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welfare

Un welfare sempre meno universalistico e sempre più disuguale

È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.

Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.

“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.

Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”

Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).

I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).

La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.

Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.

Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).

Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.

Qui per scaricare il Rapporto: https://www.sussidiarieta.net/cn4351/welfare-motore-di-sviluppo-si-ma-previa-ristrutturazione.html

 

Giovanni Caprio

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Un welfare sempre meno universalistico e sempre più disuguale

È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.

Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.

“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.

Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”

Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).

I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).

La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.

Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.

Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).

Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.

Qui per scaricare il Rapporto: https://www.sussidiarieta.net/cn4351/welfare-motore-di-sviluppo-si-ma-previa-ristrutturazione.html

 

Giovanni Caprio

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Un welfare sempre meno universalistico e sempre più disuguale

È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.

Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.

“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.

Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”

Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).

I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).

La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.

Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.

Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).

Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.

Qui per scaricare il Rapporto: https://www.sussidiarieta.net/cn4351/welfare-motore-di-sviluppo-si-ma-previa-ristrutturazione.html

 

Giovanni Caprio

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Un welfare sempre meno universalistico e sempre più disuguale

È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.

Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.

“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.

Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”

Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).

I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).

La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.

Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.

Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).

Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.

Qui per scaricare il Rapporto: https://www.sussidiarieta.net/cn4351/welfare-motore-di-sviluppo-si-ma-previa-ristrutturazione.html

 

Giovanni Caprio

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .

Un welfare sempre meno universalistico e sempre più disuguale

È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.

Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.

“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.

Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”

Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).

I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).

La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.

Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.

Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).

Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.

Qui per scaricare il Rapporto: https://www.sussidiarieta.net/cn4351/welfare-motore-di-sviluppo-si-ma-previa-ristrutturazione.html

 

Giovanni Caprio

Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

L'articolo Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie proviene da .