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L’Europa che non c’è

Quali altre sanzioni contro la Russia potrà mai varare l’Unione Europea, dopo che quelle già in atto hanno dimostrato scarso impatto sul potenziale militare russo, enormi danni per l’economia europea e vantaggi altrettanto grandi, soprattutto con la vendita di gas a prezzi di affezione, per gli Stati Uniti?

Che tipo di “difesa armata” potrà mai costruire l’Unione Europea autorizzando ogni singolo Stato membro ad armarsi per conto suo sforando i parametri di Maastricht (invalicabili quando si trattava di sostenere il welfare) per acquistare armi e arruolare soldati senza un indirizzo, una politica estera, un progetto comuni?

Quale forza di interposizione potrà mai essere accettata dall’Onu o dalla Federazione Russa se costituita da governi che sono stati e sono ancora parte combattente, riempiendo di armi, denaro e appoggio politico la controparte ucraina?

E quali informazioni sul campo potrà mai fornire l’Unione Europea alle forze armate ucraine se le attività di supporto informativo dipendono da sistemi che l’Europa non è in grado di sostituire?

Quale “forza di deterrenza nucleare” potrà mai mettere in campo l’Unione Europea con le atomiche di Macron e quelle di Starmer, di fronte alla Russia che ne ha 15 volte tante?

Per tutte queste cose – cioè per “colmare il vuoto” lasciato dal ritiro, o tradimento, di Trump – l’Unione Europea ha comunque bisogno della Nato, cioè del sostegno degli Stati Uniti di Trump, che se glielo fornirà (“continuate voi, mentre io tratto e faccio affari”) se lo farà comunque pagare: con l’aumento delle spese militari, per mantenere le truppe Usa di stanza in Europa (in Italia 140 basi, tra Usa e Nato), con l’acquisto forzato di gas, al quadruplo del suo prezzo, e di armi che solo loro producono e  con un distacco sempre più profondo dalla Cina, con la quale invece Trump acuirà o sopirà la tensione a seconda del momento e delle convenienze.

L’Unione Europea, la sua Commissione e i governi degli Stati membri si sono fatti trascinare in questa trappola senza mai rendersi conto del suo esito obbligato e senza mai prospettare un’alternativa che non fosse la vittoria sul campo: “vittoria o resa”; in mezzo, il nulla. Ora Ursula Von der Leyen sostiene che l’aggressione russa all’Ucraina rappresenta una minaccia “esistenziale” per l’Europa.

Ma una minaccia esistenziale assai più grave aveva fatto la sua comparsa ben prima della guerra in Ucraina: la crisi climatica. L’Ipcc continuava a ricordare che c’erano solo pochi anni a disposizione per cercare di invertire rotta. Una minaccia soprattutto per le democrazie, vere o presunte. Perché un regime autoritario può bloccare facilmente le informazioni sui disastri in corso e reprimere brutalmente le popolazioni colpite che protestano per la mancata prevenzione o la mancata assistenza, ma una democrazia che si fa cogliere impreparata non può che ricorrere agli stessi metodi, accentuando gli aspetti dispotici del proprio governo tanto, se non di più, di quanto lo può fare in un Paese in guerra.

Governi e opposizioni nell’Unione e negli Stati membri, come in quasi tutti gli altri Stati del mondo, non hanno mai preso veramente sul serio la minaccia climatica. Alcuni hanno finto di farlo per giustificare misure straordinarie, non tutte sensate, per poi coprirle di deroghe che ne azzerano i già insufficienti impatti previsti, come quelle su gas, nucleare, protezione della natura, auto termiche, ecc. nel Green Deal, o per dare il “liberi tutti” alle spese più insensate, inutili o dannose, nel gigantesco sperpero del Pnrr in Italia.

E’ mancato, manca, soprattutto il coinvolgimento della popolazione nella messa a punto e nell’attuazione dei programmi. “Abbiamo ben altro da fare che occuparci del clima”, sostengono. Che cosa? Risollevare l’economia, rilanciare la crescita, gonfiare il Pil. Ma alla fine quell’”altro” è diventato chiaro: la guerra, le armi. La fallimentare riconversione dell’auto personale da termica a elettrica (un programma insensato) invece di quella della mobilità da individuale a condivisa alla fine ha trovato una soluzione: salvare l’industria tedesca e le sue appendici italiane con i carri armati. Il clima può attendere.

Guerra e salvaguardia del clima (e dell’ambiente) sono incompatibili. Scegliere una, anche solo sostenendone le ragioni, vuol dire ripudiare l’altra. Sotto l’ombrello della conversione ecologica (che è cosa diversa e ben più complessa della transizione energetica, che pure non procede) si ritrovano tutte le questioni che stanno a cuore agli umani e soprattutto alle donne, o alla maggioranza di esse: pace, cooperazione, ambiente, salute, diritto alla vita, al reddito, alla casa, all’istruzione, alla dignità. La guerra è la negazione e l’azzeramento di tutte queste cose: distruzione di vite, di natura, di edifici, di infrastrutture, di lavoro, di rispetto.

“Ma la guerra siamo, siamo stati, obbligati a farla” dicono; dovevamo difenderci, noi, le nostre famiglie, le nostre abitudini, le nostre culture, i nostri confini. E’ quello che sostengono sempre tutte le parti in guerra, o chi le governa e manda gli altri a combattere. Chi mai potrebbe fare la guerra accettando di essere un aggressore? Così, contando, sperando o illudendosi di vincere, si è mandato avanti il massacro invece di cercare una via di uscita sia prima che durante la guerra aperta, per arrivare comunque, prima o poi, a una conclusione peggiore del punto di partenza per tutti: soprattutto per chi ha lasciato sul campo vita, arti, salute mentale o, nelle retrovie, casa, famiglia, lavoro, ambiente. La guerra non ha mai dei vincitori, ma sempre e solo dei perdenti.

Un progetto vero di conversione ecologica promosso e portato avanti in modo partecipato, adeguatamente sostenuto anche se ancora indeterminato, avrebbe potuto, e forse può ancora, essere il fattore qualificante di un’identità dell’Europa proiettata sul futuro e non incatenata solo al suo passato di colonialismo e sopraffazione. Proprio per questo, l’Europa è anche un polo concreto di attrazione per popoli, comunità, forze politiche e persino governi e Stati, in cammino dalla subordinazione all’egemonia di un Occidente che non esiste più verso nuove aggregazioni in fieri che non offrono però alcuna prospettiva di riscatto, perché non fanno i conti con la crisi che incombe e con cui molti devono già fare i conti giorno per giorno. I profughi, i migranti, i rifugiati, gli sfollati (oggi alcune centinaia di milioni, domani, probabilmente, alcuni miliardi), se sostenuti e anche accolti per quello che sono e inseriti in un tessuto sociale rinnovato, invece di respingerli facendo loro la guerra, potrebbero essere un vettore per rendere concreta questa prospettiva.

 

 

 

 

Guido Viale