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Interviste

Una delegazione di Kairos Palestine in Italia. L’ntervista al pastore Isaac Munther pubblicata su Chiesa luterana

È iniziata a Napoli, il 17 e 18 febbraio 2025, la visita in Italia della delegazione di Kairos Palestine, accompagnata dalla Campagna Ponti e non Muri di Pax Christi Italia.
È proseguita il 19 febbraio a Roma, in particolare con l’incontro alla Commissione Esteri della Camera.
Successivamente, il 20 febbraio a Firenze; il 21 febbraio a Bologna; il 22 febbraio a Padova e il 23 febbraio a Venezia (per il programma completo, vedi https://bocchescucite.org/kairos-palestina-in-italia-dal-17-al-23-febbraio-2025/).

«Un genocidio in corso a Gaza e nella Palestina, un grido di dolore da parte della popolazione locale vittima di un’occupazione e colonizzazione decennale delle sue terre e deprivata di ogni diritto; un appello accorato di preghiera e di impegno, “una parola di verità, fede, speranza e nonviolenza” raccolto e rilanciato da tredici confessioni cristiane di Terrasana che, nel 2009, hanno firmato lo storico appello “Kairos Palestine: A Moment of Truth”. La delegazione di Kairos Palestina è composta dal pastore e teologo cristiano palestinese Munther Isaac, Preside del Bethlehem Bible College e direttore del ciclo di conferenze Christ at the CheckpointRifat Kassis, attivista nella lotta nonviolenta palestinese, coautore del documento Kairos Palestine e coordinatore della coalizione Global Kairos for Justice e l’avvocata Sahar Francis, direttrice dell’associazione per i diritti umani dei prigionieri ADAMEER di Ramallah» (dal comunicato stampa, in https://bocchescucite.org/delegazione-di-kairos-in-italia-dal-18-al-23-febbraio-2025/).

L’intervista rilasciata dal pastore luterano Isaac Munther pubblicata originariamente su Chiesa luterana.

In questi giorni in Italia con Kairos Palestine

Isaac Munther (il cui nome deriva dall’arabo Mundhir, colui che gli altri seguono) è preside del Bethlehem Bible College in Palestina e direttore della conferenza Christ at the Checkpoint (che è anche il titolo di un suo libro). È pastore luterano della Chiesa Evangelica Luterana di Betlemme (Affiliata alla Federazione Luterana Mondiale). Sarà in Italia fino al 23 febbraio prossimo per una serie di conferenze assieme alla delegazione di Kairos Palestine.

Il pastore luterano Isaac Munther

Mentre era in viaggio lo abbiamo raggiunto per rivolgergli alcune domande sulla situazione globale e a Gaza.

Neutralità, equilibrio, rimanere in bilico?

D: Pastore Munther, il suo sermone di Natale del 2023 ha avuto una grande eco. A volte ci convinciamo che essere cristiani significa rimanere in bilico. Ma, per un luterano, ha senso e cosa significa equilibrio?

M: Per me è un falso presupposto che la pacificazione significhi neutralità. Nella pacificazione dobbiamo schierarci. Dobbiamo dire le cose per ciò che sono. Dobbiamo dire la verità: Dio si schiera. Si schiera con gli oppressi e gli emarginati. E ci chiama a dire la verità. Per questo motivo, non credo che la Chiesa possa essere neutrale, soprattutto quando c’è un genocidio che si sta svolgendo sotto gli occhi di tutto il mondo. Inoltre, per quanto riguarda l’equilibrio, qui in Palestina non c’è alcun conflitto. C’è occupazione, apartheid, colonialismo. Non si può pensare di avere un equilibrio tra l’occupante e l’occupato, l’oppressore e l’oppresso. Questo squilibrio di potere deve essere affrontato e i cristiani devono tenerne conto.

Siamo esseri umani uguali?

D: In uno dei passaggi della sua predicazione ha sottolineato la stanchezza di vedere, giorno dopo giorno, immagini di bambini e famiglie tirati fuori da sotto le macerie. Non riusciamo a capire come sia possibile che tutto questo vada bene. Che cosa è diventata questa stanchezza oggi?

M: L’impatto nell’osservare il genocidio giorno dopo giorno, la vita sulla terra, con il silenzio di molti nel mondo, ci ha convinto, come palestinesi, che molti nel mondo occidentale, specialmente i leader, politici e purtroppo in alcuni casi anche religiosi non ci vedono come uguali: non ci guardano come esseri umani uguali a loro. Altrimenti, sarebbero d’accordo con quel che accade? Tutto ciò ha avuto un forte impatto psicologico su di noi, ma allo stesso tempo ha reso più forte la nostra determinazione e la nostra fede in Dio, perché siamo convinti che Dio sia dalla parte degli oppressi. I leader della fede oggi devono alzare la voce e chiedere responsabilità. La posta in gioco oggi è molto alta.

D: La Chiesa Evangelica Luterana in Italia ha espresso preoccupazione per la sorte del popolo palestinese. Abbiamo spesso assistito che anche solo esprimerle porta alla strumentalizzate e talvolta a parlare di antisemitismo. Perché è oggi così difficile stare dalla parte di chi soffre, con il rischio di essere strumentalizzati?

M: Come umanità, abbiamo creato leggi, diritti umani, convenzioni internazionali per prevenire i genocidi, per evitare la pulizia etnica, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Quindi, come leader della Chiesa, dobbiamo alzare la voce e dire che non ci sta bene un mondo di caos in cui i potenti e i ricchi fanno quello che vogliono senza alcuna responsabilità. Che tipo di mondo vogliamo lasciare ai nostri figli se le persone commettono crimini di guerra senza essere ritenute responsabili? Purtroppo, per noi palestinesi, il diritto internazionale è sempre stato irrilevante, perché non è mai stato applicato, né con gli insediamenti né con l’apartheid che esiste nella nostra terra. Le organizzazioni per i diritti umani, gli esperti legali, hanno dichiarato che si tratta di apartheid, ma la Chiesa rimane in silenzio. E ora è chiaramente un genocidio. Se volete non prendete in considerazione le nostre parole ma, almeno, prendete in considerazione le parole degli esperti, degli storici, dei professori, della Corte di Giustizia Internazionale, dei rapporti speciali delle Nazioni Unite, di tutti coloro che conoscono il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra: sanno che si tratta di un genocidio. Perché le Chiese faticano a definirlo tale? Perché i leader religiosi non ne chiedono conto? Quello che Trump sta proponendo riguardo a Gaza è una pulizia etnica. Vuole spostare con la forza due milioni di palestinesi. Questa è la definizione di pulizia etnica.

Gaza tra Italia e USA

D: Il governo italiano sembra essere schierato con il nuovo presidente degli Stati Uniti, Trump. Quest’ultimo che ritiene utile sostenere apertamente una soluzione che sia più favorevole al governo israeliano. Come valuta questa situazione?

M: La mia domanda al governo e ai leader italiani è: si schiereranno con la pulizia etnica, che è un crimine di guerra? È questo il loro credo? Devono rispondere. Dobbiamo denunciare il sionismo e denunciare che il sionismo per quello che è non ha nulla a che fare con l’ebraismo. Infatti, oggi i più forti oppositori del sionismo sono proprio gli ebrei di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti e anche alcuni in Israele. Dobbiamo dire la verità e fare attenzione a non essere etichettati. Allo stesso tempo, dobbiamo controllare i nostri discorsi e il nostro linguaggio. Capisco perfettamente e sono d’accordo. L’antisemitismo esiste, è reale ed è malvagio. Ma allo stesso tempo, rendiamoci conto che l’antisemitismo ha origine in Europa. Perché i palestinesi devono pagare il prezzo dell’antisemitismo occidentale? E io, in quanto palestinese, rifiuto con tutto il cuore di parlare di giustizia per i palestinesi e dell’applicazione del diritto internazionale per poi essere etichettato come antisemita. Quello che mi viene chiesto di capire è che i palestinesi chiedono solo l’applicazione del diritto internazionale e dei diritti umani. Spero che (i leader politici) se ne rendano conto e si uniscano a noi.

D: A breve sarà in Italia per diversi incontri e iniziative pubbliche. Perché questo viaggio in Italia e cosa si aspetta dalla società italiana?

M: Grazie a questa visita (in Italia), speriamo di mobilitare i leader religiosi e i politici a parlare di più. E vogliamo sollevare la questione del diritto internazionale e dei diritti umani. Perché la posta in gioco è molto alta. Se il mondo è d’accordo con la distruzione di un’intera civiltà come pulizia etnica e genocidio, allora abbiamo davvero bisogno di una legge internazionale? È ancora rilevante? E vogliamo davvero preparare la strada a un mondo di caos, colonialismo e dominio dei potenti? Vogliamo che tutti i cristiani si schierino semplicemente per la giustizia e la verità, per l’umanità.

Opinione pubblica e informazione

D: In Occidente, e in particolare in Italia, l’opinione pubblica è scossa dalle notizie che arrivano dalla Palestina. Dietro quelle notizie, le migliaia di morti, c’è la devastazione di vite già molto precarie: cosa può fare la fede di fronte a tanto smarrimento?

M: Quello che sta accadendo a Gaza è una catastrofe umana. Migliaia di persone sono state uccise, altre migliaia sono ancora sotto le macerie. Stiamo ancora implorando e lavorando per supplicare l’ingresso degli aiuti umanitari, gli ospedali sono stati distrutti, i medici sono stati arrestati. Dov’è la comunità internazionale e dov’è la voce dei leader religiosi, quando non viene rispettato lo stato di diritto, i diritti umani, il diritto internazionale? Se noi, come leader religiosi, non alziamo la voce e non chiediamo responsabilità, chi lo farà?

Speranza nella perseveranza

D: Come luterano, qual è la parola di speranza che, nonostante la terribile tragedia dei rifugiati e delle famiglie distrutte, può annunciare oggi ai suoi ascoltatori?

M: Come cristiani palestinesi, la nostra speranza è quella di sopravvivere. Adesso ci troviamo nel momento peggiore della nostra storia, forse uno dei momenti peggiori della nostra storia. Siamo molto preoccupati per la nostra fede qui in Cisgiordania. Israele ha imposto così tante restrizioni, chiusure, posti di blocco, ha già iniziato a compiere operazioni di forza e incursioni nel nord, che hanno avuto un impatto anche sulla comunità cristiana di Jenin. Hanno distrutto gran parte del campo profughi con almeno 40.000 sfollati in Cisgiordania. Quindi qui a Betlemme siamo preoccupati: sarà questa la nostra fede? Perciò è difficile parlare di speranza, ad essere onesti: adesso speriamo solo di sopravvivere. Allo stesso tempo, parliamo di resilienza. Questo è l’argomento di cui parlano i palestinesi. Resilienza, più che altro la parola araba che si riferisce a resilienza, ovvero perseveranza. Stiamo chiamando il nostro popolo a perseverare e a continuare la testimonianza in questa terra.

Come luterani, insieme a tutte le famiglie della chiesa qui in Palestina, siamo determinati a continuare non solo a esistere, ma a testimoniare. Nonostante tutto, le nostre chiese stanno servendo, le scuole, la diaconia, lo sportello donna, l’ambiente, siamo molto impegnati nel nostro contesto contro ogni probabilità. Nonostante i posti di blocco, a volte impieghiamo ore per raggiungere le nostre chiese solo per pregare o per guidare le funzioni religiose o per riunirci. Siamo molto resistenti e decisi a continuare la testimonianza e a portare avanti la testimonianza del Vangelo nel luogo in cui tutto è iniziato.

Intervista a cura del responsabile della comunicazione della CELI, Gianluca Fiusco

Redazione Italia

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 3° parte

Eccoci alla terza e ultima parte dell’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i tragici fatti del Sud America, Aurora arriva in Europa, prima in Svezia e successivamente in Italia…

Arrivi in Italia nel 1976, quindi. Come te la sei cavata?

All’inizio, grazie a delle donne legate a padre David Maria Turoldo, trovai due case dove potevo andare a fare i lavori domestici. Poi, attraverso la mia attività col sindacato uruguaiano, trovai lavoro alla CGIL, dove ho lavorato per molti anni. In seguito ho trovato un impiego presso la Provincia di Milano, fino al 2015.

Veniamo a tutto quello che facesti in Italia per l’Uruguay

Fin dall’inizio girai tanto, anche per l’Europa, a raccontare, denunciare, quello che avveniva nel mio Paese. Facevo parte di un Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dell’Uruguay. Mi mossi anche molto con i compagni del partito comunista uruguaiano che erano in Italia, ma sempre sul piano della solidarietà. Grazie anche a Tucci, mio secondo marito, che è ancora qui con me ho potuto fare tutto questo, benchè con due figlie.

Nel frattempo scoprimmo che in Italia esisteva questo articolo 8 del Codice penale, per noi importantissimo, che dice che OVUNQUE succeda qualcosa ad un cittadino italiano, la giustizia italiana deve intervenire. Quindi noi, sull’onda del processo alla Esma (famoso luogo di tortura in Argentina) cominciammo a muoverci. Nel frattempo, il giudice Garzon in Spagna aveva chiesto il rimpatrio di Pinochet: qualcosa si stava muovendo. Così insieme ad altre quattro donne uruguaiane, ma con figli o mariti italiani, andammo alla procura di Roma. Li conoscemmo Giancarlo Capaldo, che era il Pubblico Ministero, e raccontammo le nostre storie. Lui stava già seguendo le vicende di altri cittadini italiani provenienti dal Cile e dall’Argentina, che avevano denunciato i militari dei loro Paesi. Capaldo, seguendo queste vicende (che avevano fra l’altro come centro principale Buenos Aires, dove avvenivano cose tremende) ebbe l’intuizione di mettere insieme queste storie. Ringrazierò quest’uomo tutta la vita.

Da destra: i PM Giancarlo Capaldo e Tiziana Cuggini, oltre gli avvocati dell’accusa

Avevamo iniziato a parlare di cosa fosse il Plan Condor negli anni ‘80: un piano strategico per eliminare gli oppositori alle dittature. La grandissima mano che ci permise di conoscere bene il Plan Condor ce la diede un uomo straordinario, paraguaiano, che abbiamo perso alcuni mesi fa: il professor Martin Almada. Ci raccontò che durante la sua prigionia in Paraguay aveva incontrato un militare (uno dei pochi militari oppositori del regime) che gli disse dove avrebbe potuto trovare tutta la documentazione su quello che si stava facendo in alcuni Paesi latinoamericani. Il Plan Condor dava la possibilità alle polizie dei vari paesi dell’area di perseguire ovunque nel Cono Sur i propri oppositori. In effetti una volta uno dei vertici militari aveva detto: “La sinistra non vuole le frontiere? Anche noi non le vogliamo!”.
Venne così trovato ad Asuncion, in Paraguay, quello che si è chiamato l’archivio del terrore, dove si poteva leggere tutto. Era un piano sottoscritto in Cile da tutte le dittature del semicontinente.

Come andò il processo che metteste in piedi con Capaldo?

La giustizia italiana ci ha messo molto tempo, ma era normale, ci voleva molto tempo per avere i documenti da quei Paesi, fare le traduzioni, superare gli intoppi burocratici sia qui in Italia che lì, e poi si fecero molti viaggi in Sud America. Ci volle tempo, fatica, costanza. Capaldo raccolse moltissime dichiarazioni. Volle sentire giornalisti, esperti, storici, i testimoni furono circa 140. Alla fine, Capaldo sentì che aveva ricostruito tutto il quadro, andò davanti al giudice e venne riconosciuto che questo era un processo da farsi. Dal 1999 al 2015 furono gli anni delle ricerche, nel 2015 iniziò il processo pubblico. Certo, io avrei voluto in Uruguay un processo giusto per la morte di mio marito. Non è stato possibile. L’Italia ha compensato questa grave mancanza.

Considerate che si trattava di un processo fatto dopo decine di anni, a migliaia di chilometri di distanza, con alcuni giudici popolari che non sapevano neanche dove fossero questi Paesi. In quegli anni si sapeva poco e si parlava pochissimo di quelle dittature. Andava spiegato tutto. Nelle piazze si era parlato soprattutto del Cile, ma ben poco dei processi. Bisogna però riconoscere che le condanne definitive del nostro processo in America Latina ebbero ripercussioni enormi. Molti avvocati e giudici di là si rivolsero a noi per avere le sentenze italiane. Venne creato un precedente fondamentale. Quell’articolo 8 qui in Italia fu importantissimo. Il processo avviato da noi si concluse nel 2021 con la seguente condanna definitiva: “Tutti gli imputati vivi, all’ergastolo”. Certo, uno solo andò in galera, un militare che di nome Troccoli che viveva a Salerno. Molti erano morti, altri erano già in carcere nei nostri Paesi.

Ma allora perché dici che fu l’Italia a darti giustizia?

Prima di tutto perché in Sud America non si è mai fatto un processo Condor, ma solo processi riferiti a una o due vittime.

Tu seguisti il processo a Roma: dovevi o volevi?

Io collaboravo, insieme ad altre, con il PM Capaldo nella ricerca di materiale e nelle traduzioni.
La mole di carte che producemmo fu impressionante, dovemmo presentare le prove su tutto. Tutto. Di dolito venivo accompagnata a Roma dai miei tre nipoti.

Da destra: la PM Cuggini, Aurora Meloni e il suo avvocato Giancarlo Maniga

Alla fine del processo giudiziario, nel ’21, tirai il fiato, ma già con la prima sentenza io avevo pianto. Qualcuno mi ha chiesto a cosa avessi pensato in quel momento… Io avevo pensato a Daniel, a Guillermo, a Luis, a tutti quelli che non c’erano più e a quelli che ancora non avevano trovato. Non devi dimenticare che noi abbiamo ancora una ferita aperta, che sono i desaparecidos. Il problema vero è che noi sappiamo che loro (i militari) SANNO. Ancora pochi mesi fa abbiamo trovato in un presidio militare i resti di una compagna scomparsa nel ’77. Sono i resti della settima vittima che ritroviamo dei 197 scomparsi che abbiamo in Uruguay. Solo 7! Dopo 50 anni! Una lentezza tremenda, anche perché non ci sono finanziamenti per la ricerca e per gli scavi. Noi poi ci rivolgiamo ad antropologi argentini per l’identificazione del DNA, non è semplice.

Comunque, per me, questo processo è stata GIUSTIZIA. Pensa che il relatore della Corte di Cassazione, il dottor Gaeta, fece un intervento di più di un’ora, determinando poi la decisione della corte, in cui analizzò punto per punto tutto quello che portava alla condanna di questi criminali. Un intervento meraviglioso, come se lo avessimo scritto noi, e da parte di un relatore della Cassazione: a questi livelli non avviene mai che vi sia un tale coinvolgimento. Quando con quest’uomo ci vedemmo presso un’università romana per un incontro, piangemmo insieme.

Quanto poi è stato reso pubblico il risultato di questo processo, in Italia?

Un po’ di risonanza ci fu. Durante il processo entrammo in contatto con diversi giornalisti, io intervenni in diversi servizi di RaiNews e Radio1, oltre ai contatti con i tanti amici in Italia e a numerosi blog che ci hanno dato spazio. Se cerchi su internet la vicenda del processo Condor, trovi moltissimo materiale. In America Latina si parla ancora dell’esito di questo processo e del plan Condor.

Chi si fece carico delle spese di questo lungo processo?

Soprattutto lo Stato italiano. Alcune regioni italiane, alle quali la vittima apparteneva, hanno aiutato. La chiesa valdese partecipò alle spese.

Cosa pensi di coloro che al giorno d’oggi hanno nostalgia di quelle dittature o sono negazionisti rispetto ai fatti che voi avete denunciato?

Noi dobbiamo continuare a raccontare la nostra storia e a spiegare che non si può negare quello che è avvenuto. Io mi sono ancora emozionata quando, pochi giorni fa, ho visto le immagini dell’estremo saluto ai resti della compagna di cui parlavo prima, fatto nell’enorme atrio dell’università di Montevideo. Ho visto un popolo che piangeva e che diceva: “la tua lotta continua ad essere la nostra”, e tra loro moltissimi giovani. Sono pochi resti, in un’urna, ma emozionano ancora moltissimo. A noi rimane l’ultima madre di quel periodo, che tra poco compirà cento anni, lucidissima. Ogni volta che posso vado a parlare, a raccontare, nelle scuole, soprattutto intorno al Giorno della Memoria. Pur se è difficile con i tempi che corrono, dobbiamo insistere perché sia davvero “nunca mas”.

Per chiudere, cosa pensi dell’essere umano e della sua capacità di compiere violenze?

Che non ha limiti. Che è ancora incredibile, nonostante la storia, pensare che un essere umano possa essere così crudele, malvagio, spietato…ma poi ci guardiamo intorno e vediamo le guerre in atto: di cosa ci stupiamo?. E non solo le guerre. Che dire: che il sopravvento è stato preso dal potere e dal denaro, come continua a ripetere Francesco.  Io credo che la forza per combattere tutto ciò si possa trovare nella lotta. Sempre. Perché credere nella vita, nell’amore e nell’essere umano è lo stimolo, e anche l’esempio che mi sento di trasmettere ai miei nipoti.

Anche in questa lotta, lunga, faticosa, dura, foste quasi esclusivamente donne, perché?

Forse perché noi diamo la vita, quindi siamo molto attaccate ad essa. Non voglio dire che gli uomini non abbiano forza, abbiamo avuto al nostro fianco uomini bravissimi, ma la nostra è particolare.

Um’ultima nota, un po’ sciocca: hai un cognome impegnativo adesso…

(Aurora ride) Non c’entro niente.

 

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 2° parte

Riprendiamo l’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i terribili fatti avvenuti in Sud America, con il rapimento e il successivo omicidio del marito, la sua storia continua in Europa.

Arrivi in Svezia, come continua la tua storia?

La Svezia era allora l’unico Paese europeo che ci accoglieva. A Buenos Aires, durante la ricerca dei ragazzi, ero andata all’ambasciata italiana dove mi avevano trattato molto male, nonostante avessi detto loro che sia io che Daniel eravamo di origine italiana. Mi risposero: “Di terroristi in Italia abbiamo già i nostri.” Dopo due giorni a Stoccolma (dove governava Olof Palme) ci spostarono in un villaggio, una grande area con una serie di casette completamente arredate nella località di Alvesta. Trovammo soprattutto compagni cileni… Sei mesi dopo, ci diedero un appartamento in una cittadina nel Sud della Svezia, Malmö. Io cominciai a studiare lo svedese, le bimbe andavano alla scuola per l’infanzia.

In quel momento non ne volevi più sapere di politica?

In quel momento non volevo sapere più nulla dei partiti politici. Personalmente credo che molta della responsabilità sia stata dei dirigenti, sia del movimento guerrigliero che dei partiti. Ho comunque capito che bisognava iniziare con le denunce, attivare e mettere in pratica la solidarietà dell’Europa, visto che avevamo migliaia di prigionieri politici, non solo in Uruguay, che vivevano una repressione durissima nei lager e nelle carceri dei nostri Paesi. Non credevo più nella guerriglia, ma continuavo a credere nella politica, nella Democrazia e soprattutto nella Libertà.

C’era un rapporto tra il Frente Amplio e la guerriglia dei Tupamaros?

Formalmente no, ma di fatto si, e ogni volta che i guerriglieri denunciavano sequestri, torture e uccisioni, erano spalleggiati dai partiti del Frente Amplio. L’esempio più chiaro è stato Zelmar Michelini, che ho citato prima. Una delle figlie di Michelini, Elisa, era militante dei Tupamaros. Lui fu minacciato in questi termini: “Se fai ancora qualcosa di simile a quando andasti al tribunale Russell in Europa a parlare di noi… tua figlia inizierà ad essere torturata.” Elisa in quel tempo era in galera, ma non l’avevano ancora toccata. Ho visto Zelmar piangere quando è arrivato in Argentina, perché avevano iniziato a torturarla. Lui non poteva stare fermo e zitto, nessuno di quei politici poteva farlo, con quello che stava accadendo. La tortura era sistematica, le persone in Uruguay venivano fatte a pezzi. Poi c’era il dramma degli scomparsi che esplose dopo il golpe in Argentina nel 1976.

Quindi sia in Uruguay che in Argentina il golpe non fu un passaggio netto, “dal bianco al nero”, ma iniziò ben prima

Sì, soprattutto in Uruguay. Già alla fine degli anni ’60 un governo eletto aveva iniziato a dar vita alle “medidas de seguridad” per le quali si vietava la propaganda politica, e la stessa parola Tupamaros (la stampa doveva dire “sovversivi”, “innominabili”). Se dicevi “Tupamaros”, andavi in galera. Avevano chiuso tutta la stampa di opposizione. Nelle elezioni del 1971 ci furono brogli, al Frente Amplio furono rubati molti voti. Nel 1972 il governo dichiarò lo “stato di guerra interna”.

Quindi tutti noi ricordiamo l’11 settembre del ’73 in Cile perché quello fu davvero un salto radicale dal “bianco al nero”. I golpe in Uruguay e in Argentina furono solo il consolidamento di una situazione che era già in atto?

Senza dubbio. Arrivammo in Italia nel ’76 perché io in Svezia non ce la facevo più…avevo un papà italiano, di Borgotaro (Parma) e volevo venire in Italia, la terra di mio padre. In Italia sentivo parlare SOLO del golpe in Cile che, comprendo bene, aveva colpito profondamente sia il sistema politico che i cittadini. Con altri compagni uruguaiani ci demmo proprio il compito di far sapere in Italia e in Europa che in Uruguay c’era stato un colpo di stato. Il caso dell’Argentina è stato diverso, con i desaparecidos, a migliaia, con le madri di Plaza de Mayo che si organizzarono per la ricerca e la denuncia e che oggi sono il simbolo dalla lotta per la Memoria, la Verità e la Giustizia. L’Argentina poi era un Paese grande e importante.

Ricordo che poco dopo il mio arrivo andai alla questura col mio passaporto di ACNUR, l’unico che ancora avevo. Dissi loro che volevo i miei documenti italiani. Tieni conto che di immigrazione in Italia, a quel tempo, non se ne parlava proprio (c’era solo popolazione somala ed eritrea, qualche cittadino greco, qualche portoghese e qualche spagnolo). L’agente mi disse: “Ma se lei è figlia di italiani è italiana, basta, mica ha bisogno di un documento come rifugiato politico!” Quando ritornai all’ufficio immigrazione, un altro agente che mi aveva fermato e a cui dissi che ero uruguayana, mi lasciò andare sorridendo dopo aver nominato alcuni tra i giocatori di calcio dell’allora famosa nazionale uruguayana. Così feci i documenti.

Come andò avanti la storia della dittatura in Uruguay?

Furono anni di repressione tremenda, solo verso il 1983 le forze politiche, di fronte ad un fallimento totale della dittatura (avevano rubato tutto quello che c’era da rubare), cominciarono a guadagnare terreno. La situazione generale era cambiata, l’Africa si era liberata (almeno formalmente) dai colonizzatori. Spagna, Grecia e Portogallo erano diventati delle democrazie. Nell’84 ci fu un accordo tra alcuni partiti (di centro e di destra) e i militari,, che cercavano di resistere in tutti i modi. Nell’84 si fecero le elezioni e noi tornammo per votare. Vinse il partito Colorado che da più di un secolo aveva quasi sempre governato ed era composto dalla buona borghesia metropolitana del Paese. L’altro partito, il Blanco, rappresentava la parte agraria, ma erano comunque due partiti di centro-destra, e in quel momento erano gli unici “legali”. Il primo presidente, Julio Maria Sanguineti, fece subito un’amnistia che liberò tutti i prigionieri politici (compreso Pepe Mujica), ma anche i militari che non vennero quindi giudicati. Fu fatto anche un referendum per stabilire se i militari potevano essere processati, ma perdemmo, la gente aveva paura e aveva buoni motivi per averne. Poi il Frente Amplio è cresciuto, si è presentato alle elezioni locali e ha conquistato la città di Montevideo. Poi fino al 2020 ha governato il Frente Amplio. Questo governo stabilì che quell’amnistia per i militari era incostituzionale e che i militari colpevoli di crimini di lesa umanità, potessero essere processati. Ora, dopo 50 anni, stanno ancora arrivando denunce.

E Pepe Mujica?

È malato, ha dichiarato in una conferenza stampa che ha un cancro all’esofago, è un vecchio saggio. Dice parole importantissime ai giovani, trasmette carica, coraggio, speranza, per l’ambiente e contro la rassegnazione.

Quando andai a votare in Uruguay dopo tanti anni, ero convinta di rimanere lì, ma fu il padre di Daniel, il mio primo suocero, a dirmi: “Ma di cosa vivi se vieni qui?”. Il Paese era rovinato, così tornai in Italia.

 

Fine seconda parte

 

Qui il link alla terza e ultima parte

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

Una delegazione di Kairos Palestine in Italia. L’ntervista al pastore Isaac Munther pubblicata su Chiesa luterana

È iniziata a Napoli, il 17 e 18 febbraio 2025, la visita in Italia della delegazione di Kairos Palestine, accompagnata dalla Campagna Ponti e non Muri di Pax Christi Italia.
È proseguita il 19 febbraio a Roma, in particolare con l’incontro alla Commissione Esteri della Camera.
Successivamente, il 20 febbraio a Firenze; il 21 febbraio a Bologna; il 22 febbraio a Padova e il 23 febbraio a Venezia (per il programma completo, vedi https://bocchescucite.org/kairos-palestina-in-italia-dal-17-al-23-febbraio-2025/).

«Un genocidio in corso a Gaza e nella Palestina, un grido di dolore da parte della popolazione locale vittima di un’occupazione e colonizzazione decennale delle sue terre e deprivata di ogni diritto; un appello accorato di preghiera e di impegno, “una parola di verità, fede, speranza e nonviolenza” raccolto e rilanciato da tredici confessioni cristiane di Terrasana che, nel 2009, hanno firmato lo storico appello “Kairos Palestine: A Moment of Truth”. La delegazione di Kairos Palestina è composta dal pastore e teologo cristiano palestinese Munther Isaac, Preside del Bethlehem Bible College e direttore del ciclo di conferenze Christ at the CheckpointRifat Kassis, attivista nella lotta nonviolenta palestinese, coautore del documento Kairos Palestine e coordinatore della coalizione Global Kairos for Justice e l’avvocata Sahar Francis, direttrice dell’associazione per i diritti umani dei prigionieri ADAMEER di Ramallah» (dal comunicato stampa, in https://bocchescucite.org/delegazione-di-kairos-in-italia-dal-18-al-23-febbraio-2025/).

L’intervista rilasciata dal pastore luterano Isaac Munther pubblicata originariamente su Chiesa luterana.

In questi giorni in Italia con Kairos Palestine

Isaac Munther (il cui nome deriva dall’arabo Mundhir, colui che gli altri seguono) è preside del Bethlehem Bible College in Palestina e direttore della conferenza Christ at the Checkpoint (che è anche il titolo di un suo libro). È pastore luterano della Chiesa Evangelica Luterana di Betlemme (Affiliata alla Federazione Luterana Mondiale). Sarà in Italia fino al 23 febbraio prossimo per una serie di conferenze assieme alla delegazione di Kairos Palestine.

Il pastore luterano Isaac Munther

Mentre era in viaggio lo abbiamo raggiunto per rivolgergli alcune domande sulla situazione globale e a Gaza.

Neutralità, equilibrio, rimanere in bilico?

D: Pastore Munther, il suo sermone di Natale del 2023 ha avuto una grande eco. A volte ci convinciamo che essere cristiani significa rimanere in bilico. Ma, per un luterano, ha senso e cosa significa equilibrio?

M: Per me è un falso presupposto che la pacificazione significhi neutralità. Nella pacificazione dobbiamo schierarci. Dobbiamo dire le cose per ciò che sono. Dobbiamo dire la verità: Dio si schiera. Si schiera con gli oppressi e gli emarginati. E ci chiama a dire la verità. Per questo motivo, non credo che la Chiesa possa essere neutrale, soprattutto quando c’è un genocidio che si sta svolgendo sotto gli occhi di tutto il mondo. Inoltre, per quanto riguarda l’equilibrio, qui in Palestina non c’è alcun conflitto. C’è occupazione, apartheid, colonialismo. Non si può pensare di avere un equilibrio tra l’occupante e l’occupato, l’oppressore e l’oppresso. Questo squilibrio di potere deve essere affrontato e i cristiani devono tenerne conto.

Siamo esseri umani uguali?

D: In uno dei passaggi della sua predicazione ha sottolineato la stanchezza di vedere, giorno dopo giorno, immagini di bambini e famiglie tirati fuori da sotto le macerie. Non riusciamo a capire come sia possibile che tutto questo vada bene. Che cosa è diventata questa stanchezza oggi?

M: L’impatto nell’osservare il genocidio giorno dopo giorno, la vita sulla terra, con il silenzio di molti nel mondo, ci ha convinto, come palestinesi, che molti nel mondo occidentale, specialmente i leader, politici e purtroppo in alcuni casi anche religiosi non ci vedono come uguali: non ci guardano come esseri umani uguali a loro. Altrimenti, sarebbero d’accordo con quel che accade? Tutto ciò ha avuto un forte impatto psicologico su di noi, ma allo stesso tempo ha reso più forte la nostra determinazione e la nostra fede in Dio, perché siamo convinti che Dio sia dalla parte degli oppressi. I leader della fede oggi devono alzare la voce e chiedere responsabilità. La posta in gioco oggi è molto alta.

D: La Chiesa Evangelica Luterana in Italia ha espresso preoccupazione per la sorte del popolo palestinese. Abbiamo spesso assistito che anche solo esprimerle porta alla strumentalizzate e talvolta a parlare di antisemitismo. Perché è oggi così difficile stare dalla parte di chi soffre, con il rischio di essere strumentalizzati?

M: Come umanità, abbiamo creato leggi, diritti umani, convenzioni internazionali per prevenire i genocidi, per evitare la pulizia etnica, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Quindi, come leader della Chiesa, dobbiamo alzare la voce e dire che non ci sta bene un mondo di caos in cui i potenti e i ricchi fanno quello che vogliono senza alcuna responsabilità. Che tipo di mondo vogliamo lasciare ai nostri figli se le persone commettono crimini di guerra senza essere ritenute responsabili? Purtroppo, per noi palestinesi, il diritto internazionale è sempre stato irrilevante, perché non è mai stato applicato, né con gli insediamenti né con l’apartheid che esiste nella nostra terra. Le organizzazioni per i diritti umani, gli esperti legali, hanno dichiarato che si tratta di apartheid, ma la Chiesa rimane in silenzio. E ora è chiaramente un genocidio. Se volete non prendete in considerazione le nostre parole ma, almeno, prendete in considerazione le parole degli esperti, degli storici, dei professori, della Corte di Giustizia Internazionale, dei rapporti speciali delle Nazioni Unite, di tutti coloro che conoscono il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra: sanno che si tratta di un genocidio. Perché le Chiese faticano a definirlo tale? Perché i leader religiosi non ne chiedono conto? Quello che Trump sta proponendo riguardo a Gaza è una pulizia etnica. Vuole spostare con la forza due milioni di palestinesi. Questa è la definizione di pulizia etnica.

Gaza tra Italia e USA

D: Il governo italiano sembra essere schierato con il nuovo presidente degli Stati Uniti, Trump. Quest’ultimo che ritiene utile sostenere apertamente una soluzione che sia più favorevole al governo israeliano. Come valuta questa situazione?

M: La mia domanda al governo e ai leader italiani è: si schiereranno con la pulizia etnica, che è un crimine di guerra? È questo il loro credo? Devono rispondere. Dobbiamo denunciare il sionismo e denunciare che il sionismo per quello che è non ha nulla a che fare con l’ebraismo. Infatti, oggi i più forti oppositori del sionismo sono proprio gli ebrei di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti e anche alcuni in Israele. Dobbiamo dire la verità e fare attenzione a non essere etichettati. Allo stesso tempo, dobbiamo controllare i nostri discorsi e il nostro linguaggio. Capisco perfettamente e sono d’accordo. L’antisemitismo esiste, è reale ed è malvagio. Ma allo stesso tempo, rendiamoci conto che l’antisemitismo ha origine in Europa. Perché i palestinesi devono pagare il prezzo dell’antisemitismo occidentale? E io, in quanto palestinese, rifiuto con tutto il cuore di parlare di giustizia per i palestinesi e dell’applicazione del diritto internazionale per poi essere etichettato come antisemita. Quello che mi viene chiesto di capire è che i palestinesi chiedono solo l’applicazione del diritto internazionale e dei diritti umani. Spero che (i leader politici) se ne rendano conto e si uniscano a noi.

D: A breve sarà in Italia per diversi incontri e iniziative pubbliche. Perché questo viaggio in Italia e cosa si aspetta dalla società italiana?

M: Grazie a questa visita (in Italia), speriamo di mobilitare i leader religiosi e i politici a parlare di più. E vogliamo sollevare la questione del diritto internazionale e dei diritti umani. Perché la posta in gioco è molto alta. Se il mondo è d’accordo con la distruzione di un’intera civiltà come pulizia etnica e genocidio, allora abbiamo davvero bisogno di una legge internazionale? È ancora rilevante? E vogliamo davvero preparare la strada a un mondo di caos, colonialismo e dominio dei potenti? Vogliamo che tutti i cristiani si schierino semplicemente per la giustizia e la verità, per l’umanità.

Opinione pubblica e informazione

D: In Occidente, e in particolare in Italia, l’opinione pubblica è scossa dalle notizie che arrivano dalla Palestina. Dietro quelle notizie, le migliaia di morti, c’è la devastazione di vite già molto precarie: cosa può fare la fede di fronte a tanto smarrimento?

M: Quello che sta accadendo a Gaza è una catastrofe umana. Migliaia di persone sono state uccise, altre migliaia sono ancora sotto le macerie. Stiamo ancora implorando e lavorando per supplicare l’ingresso degli aiuti umanitari, gli ospedali sono stati distrutti, i medici sono stati arrestati. Dov’è la comunità internazionale e dov’è la voce dei leader religiosi, quando non viene rispettato lo stato di diritto, i diritti umani, il diritto internazionale? Se noi, come leader religiosi, non alziamo la voce e non chiediamo responsabilità, chi lo farà?

Speranza nella perseveranza

D: Come luterano, qual è la parola di speranza che, nonostante la terribile tragedia dei rifugiati e delle famiglie distrutte, può annunciare oggi ai suoi ascoltatori?

M: Come cristiani palestinesi, la nostra speranza è quella di sopravvivere. Adesso ci troviamo nel momento peggiore della nostra storia, forse uno dei momenti peggiori della nostra storia. Siamo molto preoccupati per la nostra fede qui in Cisgiordania. Israele ha imposto così tante restrizioni, chiusure, posti di blocco, ha già iniziato a compiere operazioni di forza e incursioni nel nord, che hanno avuto un impatto anche sulla comunità cristiana di Jenin. Hanno distrutto gran parte del campo profughi con almeno 40.000 sfollati in Cisgiordania. Quindi qui a Betlemme siamo preoccupati: sarà questa la nostra fede? Perciò è difficile parlare di speranza, ad essere onesti: adesso speriamo solo di sopravvivere. Allo stesso tempo, parliamo di resilienza. Questo è l’argomento di cui parlano i palestinesi. Resilienza, più che altro la parola araba che si riferisce a resilienza, ovvero perseveranza. Stiamo chiamando il nostro popolo a perseverare e a continuare la testimonianza in questa terra.

Come luterani, insieme a tutte le famiglie della chiesa qui in Palestina, siamo determinati a continuare non solo a esistere, ma a testimoniare. Nonostante tutto, le nostre chiese stanno servendo, le scuole, la diaconia, lo sportello donna, l’ambiente, siamo molto impegnati nel nostro contesto contro ogni probabilità. Nonostante i posti di blocco, a volte impieghiamo ore per raggiungere le nostre chiese solo per pregare o per guidare le funzioni religiose o per riunirci. Siamo molto resistenti e decisi a continuare la testimonianza e a portare avanti la testimonianza del Vangelo nel luogo in cui tutto è iniziato.

Intervista a cura del responsabile della comunicazione della CELI, Gianluca Fiusco

Redazione Italia

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 3° parte

Eccoci alla terza e ultima parte dell’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i tragici fatti del Sud America, Aurora arriva in Europa, prima in Svezia e successivamente in Italia…

Arrivi in Italia nel 1976, quindi. Come te la sei cavata?

All’inizio, grazie a delle donne legate a padre David Maria Turoldo, trovai due case dove potevo andare a fare i lavori domestici. Poi, attraverso la mia attività col sindacato uruguaiano, trovai lavoro alla CGIL, dove ho lavorato per molti anni. In seguito ho trovato un impiego presso la Provincia di Milano, fino al 2015.

Veniamo a tutto quello che facesti in Italia per l’Uruguay

Fin dall’inizio girai tanto, anche per l’Europa, a raccontare, denunciare, quello che avveniva nel mio Paese. Facevo parte di un Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dell’Uruguay. Mi mossi anche molto con i compagni del partito comunista uruguaiano che erano in Italia, ma sempre sul piano della solidarietà. Grazie anche a Tucci, mio secondo marito, che è ancora qui con me ho potuto fare tutto questo, benchè con due figlie.

Nel frattempo scoprimmo che in Italia esisteva questo articolo 8 del Codice penale, per noi importantissimo, che dice che OVUNQUE succeda qualcosa ad un cittadino italiano, la giustizia italiana deve intervenire. Quindi noi, sull’onda del processo alla Esma (famoso luogo di tortura in Argentina) cominciammo a muoverci. Nel frattempo, il giudice Garzon in Spagna aveva chiesto il rimpatrio di Pinochet: qualcosa si stava muovendo. Così insieme ad altre quattro donne uruguaiane, ma con figli o mariti italiani, andammo alla procura di Roma. Li conoscemmo Giancarlo Capaldo, che era il Pubblico Ministero, e raccontammo le nostre storie. Lui stava già seguendo le vicende di altri cittadini italiani provenienti dal Cile e dall’Argentina, che avevano denunciato i militari dei loro Paesi. Capaldo, seguendo queste vicende (che avevano fra l’altro come centro principale Buenos Aires, dove avvenivano cose tremende) ebbe l’intuizione di mettere insieme queste storie. Ringrazierò quest’uomo tutta la vita.

Da destra: i PM Giancarlo Capaldo e Tiziana Cuggini, oltre gli avvocati dell’accusa

Avevamo iniziato a parlare di cosa fosse il Plan Condor negli anni ‘80: un piano strategico per eliminare gli oppositori alle dittature. La grandissima mano che ci permise di conoscere bene il Plan Condor ce la diede un uomo straordinario, paraguaiano, che abbiamo perso alcuni mesi fa: il professor Martin Almada. Ci raccontò che durante la sua prigionia in Paraguay aveva incontrato un militare (uno dei pochi militari oppositori del regime) che gli disse dove avrebbe potuto trovare tutta la documentazione su quello che si stava facendo in alcuni Paesi latinoamericani. Il Plan Condor dava la possibilità alle polizie dei vari paesi dell’area di perseguire ovunque nel Cono Sur i propri oppositori. In effetti una volta uno dei vertici militari aveva detto: “La sinistra non vuole le frontiere? Anche noi non le vogliamo!”.
Venne così trovato ad Asuncion, in Paraguay, quello che si è chiamato l’archivio del terrore, dove si poteva leggere tutto. Era un piano sottoscritto in Cile da tutte le dittature del semicontinente.

Come andò il processo che metteste in piedi con Capaldo?

La giustizia italiana ci ha messo molto tempo, ma era normale, ci voleva molto tempo per avere i documenti da quei Paesi, fare le traduzioni, superare gli intoppi burocratici sia qui in Italia che lì, e poi si fecero molti viaggi in Sud America. Ci volle tempo, fatica, costanza. Capaldo raccolse moltissime dichiarazioni. Volle sentire giornalisti, esperti, storici, i testimoni furono circa 140. Alla fine, Capaldo sentì che aveva ricostruito tutto il quadro, andò davanti al giudice e venne riconosciuto che questo era un processo da farsi. Dal 1999 al 2015 furono gli anni delle ricerche, nel 2015 iniziò il processo pubblico. Certo, io avrei voluto in Uruguay un processo giusto per la morte di mio marito. Non è stato possibile. L’Italia ha compensato questa grave mancanza.

Considerate che si trattava di un processo fatto dopo decine di anni, a migliaia di chilometri di distanza, con alcuni giudici popolari che non sapevano neanche dove fossero questi Paesi. In quegli anni si sapeva poco e si parlava pochissimo di quelle dittature. Andava spiegato tutto. Nelle piazze si era parlato soprattutto del Cile, ma ben poco dei processi. Bisogna però riconoscere che le condanne definitive del nostro processo in America Latina ebbero ripercussioni enormi. Molti avvocati e giudici di là si rivolsero a noi per avere le sentenze italiane. Venne creato un precedente fondamentale. Quell’articolo 8 qui in Italia fu importantissimo. Il processo avviato da noi si concluse nel 2021 con la seguente condanna definitiva: “Tutti gli imputati vivi, all’ergastolo”. Certo, uno solo andò in galera, un militare che di nome Troccoli che viveva a Salerno. Molti erano morti, altri erano già in carcere nei nostri Paesi.

Ma allora perché dici che fu l’Italia a darti giustizia?

Prima di tutto perché in Sud America non si è mai fatto un processo Condor, ma solo processi riferiti a una o due vittime.

Tu seguisti il processo a Roma: dovevi o volevi?

Io collaboravo, insieme ad altre, con il PM Capaldo nella ricerca di materiale e nelle traduzioni.
La mole di carte che producemmo fu impressionante, dovemmo presentare le prove su tutto. Tutto. Di dolito venivo accompagnata a Roma dai miei tre nipoti.

Da destra: la PM Cuggini, Aurora Meloni e il suo avvocato Giancarlo Maniga

Alla fine del processo giudiziario, nel ’21, tirai il fiato, ma già con la prima sentenza io avevo pianto. Qualcuno mi ha chiesto a cosa avessi pensato in quel momento… Io avevo pensato a Daniel, a Guillermo, a Luis, a tutti quelli che non c’erano più e a quelli che ancora non avevano trovato. Non devi dimenticare che noi abbiamo ancora una ferita aperta, che sono i desaparecidos. Il problema vero è che noi sappiamo che loro (i militari) SANNO. Ancora pochi mesi fa abbiamo trovato in un presidio militare i resti di una compagna scomparsa nel ’77. Sono i resti della settima vittima che ritroviamo dei 197 scomparsi che abbiamo in Uruguay. Solo 7! Dopo 50 anni! Una lentezza tremenda, anche perché non ci sono finanziamenti per la ricerca e per gli scavi. Noi poi ci rivolgiamo ad antropologi argentini per l’identificazione del DNA, non è semplice.

Comunque, per me, questo processo è stata GIUSTIZIA. Pensa che il relatore della Corte di Cassazione, il dottor Gaeta, fece un intervento di più di un’ora, determinando poi la decisione della corte, in cui analizzò punto per punto tutto quello che portava alla condanna di questi criminali. Un intervento meraviglioso, come se lo avessimo scritto noi, e da parte di un relatore della Cassazione: a questi livelli non avviene mai che vi sia un tale coinvolgimento. Quando con quest’uomo ci vedemmo presso un’università romana per un incontro, piangemmo insieme.

Quanto poi è stato reso pubblico il risultato di questo processo, in Italia?

Un po’ di risonanza ci fu. Durante il processo entrammo in contatto con diversi giornalisti, io intervenni in diversi servizi di RaiNews e Radio1, oltre ai contatti con i tanti amici in Italia e a numerosi blog che ci hanno dato spazio. Se cerchi su internet la vicenda del processo Condor, trovi moltissimo materiale. In America Latina si parla ancora dell’esito di questo processo e del plan Condor.

Chi si fece carico delle spese di questo lungo processo?

Soprattutto lo Stato italiano. Alcune regioni italiane, alle quali la vittima apparteneva, hanno aiutato. La chiesa valdese partecipò alle spese.

Cosa pensi di coloro che al giorno d’oggi hanno nostalgia di quelle dittature o sono negazionisti rispetto ai fatti che voi avete denunciato?

Noi dobbiamo continuare a raccontare la nostra storia e a spiegare che non si può negare quello che è avvenuto. Io mi sono ancora emozionata quando, pochi giorni fa, ho visto le immagini dell’estremo saluto ai resti della compagna di cui parlavo prima, fatto nell’enorme atrio dell’università di Montevideo. Ho visto un popolo che piangeva e che diceva: “la tua lotta continua ad essere la nostra”, e tra loro moltissimi giovani. Sono pochi resti, in un’urna, ma emozionano ancora moltissimo. A noi rimane l’ultima madre di quel periodo, che tra poco compirà cento anni, lucidissima. Ogni volta che posso vado a parlare, a raccontare, nelle scuole, soprattutto intorno al Giorno della Memoria. Pur se è difficile con i tempi che corrono, dobbiamo insistere perché sia davvero “nunca mas”.

Per chiudere, cosa pensi dell’essere umano e della sua capacità di compiere violenze?

Che non ha limiti. Che è ancora incredibile, nonostante la storia, pensare che un essere umano possa essere così crudele, malvagio, spietato…ma poi ci guardiamo intorno e vediamo le guerre in atto: di cosa ci stupiamo?. E non solo le guerre. Che dire: che il sopravvento è stato preso dal potere e dal denaro, come continua a ripetere Francesco.  Io credo che la forza per combattere tutto ciò si possa trovare nella lotta. Sempre. Perché credere nella vita, nell’amore e nell’essere umano è lo stimolo, e anche l’esempio che mi sento di trasmettere ai miei nipoti.

Anche in questa lotta, lunga, faticosa, dura, foste quasi esclusivamente donne, perché?

Forse perché noi diamo la vita, quindi siamo molto attaccate ad essa. Non voglio dire che gli uomini non abbiano forza, abbiamo avuto al nostro fianco uomini bravissimi, ma la nostra è particolare.

Um’ultima nota, un po’ sciocca: hai un cognome impegnativo adesso…

(Aurora ride) Non c’entro niente.

 

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 2° parte

Riprendiamo l’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i terribili fatti avvenuti in Sud America, con il rapimento e il successivo omicidio del marito, la sua storia continua in Europa.

Arrivi in Svezia, come continua la tua storia?

La Svezia era allora l’unico Paese europeo che ci accoglieva. A Buenos Aires, durante la ricerca dei ragazzi, ero andata all’ambasciata italiana dove mi avevano trattato molto male, nonostante avessi detto loro che sia io che Daniel eravamo di origine italiana. Mi risposero: “Di terroristi in Italia abbiamo già i nostri.” Dopo due giorni a Stoccolma (dove governava Olof Palme) ci spostarono in un villaggio, una grande area con una serie di casette completamente arredate nella località di Alvesta. Trovammo soprattutto compagni cileni… Sei mesi dopo, ci diedero un appartamento in una cittadina nel Sud della Svezia, Malmö. Io cominciai a studiare lo svedese, le bimbe andavano alla scuola per l’infanzia.

In quel momento non ne volevi più sapere di politica?

In quel momento non volevo sapere più nulla dei partiti politici. Personalmente credo che molta della responsabilità sia stata dei dirigenti, sia del movimento guerrigliero che dei partiti. Ho comunque capito che bisognava iniziare con le denunce, attivare e mettere in pratica la solidarietà dell’Europa, visto che avevamo migliaia di prigionieri politici, non solo in Uruguay, che vivevano una repressione durissima nei lager e nelle carceri dei nostri Paesi. Non credevo più nella guerriglia, ma continuavo a credere nella politica, nella Democrazia e soprattutto nella Libertà.

C’era un rapporto tra il Frente Amplio e la guerriglia dei Tupamaros?

Formalmente no, ma di fatto si, e ogni volta che i guerriglieri denunciavano sequestri, torture e uccisioni, erano spalleggiati dai partiti del Frente Amplio. L’esempio più chiaro è stato Zelmar Michelini, che ho citato prima. Una delle figlie di Michelini, Elisa, era militante dei Tupamaros. Lui fu minacciato in questi termini: “Se fai ancora qualcosa di simile a quando andasti al tribunale Russell in Europa a parlare di noi… tua figlia inizierà ad essere torturata.” Elisa in quel tempo era in galera, ma non l’avevano ancora toccata. Ho visto Zelmar piangere quando è arrivato in Argentina, perché avevano iniziato a torturarla. Lui non poteva stare fermo e zitto, nessuno di quei politici poteva farlo, con quello che stava accadendo. La tortura era sistematica, le persone in Uruguay venivano fatte a pezzi. Poi c’era il dramma degli scomparsi che esplose dopo il golpe in Argentina nel 1976.

Quindi sia in Uruguay che in Argentina il golpe non fu un passaggio netto, “dal bianco al nero”, ma iniziò ben prima

Sì, soprattutto in Uruguay. Già alla fine degli anni ’60 un governo eletto aveva iniziato a dar vita alle “medidas de seguridad” per le quali si vietava la propaganda politica, e la stessa parola Tupamaros (la stampa doveva dire “sovversivi”, “innominabili”). Se dicevi “Tupamaros”, andavi in galera. Avevano chiuso tutta la stampa di opposizione. Nelle elezioni del 1971 ci furono brogli, al Frente Amplio furono rubati molti voti. Nel 1972 il governo dichiarò lo “stato di guerra interna”.

Quindi tutti noi ricordiamo l’11 settembre del ’73 in Cile perché quello fu davvero un salto radicale dal “bianco al nero”. I golpe in Uruguay e in Argentina furono solo il consolidamento di una situazione che era già in atto?

Senza dubbio. Arrivammo in Italia nel ’76 perché io in Svezia non ce la facevo più…avevo un papà italiano, di Borgotaro (Parma) e volevo venire in Italia, la terra di mio padre. In Italia sentivo parlare SOLO del golpe in Cile che, comprendo bene, aveva colpito profondamente sia il sistema politico che i cittadini. Con altri compagni uruguaiani ci demmo proprio il compito di far sapere in Italia e in Europa che in Uruguay c’era stato un colpo di stato. Il caso dell’Argentina è stato diverso, con i desaparecidos, a migliaia, con le madri di Plaza de Mayo che si organizzarono per la ricerca e la denuncia e che oggi sono il simbolo dalla lotta per la Memoria, la Verità e la Giustizia. L’Argentina poi era un Paese grande e importante.

Ricordo che poco dopo il mio arrivo andai alla questura col mio passaporto di ACNUR, l’unico che ancora avevo. Dissi loro che volevo i miei documenti italiani. Tieni conto che di immigrazione in Italia, a quel tempo, non se ne parlava proprio (c’era solo popolazione somala ed eritrea, qualche cittadino greco, qualche portoghese e qualche spagnolo). L’agente mi disse: “Ma se lei è figlia di italiani è italiana, basta, mica ha bisogno di un documento come rifugiato politico!” Quando ritornai all’ufficio immigrazione, un altro agente che mi aveva fermato e a cui dissi che ero uruguayana, mi lasciò andare sorridendo dopo aver nominato alcuni tra i giocatori di calcio dell’allora famosa nazionale uruguayana. Così feci i documenti.

Come andò avanti la storia della dittatura in Uruguay?

Furono anni di repressione tremenda, solo verso il 1983 le forze politiche, di fronte ad un fallimento totale della dittatura (avevano rubato tutto quello che c’era da rubare), cominciarono a guadagnare terreno. La situazione generale era cambiata, l’Africa si era liberata (almeno formalmente) dai colonizzatori. Spagna, Grecia e Portogallo erano diventati delle democrazie. Nell’84 ci fu un accordo tra alcuni partiti (di centro e di destra) e i militari,, che cercavano di resistere in tutti i modi. Nell’84 si fecero le elezioni e noi tornammo per votare. Vinse il partito Colorado che da più di un secolo aveva quasi sempre governato ed era composto dalla buona borghesia metropolitana del Paese. L’altro partito, il Blanco, rappresentava la parte agraria, ma erano comunque due partiti di centro-destra, e in quel momento erano gli unici “legali”. Il primo presidente, Julio Maria Sanguineti, fece subito un’amnistia che liberò tutti i prigionieri politici (compreso Pepe Mujica), ma anche i militari che non vennero quindi giudicati. Fu fatto anche un referendum per stabilire se i militari potevano essere processati, ma perdemmo, la gente aveva paura e aveva buoni motivi per averne. Poi il Frente Amplio è cresciuto, si è presentato alle elezioni locali e ha conquistato la città di Montevideo. Poi fino al 2020 ha governato il Frente Amplio. Questo governo stabilì che quell’amnistia per i militari era incostituzionale e che i militari colpevoli di crimini di lesa umanità, potessero essere processati. Ora, dopo 50 anni, stanno ancora arrivando denunce.

E Pepe Mujica?

È malato, ha dichiarato in una conferenza stampa che ha un cancro all’esofago, è un vecchio saggio. Dice parole importantissime ai giovani, trasmette carica, coraggio, speranza, per l’ambiente e contro la rassegnazione.

Quando andai a votare in Uruguay dopo tanti anni, ero convinta di rimanere lì, ma fu il padre di Daniel, il mio primo suocero, a dirmi: “Ma di cosa vivi se vieni qui?”. Il Paese era rovinato, così tornai in Italia.

 

Fine seconda parte

 

Qui il link alla terza e ultima parte

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

Una delegazione di Kairos Palestine in Italia. L’ntervista al pastore Isaac Munther pubblicata su Chiesa luterana

È iniziata a Napoli, il 17 e 18 febbraio 2025, la visita in Italia della delegazione di Kairos Palestine, accompagnata dalla Campagna Ponti e non Muri di Pax Christi Italia.
È proseguita il 19 febbraio a Roma, in particolare con l’incontro alla Commissione Esteri della Camera.
Successivamente, il 20 febbraio a Firenze; il 21 febbraio a Bologna; il 22 febbraio a Padova e il 23 febbraio a Venezia (per il programma completo, vedi https://bocchescucite.org/kairos-palestina-in-italia-dal-17-al-23-febbraio-2025/).

«Un genocidio in corso a Gaza e nella Palestina, un grido di dolore da parte della popolazione locale vittima di un’occupazione e colonizzazione decennale delle sue terre e deprivata di ogni diritto; un appello accorato di preghiera e di impegno, “una parola di verità, fede, speranza e nonviolenza” raccolto e rilanciato da tredici confessioni cristiane di Terrasana che, nel 2009, hanno firmato lo storico appello “Kairos Palestine: A Moment of Truth”. La delegazione di Kairos Palestina è composta dal pastore e teologo cristiano palestinese Munther Isaac, Preside del Bethlehem Bible College e direttore del ciclo di conferenze Christ at the CheckpointRifat Kassis, attivista nella lotta nonviolenta palestinese, coautore del documento Kairos Palestine e coordinatore della coalizione Global Kairos for Justice e l’avvocata Sahar Francis, direttrice dell’associazione per i diritti umani dei prigionieri ADAMEER di Ramallah» (dal comunicato stampa, in https://bocchescucite.org/delegazione-di-kairos-in-italia-dal-18-al-23-febbraio-2025/).

L’intervista rilasciata dal pastore luterano Isaac Munther pubblicata originariamente su Chiesa luterana.

In questi giorni in Italia con Kairos Palestine

Isaac Munther (il cui nome deriva dall’arabo Mundhir, colui che gli altri seguono) è preside del Bethlehem Bible College in Palestina e direttore della conferenza Christ at the Checkpoint (che è anche il titolo di un suo libro). È pastore luterano della Chiesa Evangelica Luterana di Betlemme (Affiliata alla Federazione Luterana Mondiale). Sarà in Italia fino al 23 febbraio prossimo per una serie di conferenze assieme alla delegazione di Kairos Palestine.

Il pastore luterano Isaac Munther

Mentre era in viaggio lo abbiamo raggiunto per rivolgergli alcune domande sulla situazione globale e a Gaza.

Neutralità, equilibrio, rimanere in bilico?

D: Pastore Munther, il suo sermone di Natale del 2023 ha avuto una grande eco. A volte ci convinciamo che essere cristiani significa rimanere in bilico. Ma, per un luterano, ha senso e cosa significa equilibrio?

M: Per me è un falso presupposto che la pacificazione significhi neutralità. Nella pacificazione dobbiamo schierarci. Dobbiamo dire le cose per ciò che sono. Dobbiamo dire la verità: Dio si schiera. Si schiera con gli oppressi e gli emarginati. E ci chiama a dire la verità. Per questo motivo, non credo che la Chiesa possa essere neutrale, soprattutto quando c’è un genocidio che si sta svolgendo sotto gli occhi di tutto il mondo. Inoltre, per quanto riguarda l’equilibrio, qui in Palestina non c’è alcun conflitto. C’è occupazione, apartheid, colonialismo. Non si può pensare di avere un equilibrio tra l’occupante e l’occupato, l’oppressore e l’oppresso. Questo squilibrio di potere deve essere affrontato e i cristiani devono tenerne conto.

Siamo esseri umani uguali?

D: In uno dei passaggi della sua predicazione ha sottolineato la stanchezza di vedere, giorno dopo giorno, immagini di bambini e famiglie tirati fuori da sotto le macerie. Non riusciamo a capire come sia possibile che tutto questo vada bene. Che cosa è diventata questa stanchezza oggi?

M: L’impatto nell’osservare il genocidio giorno dopo giorno, la vita sulla terra, con il silenzio di molti nel mondo, ci ha convinto, come palestinesi, che molti nel mondo occidentale, specialmente i leader, politici e purtroppo in alcuni casi anche religiosi non ci vedono come uguali: non ci guardano come esseri umani uguali a loro. Altrimenti, sarebbero d’accordo con quel che accade? Tutto ciò ha avuto un forte impatto psicologico su di noi, ma allo stesso tempo ha reso più forte la nostra determinazione e la nostra fede in Dio, perché siamo convinti che Dio sia dalla parte degli oppressi. I leader della fede oggi devono alzare la voce e chiedere responsabilità. La posta in gioco oggi è molto alta.

D: La Chiesa Evangelica Luterana in Italia ha espresso preoccupazione per la sorte del popolo palestinese. Abbiamo spesso assistito che anche solo esprimerle porta alla strumentalizzate e talvolta a parlare di antisemitismo. Perché è oggi così difficile stare dalla parte di chi soffre, con il rischio di essere strumentalizzati?

M: Come umanità, abbiamo creato leggi, diritti umani, convenzioni internazionali per prevenire i genocidi, per evitare la pulizia etnica, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Quindi, come leader della Chiesa, dobbiamo alzare la voce e dire che non ci sta bene un mondo di caos in cui i potenti e i ricchi fanno quello che vogliono senza alcuna responsabilità. Che tipo di mondo vogliamo lasciare ai nostri figli se le persone commettono crimini di guerra senza essere ritenute responsabili? Purtroppo, per noi palestinesi, il diritto internazionale è sempre stato irrilevante, perché non è mai stato applicato, né con gli insediamenti né con l’apartheid che esiste nella nostra terra. Le organizzazioni per i diritti umani, gli esperti legali, hanno dichiarato che si tratta di apartheid, ma la Chiesa rimane in silenzio. E ora è chiaramente un genocidio. Se volete non prendete in considerazione le nostre parole ma, almeno, prendete in considerazione le parole degli esperti, degli storici, dei professori, della Corte di Giustizia Internazionale, dei rapporti speciali delle Nazioni Unite, di tutti coloro che conoscono il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra: sanno che si tratta di un genocidio. Perché le Chiese faticano a definirlo tale? Perché i leader religiosi non ne chiedono conto? Quello che Trump sta proponendo riguardo a Gaza è una pulizia etnica. Vuole spostare con la forza due milioni di palestinesi. Questa è la definizione di pulizia etnica.

Gaza tra Italia e USA

D: Il governo italiano sembra essere schierato con il nuovo presidente degli Stati Uniti, Trump. Quest’ultimo che ritiene utile sostenere apertamente una soluzione che sia più favorevole al governo israeliano. Come valuta questa situazione?

M: La mia domanda al governo e ai leader italiani è: si schiereranno con la pulizia etnica, che è un crimine di guerra? È questo il loro credo? Devono rispondere. Dobbiamo denunciare il sionismo e denunciare che il sionismo per quello che è non ha nulla a che fare con l’ebraismo. Infatti, oggi i più forti oppositori del sionismo sono proprio gli ebrei di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti e anche alcuni in Israele. Dobbiamo dire la verità e fare attenzione a non essere etichettati. Allo stesso tempo, dobbiamo controllare i nostri discorsi e il nostro linguaggio. Capisco perfettamente e sono d’accordo. L’antisemitismo esiste, è reale ed è malvagio. Ma allo stesso tempo, rendiamoci conto che l’antisemitismo ha origine in Europa. Perché i palestinesi devono pagare il prezzo dell’antisemitismo occidentale? E io, in quanto palestinese, rifiuto con tutto il cuore di parlare di giustizia per i palestinesi e dell’applicazione del diritto internazionale per poi essere etichettato come antisemita. Quello che mi viene chiesto di capire è che i palestinesi chiedono solo l’applicazione del diritto internazionale e dei diritti umani. Spero che (i leader politici) se ne rendano conto e si uniscano a noi.

D: A breve sarà in Italia per diversi incontri e iniziative pubbliche. Perché questo viaggio in Italia e cosa si aspetta dalla società italiana?

M: Grazie a questa visita (in Italia), speriamo di mobilitare i leader religiosi e i politici a parlare di più. E vogliamo sollevare la questione del diritto internazionale e dei diritti umani. Perché la posta in gioco è molto alta. Se il mondo è d’accordo con la distruzione di un’intera civiltà come pulizia etnica e genocidio, allora abbiamo davvero bisogno di una legge internazionale? È ancora rilevante? E vogliamo davvero preparare la strada a un mondo di caos, colonialismo e dominio dei potenti? Vogliamo che tutti i cristiani si schierino semplicemente per la giustizia e la verità, per l’umanità.

Opinione pubblica e informazione

D: In Occidente, e in particolare in Italia, l’opinione pubblica è scossa dalle notizie che arrivano dalla Palestina. Dietro quelle notizie, le migliaia di morti, c’è la devastazione di vite già molto precarie: cosa può fare la fede di fronte a tanto smarrimento?

M: Quello che sta accadendo a Gaza è una catastrofe umana. Migliaia di persone sono state uccise, altre migliaia sono ancora sotto le macerie. Stiamo ancora implorando e lavorando per supplicare l’ingresso degli aiuti umanitari, gli ospedali sono stati distrutti, i medici sono stati arrestati. Dov’è la comunità internazionale e dov’è la voce dei leader religiosi, quando non viene rispettato lo stato di diritto, i diritti umani, il diritto internazionale? Se noi, come leader religiosi, non alziamo la voce e non chiediamo responsabilità, chi lo farà?

Speranza nella perseveranza

D: Come luterano, qual è la parola di speranza che, nonostante la terribile tragedia dei rifugiati e delle famiglie distrutte, può annunciare oggi ai suoi ascoltatori?

M: Come cristiani palestinesi, la nostra speranza è quella di sopravvivere. Adesso ci troviamo nel momento peggiore della nostra storia, forse uno dei momenti peggiori della nostra storia. Siamo molto preoccupati per la nostra fede qui in Cisgiordania. Israele ha imposto così tante restrizioni, chiusure, posti di blocco, ha già iniziato a compiere operazioni di forza e incursioni nel nord, che hanno avuto un impatto anche sulla comunità cristiana di Jenin. Hanno distrutto gran parte del campo profughi con almeno 40.000 sfollati in Cisgiordania. Quindi qui a Betlemme siamo preoccupati: sarà questa la nostra fede? Perciò è difficile parlare di speranza, ad essere onesti: adesso speriamo solo di sopravvivere. Allo stesso tempo, parliamo di resilienza. Questo è l’argomento di cui parlano i palestinesi. Resilienza, più che altro la parola araba che si riferisce a resilienza, ovvero perseveranza. Stiamo chiamando il nostro popolo a perseverare e a continuare la testimonianza in questa terra.

Come luterani, insieme a tutte le famiglie della chiesa qui in Palestina, siamo determinati a continuare non solo a esistere, ma a testimoniare. Nonostante tutto, le nostre chiese stanno servendo, le scuole, la diaconia, lo sportello donna, l’ambiente, siamo molto impegnati nel nostro contesto contro ogni probabilità. Nonostante i posti di blocco, a volte impieghiamo ore per raggiungere le nostre chiese solo per pregare o per guidare le funzioni religiose o per riunirci. Siamo molto resistenti e decisi a continuare la testimonianza e a portare avanti la testimonianza del Vangelo nel luogo in cui tutto è iniziato.

Intervista a cura del responsabile della comunicazione della CELI, Gianluca Fiusco

Redazione Italia

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 3° parte

Eccoci alla terza e ultima parte dell’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i tragici fatti del Sud America, Aurora arriva in Europa, prima in Svezia e successivamente in Italia…

Arrivi in Italia nel 1976, quindi. Come te la sei cavata?

All’inizio, grazie a delle donne legate a padre David Maria Turoldo, trovai due case dove potevo andare a fare i lavori domestici. Poi, attraverso la mia attività col sindacato uruguaiano, trovai lavoro alla CGIL, dove ho lavorato per molti anni. In seguito ho trovato un impiego presso la Provincia di Milano, fino al 2015.

Veniamo a tutto quello che facesti in Italia per l’Uruguay

Fin dall’inizio girai tanto, anche per l’Europa, a raccontare, denunciare, quello che avveniva nel mio Paese. Facevo parte di un Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dell’Uruguay. Mi mossi anche molto con i compagni del partito comunista uruguaiano che erano in Italia, ma sempre sul piano della solidarietà. Grazie anche a Tucci, mio secondo marito, che è ancora qui con me ho potuto fare tutto questo, benchè con due figlie.

Nel frattempo scoprimmo che in Italia esisteva questo articolo 8 del Codice penale, per noi importantissimo, che dice che OVUNQUE succeda qualcosa ad un cittadino italiano, la giustizia italiana deve intervenire. Quindi noi, sull’onda del processo alla Esma (famoso luogo di tortura in Argentina) cominciammo a muoverci. Nel frattempo, il giudice Garzon in Spagna aveva chiesto il rimpatrio di Pinochet: qualcosa si stava muovendo. Così insieme ad altre quattro donne uruguaiane, ma con figli o mariti italiani, andammo alla procura di Roma. Li conoscemmo Giancarlo Capaldo, che era il Pubblico Ministero, e raccontammo le nostre storie. Lui stava già seguendo le vicende di altri cittadini italiani provenienti dal Cile e dall’Argentina, che avevano denunciato i militari dei loro Paesi. Capaldo, seguendo queste vicende (che avevano fra l’altro come centro principale Buenos Aires, dove avvenivano cose tremende) ebbe l’intuizione di mettere insieme queste storie. Ringrazierò quest’uomo tutta la vita.

Da destra: i PM Giancarlo Capaldo e Tiziana Cuggini, oltre gli avvocati dell’accusa

Avevamo iniziato a parlare di cosa fosse il Plan Condor negli anni ‘80: un piano strategico per eliminare gli oppositori alle dittature. La grandissima mano che ci permise di conoscere bene il Plan Condor ce la diede un uomo straordinario, paraguaiano, che abbiamo perso alcuni mesi fa: il professor Martin Almada. Ci raccontò che durante la sua prigionia in Paraguay aveva incontrato un militare (uno dei pochi militari oppositori del regime) che gli disse dove avrebbe potuto trovare tutta la documentazione su quello che si stava facendo in alcuni Paesi latinoamericani. Il Plan Condor dava la possibilità alle polizie dei vari paesi dell’area di perseguire ovunque nel Cono Sur i propri oppositori. In effetti una volta uno dei vertici militari aveva detto: “La sinistra non vuole le frontiere? Anche noi non le vogliamo!”.
Venne così trovato ad Asuncion, in Paraguay, quello che si è chiamato l’archivio del terrore, dove si poteva leggere tutto. Era un piano sottoscritto in Cile da tutte le dittature del semicontinente.

Come andò il processo che metteste in piedi con Capaldo?

La giustizia italiana ci ha messo molto tempo, ma era normale, ci voleva molto tempo per avere i documenti da quei Paesi, fare le traduzioni, superare gli intoppi burocratici sia qui in Italia che lì, e poi si fecero molti viaggi in Sud America. Ci volle tempo, fatica, costanza. Capaldo raccolse moltissime dichiarazioni. Volle sentire giornalisti, esperti, storici, i testimoni furono circa 140. Alla fine, Capaldo sentì che aveva ricostruito tutto il quadro, andò davanti al giudice e venne riconosciuto che questo era un processo da farsi. Dal 1999 al 2015 furono gli anni delle ricerche, nel 2015 iniziò il processo pubblico. Certo, io avrei voluto in Uruguay un processo giusto per la morte di mio marito. Non è stato possibile. L’Italia ha compensato questa grave mancanza.

Considerate che si trattava di un processo fatto dopo decine di anni, a migliaia di chilometri di distanza, con alcuni giudici popolari che non sapevano neanche dove fossero questi Paesi. In quegli anni si sapeva poco e si parlava pochissimo di quelle dittature. Andava spiegato tutto. Nelle piazze si era parlato soprattutto del Cile, ma ben poco dei processi. Bisogna però riconoscere che le condanne definitive del nostro processo in America Latina ebbero ripercussioni enormi. Molti avvocati e giudici di là si rivolsero a noi per avere le sentenze italiane. Venne creato un precedente fondamentale. Quell’articolo 8 qui in Italia fu importantissimo. Il processo avviato da noi si concluse nel 2021 con la seguente condanna definitiva: “Tutti gli imputati vivi, all’ergastolo”. Certo, uno solo andò in galera, un militare che di nome Troccoli che viveva a Salerno. Molti erano morti, altri erano già in carcere nei nostri Paesi.

Ma allora perché dici che fu l’Italia a darti giustizia?

Prima di tutto perché in Sud America non si è mai fatto un processo Condor, ma solo processi riferiti a una o due vittime.

Tu seguisti il processo a Roma: dovevi o volevi?

Io collaboravo, insieme ad altre, con il PM Capaldo nella ricerca di materiale e nelle traduzioni.
La mole di carte che producemmo fu impressionante, dovemmo presentare le prove su tutto. Tutto. Di dolito venivo accompagnata a Roma dai miei tre nipoti.

Da destra: la PM Cuggini, Aurora Meloni e il suo avvocato Giancarlo Maniga

Alla fine del processo giudiziario, nel ’21, tirai il fiato, ma già con la prima sentenza io avevo pianto. Qualcuno mi ha chiesto a cosa avessi pensato in quel momento… Io avevo pensato a Daniel, a Guillermo, a Luis, a tutti quelli che non c’erano più e a quelli che ancora non avevano trovato. Non devi dimenticare che noi abbiamo ancora una ferita aperta, che sono i desaparecidos. Il problema vero è che noi sappiamo che loro (i militari) SANNO. Ancora pochi mesi fa abbiamo trovato in un presidio militare i resti di una compagna scomparsa nel ’77. Sono i resti della settima vittima che ritroviamo dei 197 scomparsi che abbiamo in Uruguay. Solo 7! Dopo 50 anni! Una lentezza tremenda, anche perché non ci sono finanziamenti per la ricerca e per gli scavi. Noi poi ci rivolgiamo ad antropologi argentini per l’identificazione del DNA, non è semplice.

Comunque, per me, questo processo è stata GIUSTIZIA. Pensa che il relatore della Corte di Cassazione, il dottor Gaeta, fece un intervento di più di un’ora, determinando poi la decisione della corte, in cui analizzò punto per punto tutto quello che portava alla condanna di questi criminali. Un intervento meraviglioso, come se lo avessimo scritto noi, e da parte di un relatore della Cassazione: a questi livelli non avviene mai che vi sia un tale coinvolgimento. Quando con quest’uomo ci vedemmo presso un’università romana per un incontro, piangemmo insieme.

Quanto poi è stato reso pubblico il risultato di questo processo, in Italia?

Un po’ di risonanza ci fu. Durante il processo entrammo in contatto con diversi giornalisti, io intervenni in diversi servizi di RaiNews e Radio1, oltre ai contatti con i tanti amici in Italia e a numerosi blog che ci hanno dato spazio. Se cerchi su internet la vicenda del processo Condor, trovi moltissimo materiale. In America Latina si parla ancora dell’esito di questo processo e del plan Condor.

Chi si fece carico delle spese di questo lungo processo?

Soprattutto lo Stato italiano. Alcune regioni italiane, alle quali la vittima apparteneva, hanno aiutato. La chiesa valdese partecipò alle spese.

Cosa pensi di coloro che al giorno d’oggi hanno nostalgia di quelle dittature o sono negazionisti rispetto ai fatti che voi avete denunciato?

Noi dobbiamo continuare a raccontare la nostra storia e a spiegare che non si può negare quello che è avvenuto. Io mi sono ancora emozionata quando, pochi giorni fa, ho visto le immagini dell’estremo saluto ai resti della compagna di cui parlavo prima, fatto nell’enorme atrio dell’università di Montevideo. Ho visto un popolo che piangeva e che diceva: “la tua lotta continua ad essere la nostra”, e tra loro moltissimi giovani. Sono pochi resti, in un’urna, ma emozionano ancora moltissimo. A noi rimane l’ultima madre di quel periodo, che tra poco compirà cento anni, lucidissima. Ogni volta che posso vado a parlare, a raccontare, nelle scuole, soprattutto intorno al Giorno della Memoria. Pur se è difficile con i tempi che corrono, dobbiamo insistere perché sia davvero “nunca mas”.

Per chiudere, cosa pensi dell’essere umano e della sua capacità di compiere violenze?

Che non ha limiti. Che è ancora incredibile, nonostante la storia, pensare che un essere umano possa essere così crudele, malvagio, spietato…ma poi ci guardiamo intorno e vediamo le guerre in atto: di cosa ci stupiamo?. E non solo le guerre. Che dire: che il sopravvento è stato preso dal potere e dal denaro, come continua a ripetere Francesco.  Io credo che la forza per combattere tutto ciò si possa trovare nella lotta. Sempre. Perché credere nella vita, nell’amore e nell’essere umano è lo stimolo, e anche l’esempio che mi sento di trasmettere ai miei nipoti.

Anche in questa lotta, lunga, faticosa, dura, foste quasi esclusivamente donne, perché?

Forse perché noi diamo la vita, quindi siamo molto attaccate ad essa. Non voglio dire che gli uomini non abbiano forza, abbiamo avuto al nostro fianco uomini bravissimi, ma la nostra è particolare.

Um’ultima nota, un po’ sciocca: hai un cognome impegnativo adesso…

(Aurora ride) Non c’entro niente.

 

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 2° parte

Riprendiamo l’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i terribili fatti avvenuti in Sud America, con il rapimento e il successivo omicidio del marito, la sua storia continua in Europa.

Arrivi in Svezia, come continua la tua storia?

La Svezia era allora l’unico Paese europeo che ci accoglieva. A Buenos Aires, durante la ricerca dei ragazzi, ero andata all’ambasciata italiana dove mi avevano trattato molto male, nonostante avessi detto loro che sia io che Daniel eravamo di origine italiana. Mi risposero: “Di terroristi in Italia abbiamo già i nostri.” Dopo due giorni a Stoccolma (dove governava Olof Palme) ci spostarono in un villaggio, una grande area con una serie di casette completamente arredate nella località di Alvesta. Trovammo soprattutto compagni cileni… Sei mesi dopo, ci diedero un appartamento in una cittadina nel Sud della Svezia, Malmö. Io cominciai a studiare lo svedese, le bimbe andavano alla scuola per l’infanzia.

In quel momento non ne volevi più sapere di politica?

In quel momento non volevo sapere più nulla dei partiti politici. Personalmente credo che molta della responsabilità sia stata dei dirigenti, sia del movimento guerrigliero che dei partiti. Ho comunque capito che bisognava iniziare con le denunce, attivare e mettere in pratica la solidarietà dell’Europa, visto che avevamo migliaia di prigionieri politici, non solo in Uruguay, che vivevano una repressione durissima nei lager e nelle carceri dei nostri Paesi. Non credevo più nella guerriglia, ma continuavo a credere nella politica, nella Democrazia e soprattutto nella Libertà.

C’era un rapporto tra il Frente Amplio e la guerriglia dei Tupamaros?

Formalmente no, ma di fatto si, e ogni volta che i guerriglieri denunciavano sequestri, torture e uccisioni, erano spalleggiati dai partiti del Frente Amplio. L’esempio più chiaro è stato Zelmar Michelini, che ho citato prima. Una delle figlie di Michelini, Elisa, era militante dei Tupamaros. Lui fu minacciato in questi termini: “Se fai ancora qualcosa di simile a quando andasti al tribunale Russell in Europa a parlare di noi… tua figlia inizierà ad essere torturata.” Elisa in quel tempo era in galera, ma non l’avevano ancora toccata. Ho visto Zelmar piangere quando è arrivato in Argentina, perché avevano iniziato a torturarla. Lui non poteva stare fermo e zitto, nessuno di quei politici poteva farlo, con quello che stava accadendo. La tortura era sistematica, le persone in Uruguay venivano fatte a pezzi. Poi c’era il dramma degli scomparsi che esplose dopo il golpe in Argentina nel 1976.

Quindi sia in Uruguay che in Argentina il golpe non fu un passaggio netto, “dal bianco al nero”, ma iniziò ben prima

Sì, soprattutto in Uruguay. Già alla fine degli anni ’60 un governo eletto aveva iniziato a dar vita alle “medidas de seguridad” per le quali si vietava la propaganda politica, e la stessa parola Tupamaros (la stampa doveva dire “sovversivi”, “innominabili”). Se dicevi “Tupamaros”, andavi in galera. Avevano chiuso tutta la stampa di opposizione. Nelle elezioni del 1971 ci furono brogli, al Frente Amplio furono rubati molti voti. Nel 1972 il governo dichiarò lo “stato di guerra interna”.

Quindi tutti noi ricordiamo l’11 settembre del ’73 in Cile perché quello fu davvero un salto radicale dal “bianco al nero”. I golpe in Uruguay e in Argentina furono solo il consolidamento di una situazione che era già in atto?

Senza dubbio. Arrivammo in Italia nel ’76 perché io in Svezia non ce la facevo più…avevo un papà italiano, di Borgotaro (Parma) e volevo venire in Italia, la terra di mio padre. In Italia sentivo parlare SOLO del golpe in Cile che, comprendo bene, aveva colpito profondamente sia il sistema politico che i cittadini. Con altri compagni uruguaiani ci demmo proprio il compito di far sapere in Italia e in Europa che in Uruguay c’era stato un colpo di stato. Il caso dell’Argentina è stato diverso, con i desaparecidos, a migliaia, con le madri di Plaza de Mayo che si organizzarono per la ricerca e la denuncia e che oggi sono il simbolo dalla lotta per la Memoria, la Verità e la Giustizia. L’Argentina poi era un Paese grande e importante.

Ricordo che poco dopo il mio arrivo andai alla questura col mio passaporto di ACNUR, l’unico che ancora avevo. Dissi loro che volevo i miei documenti italiani. Tieni conto che di immigrazione in Italia, a quel tempo, non se ne parlava proprio (c’era solo popolazione somala ed eritrea, qualche cittadino greco, qualche portoghese e qualche spagnolo). L’agente mi disse: “Ma se lei è figlia di italiani è italiana, basta, mica ha bisogno di un documento come rifugiato politico!” Quando ritornai all’ufficio immigrazione, un altro agente che mi aveva fermato e a cui dissi che ero uruguayana, mi lasciò andare sorridendo dopo aver nominato alcuni tra i giocatori di calcio dell’allora famosa nazionale uruguayana. Così feci i documenti.

Come andò avanti la storia della dittatura in Uruguay?

Furono anni di repressione tremenda, solo verso il 1983 le forze politiche, di fronte ad un fallimento totale della dittatura (avevano rubato tutto quello che c’era da rubare), cominciarono a guadagnare terreno. La situazione generale era cambiata, l’Africa si era liberata (almeno formalmente) dai colonizzatori. Spagna, Grecia e Portogallo erano diventati delle democrazie. Nell’84 ci fu un accordo tra alcuni partiti (di centro e di destra) e i militari,, che cercavano di resistere in tutti i modi. Nell’84 si fecero le elezioni e noi tornammo per votare. Vinse il partito Colorado che da più di un secolo aveva quasi sempre governato ed era composto dalla buona borghesia metropolitana del Paese. L’altro partito, il Blanco, rappresentava la parte agraria, ma erano comunque due partiti di centro-destra, e in quel momento erano gli unici “legali”. Il primo presidente, Julio Maria Sanguineti, fece subito un’amnistia che liberò tutti i prigionieri politici (compreso Pepe Mujica), ma anche i militari che non vennero quindi giudicati. Fu fatto anche un referendum per stabilire se i militari potevano essere processati, ma perdemmo, la gente aveva paura e aveva buoni motivi per averne. Poi il Frente Amplio è cresciuto, si è presentato alle elezioni locali e ha conquistato la città di Montevideo. Poi fino al 2020 ha governato il Frente Amplio. Questo governo stabilì che quell’amnistia per i militari era incostituzionale e che i militari colpevoli di crimini di lesa umanità, potessero essere processati. Ora, dopo 50 anni, stanno ancora arrivando denunce.

E Pepe Mujica?

È malato, ha dichiarato in una conferenza stampa che ha un cancro all’esofago, è un vecchio saggio. Dice parole importantissime ai giovani, trasmette carica, coraggio, speranza, per l’ambiente e contro la rassegnazione.

Quando andai a votare in Uruguay dopo tanti anni, ero convinta di rimanere lì, ma fu il padre di Daniel, il mio primo suocero, a dirmi: “Ma di cosa vivi se vieni qui?”. Il Paese era rovinato, così tornai in Italia.

 

Fine seconda parte

Qui il link all’intervista completa

Andrea De Lotto

Una delegazione di Kairos Palestine in Italia. L’ntervista al pastore Isaac Munther pubblicata su Chiesa luterana

È iniziata a Napoli, il 17 e 18 febbraio 2025, la visita in Italia della delegazione di Kairos Palestine, accompagnata dalla Campagna Ponti e non Muri di Pax Christi Italia.
È proseguita il 19 febbraio a Roma, in particolare con l’incontro alla Commissione Esteri della Camera.
Successivamente, il 20 febbraio a Firenze; il 21 febbraio a Bologna; il 22 febbraio a Padova e il 23 febbraio a Venezia (per il programma completo, vedi https://bocchescucite.org/kairos-palestina-in-italia-dal-17-al-23-febbraio-2025/).

«Un genocidio in corso a Gaza e nella Palestina, un grido di dolore da parte della popolazione locale vittima di un’occupazione e colonizzazione decennale delle sue terre e deprivata di ogni diritto; un appello accorato di preghiera e di impegno, “una parola di verità, fede, speranza e nonviolenza” raccolto e rilanciato da tredici confessioni cristiane di Terrasana che, nel 2009, hanno firmato lo storico appello “Kairos Palestine: A Moment of Truth”. La delegazione di Kairos Palestina è composta dal pastore e teologo cristiano palestinese Munther Isaac, Preside del Bethlehem Bible College e direttore del ciclo di conferenze Christ at the CheckpointRifat Kassis, attivista nella lotta nonviolenta palestinese, coautore del documento Kairos Palestine e coordinatore della coalizione Global Kairos for Justice e l’avvocata Sahar Francis, direttrice dell’associazione per i diritti umani dei prigionieri ADAMEER di Ramallah» (dal comunicato stampa, in https://bocchescucite.org/delegazione-di-kairos-in-italia-dal-18-al-23-febbraio-2025/).

L’intervista rilasciata dal pastore luterano Isaac Munther pubblicata originariamente su Chiesa luterana.

In questi giorni in Italia con Kairos Palestine

Isaac Munther (il cui nome deriva dall’arabo Mundhir, colui che gli altri seguono) è preside del Bethlehem Bible College in Palestina e direttore della conferenza Christ at the Checkpoint (che è anche il titolo di un suo libro). È pastore luterano della Chiesa Evangelica Luterana di Betlemme (Affiliata alla Federazione Luterana Mondiale). Sarà in Italia fino al 23 febbraio prossimo per una serie di conferenze assieme alla delegazione di Kairos Palestine.

Il pastore luterano Isaac Munther

Mentre era in viaggio lo abbiamo raggiunto per rivolgergli alcune domande sulla situazione globale e a Gaza.

Neutralità, equilibrio, rimanere in bilico?

D: Pastore Munther, il suo sermone di Natale del 2023 ha avuto una grande eco. A volte ci convinciamo che essere cristiani significa rimanere in bilico. Ma, per un luterano, ha senso e cosa significa equilibrio?

M: Per me è un falso presupposto che la pacificazione significhi neutralità. Nella pacificazione dobbiamo schierarci. Dobbiamo dire le cose per ciò che sono. Dobbiamo dire la verità: Dio si schiera. Si schiera con gli oppressi e gli emarginati. E ci chiama a dire la verità. Per questo motivo, non credo che la Chiesa possa essere neutrale, soprattutto quando c’è un genocidio che si sta svolgendo sotto gli occhi di tutto il mondo. Inoltre, per quanto riguarda l’equilibrio, qui in Palestina non c’è alcun conflitto. C’è occupazione, apartheid, colonialismo. Non si può pensare di avere un equilibrio tra l’occupante e l’occupato, l’oppressore e l’oppresso. Questo squilibrio di potere deve essere affrontato e i cristiani devono tenerne conto.

Siamo esseri umani uguali?

D: In uno dei passaggi della sua predicazione ha sottolineato la stanchezza di vedere, giorno dopo giorno, immagini di bambini e famiglie tirati fuori da sotto le macerie. Non riusciamo a capire come sia possibile che tutto questo vada bene. Che cosa è diventata questa stanchezza oggi?

M: L’impatto nell’osservare il genocidio giorno dopo giorno, la vita sulla terra, con il silenzio di molti nel mondo, ci ha convinto, come palestinesi, che molti nel mondo occidentale, specialmente i leader, politici e purtroppo in alcuni casi anche religiosi non ci vedono come uguali: non ci guardano come esseri umani uguali a loro. Altrimenti, sarebbero d’accordo con quel che accade? Tutto ciò ha avuto un forte impatto psicologico su di noi, ma allo stesso tempo ha reso più forte la nostra determinazione e la nostra fede in Dio, perché siamo convinti che Dio sia dalla parte degli oppressi. I leader della fede oggi devono alzare la voce e chiedere responsabilità. La posta in gioco oggi è molto alta.

D: La Chiesa Evangelica Luterana in Italia ha espresso preoccupazione per la sorte del popolo palestinese. Abbiamo spesso assistito che anche solo esprimerle porta alla strumentalizzate e talvolta a parlare di antisemitismo. Perché è oggi così difficile stare dalla parte di chi soffre, con il rischio di essere strumentalizzati?

M: Come umanità, abbiamo creato leggi, diritti umani, convenzioni internazionali per prevenire i genocidi, per evitare la pulizia etnica, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Quindi, come leader della Chiesa, dobbiamo alzare la voce e dire che non ci sta bene un mondo di caos in cui i potenti e i ricchi fanno quello che vogliono senza alcuna responsabilità. Che tipo di mondo vogliamo lasciare ai nostri figli se le persone commettono crimini di guerra senza essere ritenute responsabili? Purtroppo, per noi palestinesi, il diritto internazionale è sempre stato irrilevante, perché non è mai stato applicato, né con gli insediamenti né con l’apartheid che esiste nella nostra terra. Le organizzazioni per i diritti umani, gli esperti legali, hanno dichiarato che si tratta di apartheid, ma la Chiesa rimane in silenzio. E ora è chiaramente un genocidio. Se volete non prendete in considerazione le nostre parole ma, almeno, prendete in considerazione le parole degli esperti, degli storici, dei professori, della Corte di Giustizia Internazionale, dei rapporti speciali delle Nazioni Unite, di tutti coloro che conoscono il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra: sanno che si tratta di un genocidio. Perché le Chiese faticano a definirlo tale? Perché i leader religiosi non ne chiedono conto? Quello che Trump sta proponendo riguardo a Gaza è una pulizia etnica. Vuole spostare con la forza due milioni di palestinesi. Questa è la definizione di pulizia etnica.

Gaza tra Italia e USA

D: Il governo italiano sembra essere schierato con il nuovo presidente degli Stati Uniti, Trump. Quest’ultimo che ritiene utile sostenere apertamente una soluzione che sia più favorevole al governo israeliano. Come valuta questa situazione?

M: La mia domanda al governo e ai leader italiani è: si schiereranno con la pulizia etnica, che è un crimine di guerra? È questo il loro credo? Devono rispondere. Dobbiamo denunciare il sionismo e denunciare che il sionismo per quello che è non ha nulla a che fare con l’ebraismo. Infatti, oggi i più forti oppositori del sionismo sono proprio gli ebrei di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti e anche alcuni in Israele. Dobbiamo dire la verità e fare attenzione a non essere etichettati. Allo stesso tempo, dobbiamo controllare i nostri discorsi e il nostro linguaggio. Capisco perfettamente e sono d’accordo. L’antisemitismo esiste, è reale ed è malvagio. Ma allo stesso tempo, rendiamoci conto che l’antisemitismo ha origine in Europa. Perché i palestinesi devono pagare il prezzo dell’antisemitismo occidentale? E io, in quanto palestinese, rifiuto con tutto il cuore di parlare di giustizia per i palestinesi e dell’applicazione del diritto internazionale per poi essere etichettato come antisemita. Quello che mi viene chiesto di capire è che i palestinesi chiedono solo l’applicazione del diritto internazionale e dei diritti umani. Spero che (i leader politici) se ne rendano conto e si uniscano a noi.

D: A breve sarà in Italia per diversi incontri e iniziative pubbliche. Perché questo viaggio in Italia e cosa si aspetta dalla società italiana?

M: Grazie a questa visita (in Italia), speriamo di mobilitare i leader religiosi e i politici a parlare di più. E vogliamo sollevare la questione del diritto internazionale e dei diritti umani. Perché la posta in gioco è molto alta. Se il mondo è d’accordo con la distruzione di un’intera civiltà come pulizia etnica e genocidio, allora abbiamo davvero bisogno di una legge internazionale? È ancora rilevante? E vogliamo davvero preparare la strada a un mondo di caos, colonialismo e dominio dei potenti? Vogliamo che tutti i cristiani si schierino semplicemente per la giustizia e la verità, per l’umanità.

Opinione pubblica e informazione

D: In Occidente, e in particolare in Italia, l’opinione pubblica è scossa dalle notizie che arrivano dalla Palestina. Dietro quelle notizie, le migliaia di morti, c’è la devastazione di vite già molto precarie: cosa può fare la fede di fronte a tanto smarrimento?

M: Quello che sta accadendo a Gaza è una catastrofe umana. Migliaia di persone sono state uccise, altre migliaia sono ancora sotto le macerie. Stiamo ancora implorando e lavorando per supplicare l’ingresso degli aiuti umanitari, gli ospedali sono stati distrutti, i medici sono stati arrestati. Dov’è la comunità internazionale e dov’è la voce dei leader religiosi, quando non viene rispettato lo stato di diritto, i diritti umani, il diritto internazionale? Se noi, come leader religiosi, non alziamo la voce e non chiediamo responsabilità, chi lo farà?

Speranza nella perseveranza

D: Come luterano, qual è la parola di speranza che, nonostante la terribile tragedia dei rifugiati e delle famiglie distrutte, può annunciare oggi ai suoi ascoltatori?

M: Come cristiani palestinesi, la nostra speranza è quella di sopravvivere. Adesso ci troviamo nel momento peggiore della nostra storia, forse uno dei momenti peggiori della nostra storia. Siamo molto preoccupati per la nostra fede qui in Cisgiordania. Israele ha imposto così tante restrizioni, chiusure, posti di blocco, ha già iniziato a compiere operazioni di forza e incursioni nel nord, che hanno avuto un impatto anche sulla comunità cristiana di Jenin. Hanno distrutto gran parte del campo profughi con almeno 40.000 sfollati in Cisgiordania. Quindi qui a Betlemme siamo preoccupati: sarà questa la nostra fede? Perciò è difficile parlare di speranza, ad essere onesti: adesso speriamo solo di sopravvivere. Allo stesso tempo, parliamo di resilienza. Questo è l’argomento di cui parlano i palestinesi. Resilienza, più che altro la parola araba che si riferisce a resilienza, ovvero perseveranza. Stiamo chiamando il nostro popolo a perseverare e a continuare la testimonianza in questa terra.

Come luterani, insieme a tutte le famiglie della chiesa qui in Palestina, siamo determinati a continuare non solo a esistere, ma a testimoniare. Nonostante tutto, le nostre chiese stanno servendo, le scuole, la diaconia, lo sportello donna, l’ambiente, siamo molto impegnati nel nostro contesto contro ogni probabilità. Nonostante i posti di blocco, a volte impieghiamo ore per raggiungere le nostre chiese solo per pregare o per guidare le funzioni religiose o per riunirci. Siamo molto resistenti e decisi a continuare la testimonianza e a portare avanti la testimonianza del Vangelo nel luogo in cui tutto è iniziato.

Intervista a cura del responsabile della comunicazione della CELI, Gianluca Fiusco

Redazione Italia