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corte penale internazionale

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

Tra i 79 paesi membri delle Nazioni Unite (più di un terzo dei paesi che compongono la Comunità internazionale) che hanno recentemente sottoscritto una dichiarazione di “incrollabile sostegno” alla Corte Penale Internazionale (CPI), riconoscendone il ruolo di "pilastro essenziale del sistema di giustizia internazionale", non figura l’Italia. Un'assenza significativa e al tempo stesso preoccupante per uno Stato che ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita della giustizia penale internazionale, ospitando la Conferenza diplomatica di Roma del 1998, affidata alla presidenza del Professor Giovanni Conso, che portò all’adozione dello Statuto della Corte.

La dichiarazione rappresenta una risposta politica e collettiva all’iniziativa degli Stati Uniti, volta a ostacolare l’operatività della CPI attraverso l’adozione di sanzioni individuali contro tutti coloro che con la Corte lavorano o collaborano. Il 6 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha imposto con un ordine esecutivo misure restrittive – tra cui il congelamento di beni e asset e il divieto di ingresso negli Stati Uniti – nei confronti di un’ampia categoria di soggetti (tra cui ufficiali, impiegati e agenti della CPI, nonché i loro familiari) accusati di minacciare gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si tratta di misure indiscriminate e prive di adeguate garanzie procedurali (adottate nonostante il voto contrario del Senato pochi giorni prima) che trovano la loro ragione nelle iniziative della Corte volte ad indagare la commissione di crimini in Afghanistan nel 2003 (dove gli USA hanno condotto operazioni militari) e in Palestina (indagine aperta sui fatti occorsi a partire dal 2014, inclusi quelli più recenti nella Striscia di Gaza).

Queste sanzioni rappresentano un attacco diretto all’operatività e alla legittimità della CPI in un momento particolarmente delicato della sua storia, in cui la Corte sta cercando di rispondere alle critiche di selettività, dimostrando di poter perseguire crimini commessi non soltanto dagli Stati africani ma anche dalle grandi potenze occidentali. In questo contesto, la mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta degli Stati assume inevitabilmente un significato politico, che la avvicina alle posizioni dell’amministrazione statunitense e degli altri Stati che hanno scelto di non sottoscrivere l’appello. In compagnia, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, solo della Repubblica Ceca e dell’Ungheria, con la posizione del governo di Viktor Orbán, in particolare, che è oramai nota, secondo cui la CPI sarebbe un organo politicizzato e privo di imparzialità.

L’allineamento dell’Italia a queste posizioni solleva serie preoccupazioni, avvertite dagli esperti di diritto internazionale e dagli addetti del settore. La Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea (SIDI) ha diffuso un comunicato stampa, in cui critica la ritrosia italiana e avverte che questa scelta rappresenta “una grave e pericolosa deriva rispetto alle tradizionali (e sempre confermate) scelte fondamentali del nostro paese”, evidenziando un netto cambio di prospettiva rispetto alla storica adesione dell’Italia ai principi della giustizia internazionale. Un paradosso, considerando che tali principi hanno trovato il loro fondamento proprio a Roma. 

Si tratta di un episodio che non può essere letto isolatamente, ma va inserito nel contesto della politica interna più recente. Come già riportato su Valigia Blu, l’Italia ha recentemente mancato di consegnare alla Corte Penale Internazionale Osama Almasry, cittadino libico destinatario di un mandato d’arresto emesso in data 18 gennaio 2025, per aver commesso crimini quali trattamenti crudeli, tortura, stupro, violenza sessuale, omicidio, detenzione illegittima e persecuzione.

Il governo italiano ha giustificato questo inadempimento degli obblighi internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, richiamandosi a un presunto vizio procedurale e a una mancata interlocuzione con gli organi amministrativi competenti. Tuttavia, al di là delle non meglio precisate motivazioni politiche che sembrano aver orientato la vicenda, anche sul piano strettamente giuridico la decisione è apparsa difficilmente giustificabile. Esperti di diritto penale e diritto internazionale (qui, qui e qui) hanno infatti evidenziato come l’interpretazione adottata dalla Corte di Appello di Roma, che ha negato la convalida dell’arresto, si sia fondata su presupposti erronei e ingiustificatamente restrittivi nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina la collaborazione con la CPI (la legge 237/2012). La CPI ha aperto una formale inchiesta per inadempimento, a seguito della quale potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parte.

Più ancora del profilo giuridico, tuttavia, emerge con chiarezza l’atteggiamento del governo sulla vicenda, che delinea un quadro di aperta contestazione politica in atto nei confronti della Corte Penale Internazionale, in nome di un interesse nazionale o di una ragione di Stato che restano poco definiti.

Già nelle prime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando la posizione ufficiale del governo non era ancora stata del tutto chiarita ed era incentrata sulle difficoltà tecniche nell’espletamento delle procedure di consegna, sono emersi toni di aperto contrasto con l’operato della CPI: “Siamo un paese sovrano e facciamo la nostra politica. La Corte di giustizia dell'Aia non è il verbo, non è la bocca della verità”. Pochi giorni più tardi, dopo l’audizione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in Parlamento, Tajani ha rincarato la dose, minacciando l’apertura di un’inchiesta sull’operato della CPI nella vicenda (“Bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”).

Allo stesso tempo, il Ministro Nordio, nel tentativo di spiegare il paradosso per cui un criminale internazionale è stato espulso dal territorio italiano per ragioni di sicurezza, anziché essere consegnato alle autorità giudiziarie competenti per essere processato, ha invocato come principale giustificazione la tutela dei diritti del ricercato e i vizi del mandato d’arresto. Una linea difensiva che, per quanto astrattamente sostenibile nel merito, avrebbe dovuto essere sollevata dall’imputato di fronte alla Corte e non dal Ministro di uno Stato che è tenuto all’esecuzione dell’arresto: né lo Statuto della Corte né la legislazione italiana di attuazione d’altronde sembrerebbero attribuire al Ministro della Giustizia espressamente il potere discrezionale di valutazione sulla fondatezza dell’accusa o l’appropriatezza del mandato (per approfondire, qui). 

Questa vicenda, nel suo insieme, e collegata all’atteggiamento sulle sanzioni di Trump, rafforzerebbe l’impressione di un progressivo disimpegno dell’Italia nei confronti della giustizia penale internazionale per finalità politiche e solleva interrogativi sulla posizione del governo rispetto alla tutela dei principi dello Stato di diritto e alla lotta all’impunità per i crimini più gravi.

Si tratta dunque di scelte che, considerate nel loro complesso, spingono a rileggere il caso Almasry non solo come il risultato di motivazioni economiche e del contrasto al fenomeno migratorio, ma anche come un tentativo aggiuntivo, più o meno esplicito, di manifestare l’allineamento italiano con la posizione degli alleati internazionali in seguito al cambio di amministrazione negli Stati Uniti.

Tentativo che sarebbe inoltre confermato dalla sfida aperta del governo italiano alla Corte penale sul potenziale arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, attualmente soggetto a mandato di cattura internazionale. Recentemente, il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha posato con Netanyahu durante una visita in Israele. A seguito dell’incontro, Salvini ha inoltre dichiarato di voler rimettere in discussione l’esistenza stessa della CPI e la sua utilità. L’incontro segue mesi in cui esponenti di governo hanno tergiversato sull’interpretazione degli obblighi derivanti dallo Statuto della CPI, che imporrebbero all’Italia di arrestare e consegnare il primo ministro israeliano qualora esso sia in visita nel nostro paese, salvo poi affermare che l’Italia garantirà l’immunità al primo ministro

Questi atteggiamenti e prese di posizione contrastano apertamente con il ruolo che l’Italia ha storicamente svolto nella nascita e nel consolidamento della giustizia penale internazionale.

La Corte Penale Internazionale rappresenta il primo tentativo di affermare una giurisdizione internazionale permanente su quei crimini che, come scriveva Giuliano Vassalli [1999, pp. 10-11], hanno macchiato l’umanità in ogni emisfero e hanno turbato profondamente la coscienza umana. La CPI rappresenta una rottura con il passato, una vera e propria “istituzione rivoluzionaria”, come affermato dal celebre giurista Antonio Cassese all’indomani della sua istituzione. A differenza dei tribunali istituiti ex post dai vincitori dei conflitti, come Norimberga o i tribunali speciali per Ruanda ed ex Jugoslavia, la CPI è nata con l’obiettivo di contrastare l’impunità in maniera permanente e in modo imparziale, nel rispetto dei principi di legalità e Stato di diritto. 

Dopo anni di battaglie per affermare la propria legittimità e credibilità agli occhi della comunità internazionale – e dopo un primo periodo in cui le sue attività si sono concentrate prevalentemente sull’Africa, attirandosi accuse di doppiopesismo e selettività – la CPI ha recentemente dimostrato la volontà di affermare una giustizia internazionale realmente universale.

È proprio in questa fase cruciale, non solo per la giustizia internazionale, ma anche per l’ordine giuridico internazionale basato sullo Stato di diritto – messo alla prova dai conflitti in Ucraina e Gaza e dall’ascesa di politiche sovraniste e nazionaliste – che la posizione italiana appare particolarmente dissonante rispetto alla sua storia di sostegno alla CPI.

Ma non solo. La pretesa sovranità nazionale – per quanto sia discutibile che possa essere invocata per giustificare il mancato rispetto di obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto – finisce per essere utilizzata unicamente per tutelare, seppur indirettamente, un criminale di guerra.

Senza alcun beneficio concreto per la tutela degli interessi nazionali, se non quello di lasciare un ricercato a piede libero, la battaglia ideologica contro la giustizia internazionale si svuota di qualsiasi giustificazione in linea di principio, riducendosi ad uno scontro ideologico insostenibile in nome di una quantomai opaca e arbitraria ragione di Stato, che tutto piega al proprio volere.

Una visione, questa, che entrerebbe in aperto contrasto con i valori fondanti della giustizia internazionale: la prevalenza del diritto sul potere, la responsabilità della politica di fronte alla legge e la supremazia dei diritti umani sulla forza. Principi che hanno ispirato la promessa di giustizia universale alla base dello Statuto della Corte penale internazionale, che a Roma ha visto la sua luce e che ora a Roma corre il rischio di essere dimenticata.

Immagine in anteprima: frame video Mediaset Infinity

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

Amnesty International all’Unione Europea: “Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”

Lunedì 24 febbraio i ministri degli Esteri dell’Unione Europea accoglieranno a Bruxelles l’omologo israeliano Gideon Sa’ar in occasione del Consiglio di associazione Unione europea-Israele. È la prima volta nella storia dell’Unione europea che i suoi leader ricevono il rappresentante di uno stato il cui primo ministro e l’ex ministro della difesa sono destinatari di mandati di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e il cui esercito sta attivamente commettendo crimini di diritto internazionale, tra cui il genocidio.

“È inconcepibile che l’Unione europea stenda il tappeto rosso al ministro degli Esteri Sa’ar, il cui superiore, il primo ministro Netanyahu, è ricercato dalla Corte penale internazionale. Le discussioni sul futuro delle relazioni con Israele dovrebbero basarsi anzitutto sull’insistenza affinché Netanyahu e Gallant affrontino la giustizia per i crimini di cui sono accusati, oltre che sul rispetto del diritto internazionale da parte di Israele e sulla fine dell’apartheid. I leader dell’Unione europea devono dare priorità al loro impegno verso il diritto internazionale, i diritti umani e la Corte penale internazionale rispetto agli incontri diplomatici attentamente orchestrati con Israele”, ha dichiarato Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio Istituzioni europee di Amnesty International.

“Il vergognoso silenzio seguito alle minacce alla Corte penale internazionale e l’assenza di misure concrete e urgenti che avrebbe già dovuto adottare dopo le oltraggiose sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, danno l’impressione che l’Unione europea abbia dato priorità alle relazioni con un governo implicato nel commettere genocidio e crimini di guerra, piuttosto che al sostegno di un’istituzione che persegue l’accertamento delle responsabilità individuali per questi crimini. I leader dell’Unione europea dovrebbero decidere quali misure adottare per evitare di contribuire al genocidio, all’apartheid e all’occupazione illegale israeliani, invece di nascondere tutto sotto il tappeto per una stretta di mano diplomatica a Bruxelles”, ha concluso Geddie.

Ulteriori informazioni

Nonostante la Corte internazionale di giustizia abbia chiaramente delineato la responsabilità degli stati terzi di prevenire scambi commerciali e investimenti che contribuiscano al mantenimento dell’occupazione illegale, l’Unione europea continua a commerciare e investire negli insediamenti israeliani nel Territorio palestinese occupato.

Per maggiori informazioni, si vedano l’appello di Amnesty International all’Unione europea, firmato da oltre 160 organizzazioni della società civile, e la lettera del 10 febbraio, in cui si esorta i leader dell’Unione europea a utilizzare questo incontro per presentare a Israele richieste chiare affinché ponga fine alle gravi violazioni del diritto internazionale e garantisca giustizia e riparazione per i crimini commessi, evidenziando al contempo le conseguenze nelle relazioni tra Unione europea e Israele in caso di mancanza d’azione dell’organismo europeo.

Amnesty International

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

Tra i 79 paesi membri delle Nazioni Unite (più di un terzo dei paesi che compongono la Comunità internazionale) che hanno recentemente sottoscritto una dichiarazione di “incrollabile sostegno” alla Corte Penale Internazionale (CPI), riconoscendone il ruolo di "pilastro essenziale del sistema di giustizia internazionale", non figura l’Italia. Un'assenza significativa e al tempo stesso preoccupante per uno Stato che ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita della giustizia penale internazionale, ospitando la Conferenza diplomatica di Roma del 1998, affidata alla presidenza del Professor Giovanni Conso, che portò all’adozione dello Statuto della Corte.

La dichiarazione rappresenta una risposta politica e collettiva all’iniziativa degli Stati Uniti, volta a ostacolare l’operatività della CPI attraverso l’adozione di sanzioni individuali contro tutti coloro che con la Corte lavorano o collaborano. Il 6 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha imposto con un ordine esecutivo misure restrittive – tra cui il congelamento di beni e asset e il divieto di ingresso negli Stati Uniti – nei confronti di un’ampia categoria di soggetti (tra cui ufficiali, impiegati e agenti della CPI, nonché i loro familiari) accusati di minacciare gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si tratta di misure indiscriminate e prive di adeguate garanzie procedurali (adottate nonostante il voto contrario del Senato pochi giorni prima) che trovano la loro ragione nelle iniziative della Corte volte ad indagare la commissione di crimini in Afghanistan nel 2003 (dove gli USA hanno condotto operazioni militari) e in Palestina (indagine aperta sui fatti occorsi a partire dal 2014, inclusi quelli più recenti nella Striscia di Gaza).

Queste sanzioni rappresentano un attacco diretto all’operatività e alla legittimità della CPI in un momento particolarmente delicato della sua storia, in cui la Corte sta cercando di rispondere alle critiche di selettività, dimostrando di poter perseguire crimini commessi non soltanto dagli Stati africani ma anche dalle grandi potenze occidentali. In questo contesto, la mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta degli Stati assume inevitabilmente un significato politico, che la avvicina alle posizioni dell’amministrazione statunitense e degli altri Stati che hanno scelto di non sottoscrivere l’appello. In compagnia, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, solo della Repubblica Ceca e dell’Ungheria, con la posizione del governo di Viktor Orbán, in particolare, che è oramai nota, secondo cui la CPI sarebbe un organo politicizzato e privo di imparzialità.

L’allineamento dell’Italia a queste posizioni solleva serie preoccupazioni, avvertite dagli esperti di diritto internazionale e dagli addetti del settore. La Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea (SIDI) ha diffuso un comunicato stampa, in cui critica la ritrosia italiana e avverte che questa scelta rappresenta “una grave e pericolosa deriva rispetto alle tradizionali (e sempre confermate) scelte fondamentali del nostro paese”, evidenziando un netto cambio di prospettiva rispetto alla storica adesione dell’Italia ai principi della giustizia internazionale. Un paradosso, considerando che tali principi hanno trovato il loro fondamento proprio a Roma. 

Si tratta di un episodio che non può essere letto isolatamente, ma va inserito nel contesto della politica interna più recente. Come già riportato su Valigia Blu, l’Italia ha recentemente mancato di consegnare alla Corte Penale Internazionale Osama Almasry, cittadino libico destinatario di un mandato d’arresto emesso in data 18 gennaio 2025, per aver commesso crimini quali trattamenti crudeli, tortura, stupro, violenza sessuale, omicidio, detenzione illegittima e persecuzione.

Il governo italiano ha giustificato questo inadempimento degli obblighi internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, richiamandosi a un presunto vizio procedurale e a una mancata interlocuzione con gli organi amministrativi competenti. Tuttavia, al di là delle non meglio precisate motivazioni politiche che sembrano aver orientato la vicenda, anche sul piano strettamente giuridico la decisione è apparsa difficilmente giustificabile. Esperti di diritto penale e diritto internazionale (qui, qui e qui) hanno infatti evidenziato come l’interpretazione adottata dalla Corte di Appello di Roma, che ha negato la convalida dell’arresto, si sia fondata su presupposti erronei e ingiustificatamente restrittivi nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina la collaborazione con la CPI (la legge 237/2012). La CPI ha aperto una formale inchiesta per inadempimento, a seguito della quale potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parte.

Più ancora del profilo giuridico, tuttavia, emerge con chiarezza l’atteggiamento del governo sulla vicenda, che delinea un quadro di aperta contestazione politica in atto nei confronti della Corte Penale Internazionale, in nome di un interesse nazionale o di una ragione di Stato che restano poco definiti.

Già nelle prime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando la posizione ufficiale del governo non era ancora stata del tutto chiarita ed era incentrata sulle difficoltà tecniche nell’espletamento delle procedure di consegna, sono emersi toni di aperto contrasto con l’operato della CPI: “Siamo un paese sovrano e facciamo la nostra politica. La Corte di giustizia dell'Aia non è il verbo, non è la bocca della verità”. Pochi giorni più tardi, dopo l’audizione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in Parlamento, Tajani ha rincarato la dose, minacciando l’apertura di un’inchiesta sull’operato della CPI nella vicenda (“Bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”).

Allo stesso tempo, il Ministro Nordio, nel tentativo di spiegare il paradosso per cui un criminale internazionale è stato espulso dal territorio italiano per ragioni di sicurezza, anziché essere consegnato alle autorità giudiziarie competenti per essere processato, ha invocato come principale giustificazione la tutela dei diritti del ricercato e i vizi del mandato d’arresto. Una linea difensiva che, per quanto astrattamente sostenibile nel merito, avrebbe dovuto essere sollevata dall’imputato di fronte alla Corte e non dal Ministro di uno Stato che è tenuto all’esecuzione dell’arresto: né lo Statuto della Corte né la legislazione italiana di attuazione d’altronde sembrerebbero attribuire al Ministro della Giustizia espressamente il potere discrezionale di valutazione sulla fondatezza dell’accusa o l’appropriatezza del mandato (per approfondire, qui). 

Questa vicenda, nel suo insieme, e collegata all’atteggiamento sulle sanzioni di Trump, rafforzerebbe l’impressione di un progressivo disimpegno dell’Italia nei confronti della giustizia penale internazionale per finalità politiche e solleva interrogativi sulla posizione del governo rispetto alla tutela dei principi dello Stato di diritto e alla lotta all’impunità per i crimini più gravi.

Si tratta dunque di scelte che, considerate nel loro complesso, spingono a rileggere il caso Almasry non solo come il risultato di motivazioni economiche e del contrasto al fenomeno migratorio, ma anche come un tentativo aggiuntivo, più o meno esplicito, di manifestare l’allineamento italiano con la posizione degli alleati internazionali in seguito al cambio di amministrazione negli Stati Uniti.

Tentativo che sarebbe inoltre confermato dalla sfida aperta del governo italiano alla Corte penale sul potenziale arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, attualmente soggetto a mandato di cattura internazionale. Recentemente, il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha posato con Netanyahu durante una visita in Israele. A seguito dell’incontro, Salvini ha inoltre dichiarato di voler rimettere in discussione l’esistenza stessa della CPI e la sua utilità. L’incontro segue mesi in cui esponenti di governo hanno tergiversato sull’interpretazione degli obblighi derivanti dallo Statuto della CPI, che imporrebbero all’Italia di arrestare e consegnare il primo ministro israeliano qualora esso sia in visita nel nostro paese, salvo poi affermare che l’Italia garantirà l’immunità al primo ministro

Questi atteggiamenti e prese di posizione contrastano apertamente con il ruolo che l’Italia ha storicamente svolto nella nascita e nel consolidamento della giustizia penale internazionale.

La Corte Penale Internazionale rappresenta il primo tentativo di affermare una giurisdizione internazionale permanente su quei crimini che, come scriveva Giuliano Vassalli [1999, pp. 10-11], hanno macchiato l’umanità in ogni emisfero e hanno turbato profondamente la coscienza umana. La CPI rappresenta una rottura con il passato, una vera e propria “istituzione rivoluzionaria”, come affermato dal celebre giurista Antonio Cassese all’indomani della sua istituzione. A differenza dei tribunali istituiti ex post dai vincitori dei conflitti, come Norimberga o i tribunali speciali per Ruanda ed ex Jugoslavia, la CPI è nata con l’obiettivo di contrastare l’impunità in maniera permanente e in modo imparziale, nel rispetto dei principi di legalità e Stato di diritto. 

Dopo anni di battaglie per affermare la propria legittimità e credibilità agli occhi della comunità internazionale – e dopo un primo periodo in cui le sue attività si sono concentrate prevalentemente sull’Africa, attirandosi accuse di doppiopesismo e selettività – la CPI ha recentemente dimostrato la volontà di affermare una giustizia internazionale realmente universale.

È proprio in questa fase cruciale, non solo per la giustizia internazionale, ma anche per l’ordine giuridico internazionale basato sullo Stato di diritto – messo alla prova dai conflitti in Ucraina e Gaza e dall’ascesa di politiche sovraniste e nazionaliste – che la posizione italiana appare particolarmente dissonante rispetto alla sua storia di sostegno alla CPI.

Ma non solo. La pretesa sovranità nazionale – per quanto sia discutibile che possa essere invocata per giustificare il mancato rispetto di obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto – finisce per essere utilizzata unicamente per tutelare, seppur indirettamente, un criminale di guerra.

Senza alcun beneficio concreto per la tutela degli interessi nazionali, se non quello di lasciare un ricercato a piede libero, la battaglia ideologica contro la giustizia internazionale si svuota di qualsiasi giustificazione in linea di principio, riducendosi ad uno scontro ideologico insostenibile in nome di una quantomai opaca e arbitraria ragione di Stato, che tutto piega al proprio volere.

Una visione, questa, che entrerebbe in aperto contrasto con i valori fondanti della giustizia internazionale: la prevalenza del diritto sul potere, la responsabilità della politica di fronte alla legge e la supremazia dei diritti umani sulla forza. Principi che hanno ispirato la promessa di giustizia universale alla base dello Statuto della Corte penale internazionale, che a Roma ha visto la sua luce e che ora a Roma corre il rischio di essere dimenticata.

Immagine in anteprima: frame video Mediaset Infinity

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

Amnesty International all’Unione Europea: “Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”

Lunedì 24 febbraio i ministri degli Esteri dell’Unione Europea accoglieranno a Bruxelles l’omologo israeliano Gideon Sa’ar in occasione del Consiglio di associazione Unione europea-Israele. È la prima volta nella storia dell’Unione europea che i suoi leader ricevono il rappresentante di uno stato il cui primo ministro e l’ex ministro della difesa sono destinatari di mandati di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e il cui esercito sta attivamente commettendo crimini di diritto internazionale, tra cui il genocidio.

“È inconcepibile che l’Unione europea stenda il tappeto rosso al ministro degli Esteri Sa’ar, il cui superiore, il primo ministro Netanyahu, è ricercato dalla Corte penale internazionale. Le discussioni sul futuro delle relazioni con Israele dovrebbero basarsi anzitutto sull’insistenza affinché Netanyahu e Gallant affrontino la giustizia per i crimini di cui sono accusati, oltre che sul rispetto del diritto internazionale da parte di Israele e sulla fine dell’apartheid. I leader dell’Unione europea devono dare priorità al loro impegno verso il diritto internazionale, i diritti umani e la Corte penale internazionale rispetto agli incontri diplomatici attentamente orchestrati con Israele”, ha dichiarato Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio Istituzioni europee di Amnesty International.

“Il vergognoso silenzio seguito alle minacce alla Corte penale internazionale e l’assenza di misure concrete e urgenti che avrebbe già dovuto adottare dopo le oltraggiose sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, danno l’impressione che l’Unione europea abbia dato priorità alle relazioni con un governo implicato nel commettere genocidio e crimini di guerra, piuttosto che al sostegno di un’istituzione che persegue l’accertamento delle responsabilità individuali per questi crimini. I leader dell’Unione europea dovrebbero decidere quali misure adottare per evitare di contribuire al genocidio, all’apartheid e all’occupazione illegale israeliani, invece di nascondere tutto sotto il tappeto per una stretta di mano diplomatica a Bruxelles”, ha concluso Geddie.

Ulteriori informazioni

Nonostante la Corte internazionale di giustizia abbia chiaramente delineato la responsabilità degli stati terzi di prevenire scambi commerciali e investimenti che contribuiscano al mantenimento dell’occupazione illegale, l’Unione europea continua a commerciare e investire negli insediamenti israeliani nel Territorio palestinese occupato.

Per maggiori informazioni, si vedano l’appello di Amnesty International all’Unione europea, firmato da oltre 160 organizzazioni della società civile, e la lettera del 10 febbraio, in cui si esorta i leader dell’Unione europea a utilizzare questo incontro per presentare a Israele richieste chiare affinché ponga fine alle gravi violazioni del diritto internazionale e garantisca giustizia e riparazione per i crimini commessi, evidenziando al contempo le conseguenze nelle relazioni tra Unione europea e Israele in caso di mancanza d’azione dell’organismo europeo.

Amnesty International

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

Tra i 79 paesi membri delle Nazioni Unite (più di un terzo dei paesi che compongono la Comunità internazionale) che hanno recentemente sottoscritto una dichiarazione di “incrollabile sostegno” alla Corte Penale Internazionale (CPI), riconoscendone il ruolo di "pilastro essenziale del sistema di giustizia internazionale", non figura l’Italia. Un'assenza significativa e al tempo stesso preoccupante per uno Stato che ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita della giustizia penale internazionale, ospitando la Conferenza diplomatica di Roma del 1998, affidata alla presidenza del Professor Giovanni Conso, che portò all’adozione dello Statuto della Corte.

La dichiarazione rappresenta una risposta politica e collettiva all’iniziativa degli Stati Uniti, volta a ostacolare l’operatività della CPI attraverso l’adozione di sanzioni individuali contro tutti coloro che con la Corte lavorano o collaborano. Il 6 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha imposto con un ordine esecutivo misure restrittive – tra cui il congelamento di beni e asset e il divieto di ingresso negli Stati Uniti – nei confronti di un’ampia categoria di soggetti (tra cui ufficiali, impiegati e agenti della CPI, nonché i loro familiari) accusati di minacciare gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si tratta di misure indiscriminate e prive di adeguate garanzie procedurali (adottate nonostante il voto contrario del Senato pochi giorni prima) che trovano la loro ragione nelle iniziative della Corte volte ad indagare la commissione di crimini in Afghanistan nel 2003 (dove gli USA hanno condotto operazioni militari) e in Palestina (indagine aperta sui fatti occorsi a partire dal 2014, inclusi quelli più recenti nella Striscia di Gaza).

Queste sanzioni rappresentano un attacco diretto all’operatività e alla legittimità della CPI in un momento particolarmente delicato della sua storia, in cui la Corte sta cercando di rispondere alle critiche di selettività, dimostrando di poter perseguire crimini commessi non soltanto dagli Stati africani ma anche dalle grandi potenze occidentali. In questo contesto, la mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta degli Stati assume inevitabilmente un significato politico, che la avvicina alle posizioni dell’amministrazione statunitense e degli altri Stati che hanno scelto di non sottoscrivere l’appello. In compagnia, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, solo della Repubblica Ceca e dell’Ungheria, con la posizione del governo di Viktor Orbán, in particolare, che è oramai nota, secondo cui la CPI sarebbe un organo politicizzato e privo di imparzialità.

L’allineamento dell’Italia a queste posizioni solleva serie preoccupazioni, avvertite dagli esperti di diritto internazionale e dagli addetti del settore. La Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea (SIDI) ha diffuso un comunicato stampa, in cui critica la ritrosia italiana e avverte che questa scelta rappresenta “una grave e pericolosa deriva rispetto alle tradizionali (e sempre confermate) scelte fondamentali del nostro paese”, evidenziando un netto cambio di prospettiva rispetto alla storica adesione dell’Italia ai principi della giustizia internazionale. Un paradosso, considerando che tali principi hanno trovato il loro fondamento proprio a Roma. 

Si tratta di un episodio che non può essere letto isolatamente, ma va inserito nel contesto della politica interna più recente. Come già riportato su Valigia Blu, l’Italia ha recentemente mancato di consegnare alla Corte Penale Internazionale Osama Almasry, cittadino libico destinatario di un mandato d’arresto emesso in data 18 gennaio 2025, per aver commesso crimini quali trattamenti crudeli, tortura, stupro, violenza sessuale, omicidio, detenzione illegittima e persecuzione.

Il governo italiano ha giustificato questo inadempimento degli obblighi internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, richiamandosi a un presunto vizio procedurale e a una mancata interlocuzione con gli organi amministrativi competenti. Tuttavia, al di là delle non meglio precisate motivazioni politiche che sembrano aver orientato la vicenda, anche sul piano strettamente giuridico la decisione è apparsa difficilmente giustificabile. Esperti di diritto penale e diritto internazionale (qui, qui e qui) hanno infatti evidenziato come l’interpretazione adottata dalla Corte di Appello di Roma, che ha negato la convalida dell’arresto, si sia fondata su presupposti erronei e ingiustificatamente restrittivi nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina la collaborazione con la CPI (la legge 237/2012). La CPI ha aperto una formale inchiesta per inadempimento, a seguito della quale potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parte.

Più ancora del profilo giuridico, tuttavia, emerge con chiarezza l’atteggiamento del governo sulla vicenda, che delinea un quadro di aperta contestazione politica in atto nei confronti della Corte Penale Internazionale, in nome di un interesse nazionale o di una ragione di Stato che restano poco definiti.

Già nelle prime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando la posizione ufficiale del governo non era ancora stata del tutto chiarita ed era incentrata sulle difficoltà tecniche nell’espletamento delle procedure di consegna, sono emersi toni di aperto contrasto con l’operato della CPI: “Siamo un paese sovrano e facciamo la nostra politica. La Corte di giustizia dell'Aia non è il verbo, non è la bocca della verità”. Pochi giorni più tardi, dopo l’audizione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in Parlamento, Tajani ha rincarato la dose, minacciando l’apertura di un’inchiesta sull’operato della CPI nella vicenda (“Bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”).

Allo stesso tempo, il Ministro Nordio, nel tentativo di spiegare il paradosso per cui un criminale internazionale è stato espulso dal territorio italiano per ragioni di sicurezza, anziché essere consegnato alle autorità giudiziarie competenti per essere processato, ha invocato come principale giustificazione la tutela dei diritti del ricercato e i vizi del mandato d’arresto. Una linea difensiva che, per quanto astrattamente sostenibile nel merito, avrebbe dovuto essere sollevata dall’imputato di fronte alla Corte e non dal Ministro di uno Stato che è tenuto all’esecuzione dell’arresto: né lo Statuto della Corte né la legislazione italiana di attuazione d’altronde sembrerebbero attribuire al Ministro della Giustizia espressamente il potere discrezionale di valutazione sulla fondatezza dell’accusa o l’appropriatezza del mandato (per approfondire, qui). 

Questa vicenda, nel suo insieme, e collegata all’atteggiamento sulle sanzioni di Trump, rafforzerebbe l’impressione di un progressivo disimpegno dell’Italia nei confronti della giustizia penale internazionale per finalità politiche e solleva interrogativi sulla posizione del governo rispetto alla tutela dei principi dello Stato di diritto e alla lotta all’impunità per i crimini più gravi.

Si tratta dunque di scelte che, considerate nel loro complesso, spingono a rileggere il caso Almasry non solo come il risultato di motivazioni economiche e del contrasto al fenomeno migratorio, ma anche come un tentativo aggiuntivo, più o meno esplicito, di manifestare l’allineamento italiano con la posizione degli alleati internazionali in seguito al cambio di amministrazione negli Stati Uniti.

Tentativo che sarebbe inoltre confermato dalla sfida aperta del governo italiano alla Corte penale sul potenziale arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, attualmente soggetto a mandato di cattura internazionale. Recentemente, il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha posato con Netanyahu durante una visita in Israele. A seguito dell’incontro, Salvini ha inoltre dichiarato di voler rimettere in discussione l’esistenza stessa della CPI e la sua utilità. L’incontro segue mesi in cui esponenti di governo hanno tergiversato sull’interpretazione degli obblighi derivanti dallo Statuto della CPI, che imporrebbero all’Italia di arrestare e consegnare il primo ministro israeliano qualora esso sia in visita nel nostro paese, salvo poi affermare che l’Italia garantirà l’immunità al primo ministro

Questi atteggiamenti e prese di posizione contrastano apertamente con il ruolo che l’Italia ha storicamente svolto nella nascita e nel consolidamento della giustizia penale internazionale.

La Corte Penale Internazionale rappresenta il primo tentativo di affermare una giurisdizione internazionale permanente su quei crimini che, come scriveva Giuliano Vassalli [1999, pp. 10-11], hanno macchiato l’umanità in ogni emisfero e hanno turbato profondamente la coscienza umana. La CPI rappresenta una rottura con il passato, una vera e propria “istituzione rivoluzionaria”, come affermato dal celebre giurista Antonio Cassese all’indomani della sua istituzione. A differenza dei tribunali istituiti ex post dai vincitori dei conflitti, come Norimberga o i tribunali speciali per Ruanda ed ex Jugoslavia, la CPI è nata con l’obiettivo di contrastare l’impunità in maniera permanente e in modo imparziale, nel rispetto dei principi di legalità e Stato di diritto. 

Dopo anni di battaglie per affermare la propria legittimità e credibilità agli occhi della comunità internazionale – e dopo un primo periodo in cui le sue attività si sono concentrate prevalentemente sull’Africa, attirandosi accuse di doppiopesismo e selettività – la CPI ha recentemente dimostrato la volontà di affermare una giustizia internazionale realmente universale.

È proprio in questa fase cruciale, non solo per la giustizia internazionale, ma anche per l’ordine giuridico internazionale basato sullo Stato di diritto – messo alla prova dai conflitti in Ucraina e Gaza e dall’ascesa di politiche sovraniste e nazionaliste – che la posizione italiana appare particolarmente dissonante rispetto alla sua storia di sostegno alla CPI.

Ma non solo. La pretesa sovranità nazionale – per quanto sia discutibile che possa essere invocata per giustificare il mancato rispetto di obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto – finisce per essere utilizzata unicamente per tutelare, seppur indirettamente, un criminale di guerra.

Senza alcun beneficio concreto per la tutela degli interessi nazionali, se non quello di lasciare un ricercato a piede libero, la battaglia ideologica contro la giustizia internazionale si svuota di qualsiasi giustificazione in linea di principio, riducendosi ad uno scontro ideologico insostenibile in nome di una quantomai opaca e arbitraria ragione di Stato, che tutto piega al proprio volere.

Una visione, questa, che entrerebbe in aperto contrasto con i valori fondanti della giustizia internazionale: la prevalenza del diritto sul potere, la responsabilità della politica di fronte alla legge e la supremazia dei diritti umani sulla forza. Principi che hanno ispirato la promessa di giustizia universale alla base dello Statuto della Corte penale internazionale, che a Roma ha visto la sua luce e che ora a Roma corre il rischio di essere dimenticata.

Immagine in anteprima: frame video Mediaset Infinity

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

Amnesty International all’Unione Europea: “Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”

Lunedì 24 febbraio i ministri degli Esteri dell’Unione Europea accoglieranno a Bruxelles l’omologo israeliano Gideon Sa’ar in occasione del Consiglio di associazione Unione europea-Israele. È la prima volta nella storia dell’Unione europea che i suoi leader ricevono il rappresentante di uno stato il cui primo ministro e l’ex ministro della difesa sono destinatari di mandati di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e il cui esercito sta attivamente commettendo crimini di diritto internazionale, tra cui il genocidio.

“È inconcepibile che l’Unione europea stenda il tappeto rosso al ministro degli Esteri Sa’ar, il cui superiore, il primo ministro Netanyahu, è ricercato dalla Corte penale internazionale. Le discussioni sul futuro delle relazioni con Israele dovrebbero basarsi anzitutto sull’insistenza affinché Netanyahu e Gallant affrontino la giustizia per i crimini di cui sono accusati, oltre che sul rispetto del diritto internazionale da parte di Israele e sulla fine dell’apartheid. I leader dell’Unione europea devono dare priorità al loro impegno verso il diritto internazionale, i diritti umani e la Corte penale internazionale rispetto agli incontri diplomatici attentamente orchestrati con Israele”, ha dichiarato Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio Istituzioni europee di Amnesty International.

“Il vergognoso silenzio seguito alle minacce alla Corte penale internazionale e l’assenza di misure concrete e urgenti che avrebbe già dovuto adottare dopo le oltraggiose sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, danno l’impressione che l’Unione europea abbia dato priorità alle relazioni con un governo implicato nel commettere genocidio e crimini di guerra, piuttosto che al sostegno di un’istituzione che persegue l’accertamento delle responsabilità individuali per questi crimini. I leader dell’Unione europea dovrebbero decidere quali misure adottare per evitare di contribuire al genocidio, all’apartheid e all’occupazione illegale israeliani, invece di nascondere tutto sotto il tappeto per una stretta di mano diplomatica a Bruxelles”, ha concluso Geddie.

Ulteriori informazioni

Nonostante la Corte internazionale di giustizia abbia chiaramente delineato la responsabilità degli stati terzi di prevenire scambi commerciali e investimenti che contribuiscano al mantenimento dell’occupazione illegale, l’Unione europea continua a commerciare e investire negli insediamenti israeliani nel Territorio palestinese occupato.

Per maggiori informazioni, si vedano l’appello di Amnesty International all’Unione europea, firmato da oltre 160 organizzazioni della società civile, e la lettera del 10 febbraio, in cui si esorta i leader dell’Unione europea a utilizzare questo incontro per presentare a Israele richieste chiare affinché ponga fine alle gravi violazioni del diritto internazionale e garantisca giustizia e riparazione per i crimini commessi, evidenziando al contempo le conseguenze nelle relazioni tra Unione europea e Israele in caso di mancanza d’azione dell’organismo europeo.

Amnesty International

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

Tra i 79 paesi membri delle Nazioni Unite (più di un terzo dei paesi che compongono la Comunità internazionale) che hanno recentemente sottoscritto una dichiarazione di “incrollabile sostegno” alla Corte Penale Internazionale (CPI), riconoscendone il ruolo di "pilastro essenziale del sistema di giustizia internazionale", non figura l’Italia. Un'assenza significativa e al tempo stesso preoccupante per uno Stato che ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita della giustizia penale internazionale, ospitando la Conferenza diplomatica di Roma del 1998, affidata alla presidenza del Professor Giovanni Conso, che portò all’adozione dello Statuto della Corte.

La dichiarazione rappresenta una risposta politica e collettiva all’iniziativa degli Stati Uniti, volta a ostacolare l’operatività della CPI attraverso l’adozione di sanzioni individuali contro tutti coloro che con la Corte lavorano o collaborano. Il 6 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha imposto con un ordine esecutivo misure restrittive – tra cui il congelamento di beni e asset e il divieto di ingresso negli Stati Uniti – nei confronti di un’ampia categoria di soggetti (tra cui ufficiali, impiegati e agenti della CPI, nonché i loro familiari) accusati di minacciare gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si tratta di misure indiscriminate e prive di adeguate garanzie procedurali (adottate nonostante il voto contrario del Senato pochi giorni prima) che trovano la loro ragione nelle iniziative della Corte volte ad indagare la commissione di crimini in Afghanistan nel 2003 (dove gli USA hanno condotto operazioni militari) e in Palestina (indagine aperta sui fatti occorsi a partire dal 2014, inclusi quelli più recenti nella Striscia di Gaza).

Queste sanzioni rappresentano un attacco diretto all’operatività e alla legittimità della CPI in un momento particolarmente delicato della sua storia, in cui la Corte sta cercando di rispondere alle critiche di selettività, dimostrando di poter perseguire crimini commessi non soltanto dagli Stati africani ma anche dalle grandi potenze occidentali. In questo contesto, la mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta degli Stati assume inevitabilmente un significato politico, che la avvicina alle posizioni dell’amministrazione statunitense e degli altri Stati che hanno scelto di non sottoscrivere l’appello. In compagnia, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, solo della Repubblica Ceca e dell’Ungheria, con la posizione del governo di Viktor Orbán, in particolare, che è oramai nota, secondo cui la CPI sarebbe un organo politicizzato e privo di imparzialità.

L’allineamento dell’Italia a queste posizioni solleva serie preoccupazioni, avvertite dagli esperti di diritto internazionale e dagli addetti del settore. La Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea (SIDI) ha diffuso un comunicato stampa, in cui critica la ritrosia italiana e avverte che questa scelta rappresenta “una grave e pericolosa deriva rispetto alle tradizionali (e sempre confermate) scelte fondamentali del nostro paese”, evidenziando un netto cambio di prospettiva rispetto alla storica adesione dell’Italia ai principi della giustizia internazionale. Un paradosso, considerando che tali principi hanno trovato il loro fondamento proprio a Roma. 

Si tratta di un episodio che non può essere letto isolatamente, ma va inserito nel contesto della politica interna più recente. Come già riportato su Valigia Blu, l’Italia ha recentemente mancato di consegnare alla Corte Penale Internazionale Osama Almasry, cittadino libico destinatario di un mandato d’arresto emesso in data 18 gennaio 2025, per aver commesso crimini quali trattamenti crudeli, tortura, stupro, violenza sessuale, omicidio, detenzione illegittima e persecuzione.

Il governo italiano ha giustificato questo inadempimento degli obblighi internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, richiamandosi a un presunto vizio procedurale e a una mancata interlocuzione con gli organi amministrativi competenti. Tuttavia, al di là delle non meglio precisate motivazioni politiche che sembrano aver orientato la vicenda, anche sul piano strettamente giuridico la decisione è apparsa difficilmente giustificabile. Esperti di diritto penale e diritto internazionale (qui, qui e qui) hanno infatti evidenziato come l’interpretazione adottata dalla Corte di Appello di Roma, che ha negato la convalida dell’arresto, si sia fondata su presupposti erronei e ingiustificatamente restrittivi nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina la collaborazione con la CPI (la legge 237/2012). La CPI ha aperto una formale inchiesta per inadempimento, a seguito della quale potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parte.

Più ancora del profilo giuridico, tuttavia, emerge con chiarezza l’atteggiamento del governo sulla vicenda, che delinea un quadro di aperta contestazione politica in atto nei confronti della Corte Penale Internazionale, in nome di un interesse nazionale o di una ragione di Stato che restano poco definiti.

Già nelle prime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando la posizione ufficiale del governo non era ancora stata del tutto chiarita ed era incentrata sulle difficoltà tecniche nell’espletamento delle procedure di consegna, sono emersi toni di aperto contrasto con l’operato della CPI: “Siamo un paese sovrano e facciamo la nostra politica. La Corte di giustizia dell'Aia non è il verbo, non è la bocca della verità”. Pochi giorni più tardi, dopo l’audizione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in Parlamento, Tajani ha rincarato la dose, minacciando l’apertura di un’inchiesta sull’operato della CPI nella vicenda (“Bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”).

Allo stesso tempo, il Ministro Nordio, nel tentativo di spiegare il paradosso per cui un criminale internazionale è stato espulso dal territorio italiano per ragioni di sicurezza, anziché essere consegnato alle autorità giudiziarie competenti per essere processato, ha invocato come principale giustificazione la tutela dei diritti del ricercato e i vizi del mandato d’arresto. Una linea difensiva che, per quanto astrattamente sostenibile nel merito, avrebbe dovuto essere sollevata dall’imputato di fronte alla Corte e non dal Ministro di uno Stato che è tenuto all’esecuzione dell’arresto: né lo Statuto della Corte né la legislazione italiana di attuazione d’altronde sembrerebbero attribuire al Ministro della Giustizia espressamente il potere discrezionale di valutazione sulla fondatezza dell’accusa o l’appropriatezza del mandato (per approfondire, qui). 

Questa vicenda, nel suo insieme, e collegata all’atteggiamento sulle sanzioni di Trump, rafforzerebbe l’impressione di un progressivo disimpegno dell’Italia nei confronti della giustizia penale internazionale per finalità politiche e solleva interrogativi sulla posizione del governo rispetto alla tutela dei principi dello Stato di diritto e alla lotta all’impunità per i crimini più gravi.

Si tratta dunque di scelte che, considerate nel loro complesso, spingono a rileggere il caso Almasry non solo come il risultato di motivazioni economiche e del contrasto al fenomeno migratorio, ma anche come un tentativo aggiuntivo, più o meno esplicito, di manifestare l’allineamento italiano con la posizione degli alleati internazionali in seguito al cambio di amministrazione negli Stati Uniti.

Tentativo che sarebbe inoltre confermato dalla sfida aperta del governo italiano alla Corte penale sul potenziale arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, attualmente soggetto a mandato di cattura internazionale. Recentemente, il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha posato con Netanyahu durante una visita in Israele. A seguito dell’incontro, Salvini ha inoltre dichiarato di voler rimettere in discussione l’esistenza stessa della CPI e la sua utilità. L’incontro segue mesi in cui esponenti di governo hanno tergiversato sull’interpretazione degli obblighi derivanti dallo Statuto della CPI, che imporrebbero all’Italia di arrestare e consegnare il primo ministro israeliano qualora esso sia in visita nel nostro paese, salvo poi affermare che l’Italia garantirà l’immunità al primo ministro

Questi atteggiamenti e prese di posizione contrastano apertamente con il ruolo che l’Italia ha storicamente svolto nella nascita e nel consolidamento della giustizia penale internazionale.

La Corte Penale Internazionale rappresenta il primo tentativo di affermare una giurisdizione internazionale permanente su quei crimini che, come scriveva Giuliano Vassalli [1999, pp. 10-11], hanno macchiato l’umanità in ogni emisfero e hanno turbato profondamente la coscienza umana. La CPI rappresenta una rottura con il passato, una vera e propria “istituzione rivoluzionaria”, come affermato dal celebre giurista Antonio Cassese all’indomani della sua istituzione. A differenza dei tribunali istituiti ex post dai vincitori dei conflitti, come Norimberga o i tribunali speciali per Ruanda ed ex Jugoslavia, la CPI è nata con l’obiettivo di contrastare l’impunità in maniera permanente e in modo imparziale, nel rispetto dei principi di legalità e Stato di diritto. 

Dopo anni di battaglie per affermare la propria legittimità e credibilità agli occhi della comunità internazionale – e dopo un primo periodo in cui le sue attività si sono concentrate prevalentemente sull’Africa, attirandosi accuse di doppiopesismo e selettività – la CPI ha recentemente dimostrato la volontà di affermare una giustizia internazionale realmente universale.

È proprio in questa fase cruciale, non solo per la giustizia internazionale, ma anche per l’ordine giuridico internazionale basato sullo Stato di diritto – messo alla prova dai conflitti in Ucraina e Gaza e dall’ascesa di politiche sovraniste e nazionaliste – che la posizione italiana appare particolarmente dissonante rispetto alla sua storia di sostegno alla CPI.

Ma non solo. La pretesa sovranità nazionale – per quanto sia discutibile che possa essere invocata per giustificare il mancato rispetto di obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto – finisce per essere utilizzata unicamente per tutelare, seppur indirettamente, un criminale di guerra.

Senza alcun beneficio concreto per la tutela degli interessi nazionali, se non quello di lasciare un ricercato a piede libero, la battaglia ideologica contro la giustizia internazionale si svuota di qualsiasi giustificazione in linea di principio, riducendosi ad uno scontro ideologico insostenibile in nome di una quantomai opaca e arbitraria ragione di Stato, che tutto piega al proprio volere.

Una visione, questa, che entrerebbe in aperto contrasto con i valori fondanti della giustizia internazionale: la prevalenza del diritto sul potere, la responsabilità della politica di fronte alla legge e la supremazia dei diritti umani sulla forza. Principi che hanno ispirato la promessa di giustizia universale alla base dello Statuto della Corte penale internazionale, che a Roma ha visto la sua luce e che ora a Roma corre il rischio di essere dimenticata.

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