché impossibile il ritorno a posizioni più concilianti – se non a costo di una grande perdita in termini di credibilità politica.
Dall’altra parte c’è un Trump desideroso di chiudere l’affare nel minor tempo possibile, garantendosi il massimo del guadagno.
Come ha scritto la testata Riddle, quello del presidente statunitense è un “blitzkrieg diplomatico“, un tentativo di chiudere la partita immediatamente, anche, se necessario, abbandonando le formalità classiche dei negoziati.
Alla luce di questa interpretazione non stupiscono le dichiarazioni “scandalose” che hanno riempito i titoli dei giornali: come in ogni contrattazione, la prima cosa che si fa è puntare più in alto possibile, ben oltre ciò che è ragionevole pensare di ottenere.
Una strategia mediatica che Trump ha avuto modo di affinare in questi primi trenta giorni del suo mandato presidenziale nelle trattative con Canada, Messico, Europa, Panama.
Il rieletto presidente – nonostante una certa intesa con Putin ci sia – non è controllato dal Cremlino, come si legge spesso su social e media.
Le sue iniziative rispondono ad una logica politica esclusivamente transazionale e imprenditoriale, e non è un caso che le sue parole siano arrivate dopo l’iniziale rifiuto dell’accordo bilaterale sullo sfruttamento delle terre rare ucraine: se Zelensky risulta essere un ostacolo alle trattative e al guadagno, va tolto di mezzo, o comunque messo di fronte al fatto compiuto.
Il futuro, d’altra parte, sembra prospettare proprio questo tipo di percorso: trattative tra Russia e Stati Uniti per un cessate il fuoco – o almeno per la definizione preliminare dei quadri negoziali; pressioni sulla presidenza ucraina per accettare la situazione, passando eventualmente dalle urne; apertura di un canale diretto tra Mosca e Kyiv per la ridefinizione di una pace più stabile, in cui la sicurezza ucraina non è affidata a Washington ma ai partner europei.
Elezioni e complicazioni
A prescindere da cosa accadrà nel prossimo futuro, è certo che il processo elettorale, anche con la fine della legge marziale, non sarà scevro da complicazioni.
Innanzitutto ci sono delle difficoltà di carattere logistico e giuridico, prima tra tutte la questione del voto nelle regioni occupate.
Dove, come e chi voterebbe?
Quali implicazioni avrebbe la presenza di seggi nel quadro della definizione giuridica di questi territori?
Un problema che si presenta anche per i milioni di ucraini che vivono all’estero, tra Europa e Russia.
Un discorso a parte meriterebbero le minacce di ingerenza russa, in qualunque forma esse si presentino. Se Mosca ha giocato un ruolo nei processi elettorali di Romania e Moldova non è difficile immaginare le sfide incontro alle quali andrà la democrazia ucraina.
Infine, c’è da aspettarsi un panorama politico ucraino diverso da quello attuale.
Se lo scontento e le divisioni si stanno già manifestando tra i vari gruppi di potere rappresentati nella Verkhovna Rada (il Parlamento), un eventuale accordo raggiunto con Mosca – qualsiasi siano le condizioni accettate – getterebbe ulteriore benzina sul fuoco.
Come dopo ogni conflitto (e analogamente a quanto successe nel 2014) sarà da monitorare l’ascesa di figure provenienti dai ranghi militari, che potrebbero contribuire a creare un clima ancor più esplosivo.