Economia
Amsterdam, tutti i progetti per rendere la città un modello di sostenibilità
Il valore aggiunto dell’economia sociale
L’economia sociale è caratterizzata dalle attività senza scopo di lucro e di utilità sociale realizzate dalle organizzazioni di terzo settore che nel loro agire sono mosse da principi quali la reciprocità e la democrazia. Secondo la definizione della Commissione Europea, l’economia sociale può essere considerata come l’insieme di cinque categorie di organizzazioni: associazioni, cooperative (sociali e non), imprese sociali, società di mutuo soccorso e fondazioni. L’economia sociale è dunque costituita dall’insieme di quelle organizzazioni il cui principio fondativo non risiede nella massimizzazione del profitto, ma nel principio di reciprocità. Organizzazioni che proprio per questo sono capaci di produrre beni e servizi che né l’economia for profit né l’economia pubblica sarebbero in grado o avrebbero interesse a produrre. L’economia sociale ha l’obiettivo di trasformare contesti, politiche ed economie, affrontando le grandi transizioni e le sfide dei nostri tempi (ambientali, sociali, digitali e democratiche), grazie ad una visione dell’economia che va oltre quella estrattiva, finalizzata esclusivamente ad estrarre valore dai territori riservandolo a pochi senza alcun interesse alla redistribuzione.
Secondo uno studio commissionato dall’Agenzia esecutiva del Consiglio europeo per l’innovazione e delle PMI (EISMEA), che raccoglie e analizza dati quantitativi e qualitativi sull’ecosistema europeo dell’economia sociale e sul suo contributo a un’economia e una società sostenibili, innovative e resilienti, nell’Unione
Europea almeno 11,5 milioni di persone, ovvero il 6,3% della popolazione occupata, lavorano nell’economia sociale. Nei 27 Stati membri l’economia sociale raccoglie oltre 4,3 milioni di enti e si stima vi siano più di 246.000 imprese sociali. Lo studio evidenzia come esistano organizzazioni dell’economia sociale in tutti i Paesi dell’UE, anche se alcune risultano poco visibili e hanno scarso riconoscimento come parte dell’economia sociale, soprattutto a causa di una scarsa comprensione dei diversi ruoli svolti dalle organizzazioni e la mancanza di dati e analisi statistiche di alta qualità e comparabili. Soltanto pochi Stati membri infatti dispongono di statistiche nazionali che misurano specificamente l’economia sociale.
Nella sua prima raccomandazione sull’economia sociale, l’Unione Europea ha invitato gli Stati membri ad adottare misure intese a riconoscere e sostenere il ruolo dell’economia sociale allo scopo di: agevolare l’accesso al mercato del lavoro, in particolare per i gruppi vulnerabili o sottorappresentati; promuovere l’inclusione sociale mediante la fornitura di servizi sociali e servizi di assistenza accessibili e di alta qualità: stimolare lo sviluppo delle competenze, comprese quelle necessarie alle transizioni verde e digitale; promuovere l’innovazione sociale e lo sviluppo economico sostenibile (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ%3AC_202301344).
In Italia, l’economia sociale comprende più di 398.000 organizzazioni, impiega oltre 1.500.000 persone e coinvolge più di 4.660.000 volontari. Sono alcuni dei dati che Euricse (https://euricse.eu/it/) ha pubblicato sul proprio sito web in una nuova pagina di approfondimento sull’economia sociale in Italia. Grazie ai grafici interattivi e ai dati ufficiali provenienti da fonti autorevoli, come i registri ASIA, il Censimento permanente delle Istituzioni non profit dell’Istat, i registri amministrativi RUNTS e Albo delle Cooperative, oltre alle banche dati di ricerca elaborate da Euricse, è possibile esplorare in dettaglio il numero di organizzazioni, l’occupazione e il loro contributo all’economia nazionale. Le informazioni, aggiornate annualmente, offrono un quadro completo e consultabile liberamente, e includono due sezioni specifiche dedicate alle imprese sociali e alle cooperative.
La nuova pagina web si articola in tre aree principali: “Numeri in breve”, in cui attraverso i grafici vengono rappresentati il numero complessivo delle organizzazioni attive nell’economia sociale, il livello di occupazione (inclusi i lavoratori delle cooperative e delle altre realtà) e il loro contributo all’economia nazionale, oltre alla distribuzione geografica. Interagendo con i grafici è possibile selezionare l’anno di interesse, i settori di riferimento e i dati suddivisi per regione; “Imprese sociali”, che è la sezione dedicata alle imprese sociali, un elemento trasversale nell’economia sociale. I grafici mettono in evidenza i dati relativi al numero di imprese che hanno ottenuto la qualifica legale di impresa sociale, la loro distribuzione geografica per provincia, i settori di attività e le forme giuridiche adottate; “Il valore economico generato dalle cooperative”, che accende i riflettori sul valore della produzione e sul valore aggiunto prodotto dalle cooperative nei vari settori e territori, e sul fatturato totale suddiviso per tipologia cooperativa.
E’ a livello locale che l’economia sociale andrebbe maggiormente declinata, coniugata con l’amministrazione condivisa e la sussidiarietà. E qualche esempio in tal senso non manca: nei giorni scorsi è stato sottoscritto a Bologna un Protocollo d’intesa tra Città metropolitana, Comune di Bologna e Cgil-Cisl-Uil di Bologna e Imola, sull’Economia sociale e l’Amministrazione condivisa, siglato dal Sindaco di Bologna e dai Segretari generali delle Confederazioni sindacali. Un protocollo in cui si ribadisce che l’economia sociale, per poter sviluppare correttamente il proprio contributo, ha bisogno di un forte pilastro pubblico, in grado di garantire il carattere universalistico del sistema di garanzie sociali, di organizzare e gestire la risposta in termini di servizi ai bisogni della popolazione e di garantire i diritti sociali a tutti i cittadini: https://www.cittametropolitana.bo.it/portale/Home/Archivio_news/Economia_sociale_e_Amministrazione_condivisa.
Qui i dati di Euricse: https://euricse.eu/it/economia-sociale-italia/
Più sicurezza? Solo fuori dal capitalismo
Oramai al centro dell’attenzione internazionale c’è solo una parola: sicurezza. Un termine coniugato in modo davvero malsano.
Sicurezza è dotarsi di sempre più armi e eserciti, difendere i confini dai poveracci che bussano all’Europa o agli USA, difendere la purezza della razza bianca, difendere identità nazionali che a volte sono pura invenzione, difendersi dall’avanzare della cosiddetta teoria gender.
In realtà l’esigenza di sicurezza è realmente sentita ma non è con le armi che ci si difende da attacchi esterni, dalla guerra. E ci sono ben altre minacce che dovrebbero essere avvertiti come veri attentati alla sicurezza dei cittadini e della nazione. Sentirsi insicuri perché la sanità pubblica non funziona più e chi non ha soldi non si può curare e invece di morire sotto un improbabile bombardamento ci lascia la pelle prima di arrivare a un pronto soccorso. Sentirsi insicuri perché la casa sta diventando un lusso soprattutto nelle grandi città come Milano svendute alle immobiliari, agli speculatori e all’overtourism che gentrifica i centri urbani. Sentirsi insicuri se si tratta di giovani perché non c’è lavoro e non c’è futuro. Sentirsi insicuri perché la scuola è ritenuta non un investimento fondamentale ma una voce di costo da ridurre. Sentirsi insicuri perché lo sconvolgimento climatico presenta uno scenario cupo e sono sempre di più le vittime e le distruzioni di alluvioni, incendi e dissesti idro-geologici. E si potrebbe continuare.
Questa è la vera mancanza di sicurezza di cui ci dovremmo occupare. Queste sono le autentiche minacce da cui dovremmo difendere. Invece la parola d’ordine è una sola: più armi! E poi è un’illusione pensare che più armi, più eserciti, mettano al riparo da eventuali attacchi esterni. E’ esattamente il contrario. Il potenziale nemico risponderà in modo simmetrico. Gli Stati che possono sentirsi più sicuri sono proprio quelli che investono meno in spese militari, pacifici, dialoganti, che presentano meno un volto aggressivo all’esterno.
Mi ricordo un’analisi degli anni 80. I due Stati più sicuri erano due piccole nazioni non allineate molto diverse tra loro: Svizzera e Albania. Per non parlare del Costarica, uno dei pochi Stati al mondo che abbia rinunciato all’esercito. La sicurezza in questo senso si costruisce, come affermava Pertini, in un modo molto semplice e solo apparentemente ingenuo: riempiendo i granai e svuotando gli arsenali. La più grave minaccia reale non solo per l’Europa ma per il mondo intero si chiama comunque crisi ambientale e climatica. Ma i padroni del mondo, quelli che detengono le leve della politica e dell’economia si muovono in direzione contraria.
Trump e Musk affogheranno nei loro miliardi e nella loro supponenza è chiaro ma come è possibile che non trascinino anche noi, anche quelli che verranno nella catastrofe? Le teorie economiste che tendono a salvare capre e cavoli (ambiente e crescita) hanno fallito. Soluzioni come i certificati verdi o le speranze messianiche riposte nella tecnologia non porteranno da nessuna parte. Se vogliano davvero salvarci il capitalismo non si modifica, si abbatte, perché è causa prima del disastro. Purtroppo sono esigue minoranze quelle sullo scenario politico che abbiano il coraggio di abbandonare l’idiozia della crescita infinita in un modo finito. Anche al centro e pure a sinistra la parolina magica crescita è prima o poi sulla bocca di tutti. Senza crescita non esiste capitalismo, ma senza uscita dal mito della crescita e dal modello capitalista non esisterà più…il mondo. E oltre a quelle economiciste che tendono a migliorare il capitalismo occorre diffidare anche dell’approccio individualista che vede nella semplice modifica dei comportamenti individuali la via d’uscita. Mantenere coerenza tra il dire e il fare, fare proprio l’invito di Gandhi “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, adottare stili di vita frugali, ecc. è importante ma non deve far perdere di vista il fatto che il problema è politico e strutturale e che il vero obiettivo non può che essere il superamento del capitalismo. Magari tenendo presente come stella polare il comunismo dei beni comuni e non delle nazionalizzazioni in stile sovietico del filosofo giapponese Kohei Saito.
Ci sono interi settori, quelli che contribuiscono a concentrare la ricchezza e le leve del potere mediatico e economico nelle mani di pochi che dovrebbero essere invece di esclusivo possesso da parte dello Stato, della comunità: energia in primis.
E poi ovviamente sanità, scuola, servizi pubblici essenziali, acqua. Il potere capitalista dei soliti noti al servizio di Trump si può scardinare poi anche in modi che vedano i cittadini protagonisti diretti di scelte alternative nel campo dei social media, della messaggistica, di tutto ciò che riguarda il web. Capitalismo, riarmo e distruzione ambientale vanno a braccetto. Pace, disarmo e salvaguardia ambientale pure. Sta a noi scegliere per cosa impegnarci.
Il Congo è ricco da morire
Solidarietà alla popolazione della Repubblica Democratica del Congo
Corteo a Palermo Sabato 22 febbraio con appuntamento alle ore 15.30 a piazza Crispi
15 febbraio 2024
La Repubblica Democratica del Congo è il secondo paese per estensione dell’Africa dopo l’Algeria, con una superficie di 2.345.410 kmq, circa otto volte l’Italia, con una popolazione di 91.994.000 abitanti all’incirca, secondo una stima del 2017.
La Repubblica Democratica del Congo sta attraversando una fase critica, caratterizzata da intensi conflitti armati, crisi umanitarie e instabilità politica, con l’occupazione della città di Goma e delle altre città da parte del Movimento 23 Marzo (M23), apertamente sostenuto dal Ruanda come si evidenzia da diversi rapporti delle Nazioni Unite.
In questo momento buio sorgono varie domande e perplessità, soprattutto, riguardo al mutismo elettivo dell’Occidente, particolarmente, dell’Unione Europea, la quale un anno fa, firmò un accordo con il regime di Kagame, detto “Memorandum of Understading”, volto a garantire la fornitura di minerali in grado di assicurare la doppia transizione verde e digitale, inoltre, essenziale per settori strategici come quello della difesa e l’aerospaziale.
Secondo la ONG Global Witness, il 90% del tantalio esportato dal Ruanda proviene in realtà dalla RDC. Non solo l’UE, quasi tutte le organizzazioni sia pubbliche che private sono consapevoli che, spesso, questi minerali provengono dall’estrazione illegale, dal commercio illecito, dal trasporto al di fuori dei canali ufficiali e dalla tassazione dei minerali prodotti.
Ultimamente il gruppo ribelle dell’M23, sostenuto dal Ruanda, ha intensificato le sue operazioni militari nell’est del Congo, causando oltre tremila vittime e migliaia di feriti solo nella città di Goma. Gli ospedali sono affollati e anche i campi profughi sono stati attaccati. L’incursione dei ribelli dell’M23 nel paese si è concentrata proprio su aree dense di miniere per l’estrazione di oro, coltan, stagno, tantalio e altri minerali e terre rare.
Ma i ribelli proseguono la loro offensiva verso la provincia del Sud Kivu ed attualmente hanno occupato alcuni dei suoi territori: l’aeroporto di Kavumo, il lago Kivu e la città di Bukavu, capoluogo della provincia. Ciò costituisce una totale violazione del Diritto Internazionale, dei Diritti Umani e del Diritto Internazionale umanitario.
Quello delle risorse minerarie e naturali è un punto dolente nell’attuale crisi sociopolitica della Repubblica Democratica del Congo. In effetti, non si può comprendere a pieno la storia della repubblica democratica del Congo e la situazione sociopolitica in cui si trova oggi, senza prestare attenzione all’esistenza di una grande diversità di ricche risorse minerarie e naturali che questo paese detiene.
La parte orientale del Congo – che è al centro dei conflitti armati – presenta una fascia ricca di risorse, mentre il Katanga (al sud) e il Kasai (in centro) contengono in particolare rame, diamanti, cobalto, uranio. Nel Kivu ed in Ituri si ricavano, soprattutto l’oro e il coltan, oltre al legname pregiato e al gas e petrolio che si trovano nei grandi laghi.
Da tempo, il Governo congolese e i funzionari degli organismi internazionali e delle Nazioni Unite puntano il dito contro il Ruanda, accusandolo di sostenere e supportare i ribelli dell’M23 per impadronirsi delle miniere e contrabbandare poi le materie prime. Per molti anni il Ruanda si è nascosto dietro le smentite. Nessuno osava mettere in dubbio la versione ruandese. Ma ormai una serie di rapporti degli esperti delle Nazioni Unite puntano il dito senza esitazioni contro il Ruanda.
L’amara costatazione è che la pace, nella RD del Congo, è costantemente confrontata alle minacce da parte di questi ribelli, apertamente sostenuti da Kigali, che li fornisce ogni tipo di supporto, affiancandoli, persino, con un nutrito numero di militari Ruandesi.
La sfida della pace richiede coraggio, impegno costante e una visione condivisa. Ma notiamo che nonostante il coinvolgimento diretto del Ruanda nelle atrocità commesse in Congo, l’Unione Europea continua a finanziare Kigali, rendendosi così complice di tali crimini, ovvero, della carneficina che si sta perpetrando nell’est della Repubblica Democratica del Congo.
È il tempo del coraggio; è tempo di difendere i diritti dei bambini e delle donne Congolesi; è tempo di agire a favore della giustizia e della pace. Anche i Congolesi hanno diritto ad autodeterminarsi. La Repubblica Democratica del Congo, infatti, conformemente alle norme di Diritto Internazionale, chiede il rispetto della propria sovranità e della sua integrità territoriale.
Chiediamo che tacciano le armi e che la Comunità Internazionale abbia il coraggio di emanare delle risoluzioni contro il Ruanda, il quale deliberatamente miete morte e sparge sangue in Congo.
Chiediamo, inoltre, che il Ruanda sia espulso tra gli Stati contribuenti dei peacekeepers, perché è inconcepibile che uno Stato impegnato in missioni di peacekeeping violi consapevolmente i Diritti umani, il Diritto Internazionale umanitario e il Diritto Internazionale che esso stesso è chiamato a difendere.
I promotori: CGIL Palermo, Donne di Benin City, Movimento Right 2B Sicilia, Altrico Ody, Mondo Africa, Associazione Africa Solidale Oltre il Mediterraneo, Diaspore per la Pace, Injs, Arci Palermo
Canada e USA: le relazioni commerciali devono cambiare
Nonostante la sospensione dei dazi commerciali sui beni canadesi da parte degli americani, per alcune settimane, durante diversi eventi sportivi canadesi, i tifosi hanno espresso il loro disappunto fischiando l’inno americano ai tornei di hockey.
Secondo il Primo Ministro Justin Trudeau, i canadesi non vogliono impegnarsi in una guerra commerciale con gli Stati Uniti, ma saranno “altrettanto inequivocabili” nella loro risposta se nelle prossime settimane gli Stati Uniti metteranno in atto le loro minacce sui dazi commerciali.
Per questo motivo il governo canadese aveva deciso di imporre un dazio del 25% su 30 miliardi di dollari di beni importati dagli Stati Uniti nei primi giorni di febbraio. Ma il 3 febbraio i funzionari statunitensi e canadesi si sono incontrati e gli Stati Uniti hanno accettato di ritardare l’accordo di 30 giorni. In seguito a questo ritardo, il Canada ha attuato un piano di frontiera da 1,3 miliardi di dollari per rafforzare il confine e coordinarsi con i partner statunitensi per fermare il flusso di fentanyl.
Comunque, la minaccia incombente dei dazi è ancora molto concreta per l’economia canadese e in tutto il Canada migliaia di posti di lavoro sono a rischio.
«Dobbiamo rimanere vigili e prepararci all’impatto. Abbiamo già sentito dai membri di tutto il Canada come la minaccia dei dazi stia sconvolgendo le imprese e le economie locali. Questi nuovi dati (guerra commerciale) sottolineano ulteriormente che questo non è un gioco che vogliamo giocare quando così tanti mezzi di sostentamento dipendono da una relazione stabile con gli Stati Uniti», ha dichiarato Candace Laing, Presidente e CEO della Camera di Commercio canadese.
Per determinare il livello di rischio delle 41 città più grandi del Canada, la Camera di Commercio canadese ha sviluppato, in collaborazione con il Business Data Lab, un indice di esposizione ai dazi agli Stati Uniti che riflette sia l’intensità delle esportazioni statunitensi di una città, sia la sua dipendenza dagli Stati Uniti come destinazione chiave delle esportazioni. L’indice di esposizione ai dazi esamina le prime 10 economie più esposte, da cui emergono alcuni temi e impatti chiave:
- Esportatori di energia determinanti, come Calgary, in Alberta, e Saint John, nel New Brunswick
- Diverse città dell’Ontario sud-occidentale, poli automobilistici e manifatturieri, sono situate lungo la Highway 401
- Il più grande produttore di acciaio del Canada a Hamilton, in Ontario
- I produttori di alluminio e di silvicoltura del Quebec, Saguenay e Trois-Rivières
«I dazi proposti dal Presidente Trump avranno conseguenze significative per l’economia globale, ma per alcune città canadesi la minaccia è molto più locale e personale. Grazie a questa analisi, i canadesi, le imprese e i politici hanno maggiori elementi da incorporare alle discussioni in corso su come il Canada possa rispondere al meglio alla sfida monumentale portata da dazi statunitensi inutili e ingiustificati», ha dichiarato Stephen Tapp, Chief Economist della Camera di Commercio canadese.
In Canada, nessuno sa ancora se Trump procederà con i suoi dazi punitivi nei confronti del Canada. Ma tutti sanno che questa mossa rischia di scatenare una guerra commerciale a livello continentale. Sembra che i canadesi non abbiano più trattamento favorevole a Washington e che la relazione reciprocamente vantaggiosa tra Canada e Stati Uniti, risalente al 1850, sia ora in pericolo.
David J. Bercuson, senior fellow della Aristotle Foundation for Public Policy, che ha recentemente pubblicato l’articolo “Il Canada deve prepararsi a un futuro senza gli Stati Uniti”, spiega al National Post:
«Il popolo degli Stati Uniti ha scelto Trump e i canadesi devono rispettare la loro decisione. A questo punto non sappiamo se presto saremo coinvolti in una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Ma sappiamo che la nostra fiducia è stata infranta. Dobbiamo accettare questa cruda verità e procedere da qui».
Traduzione dall’inglese di Martina D’amico. Revisione di Mariasole Cailotto.
Rinnovo Contratto Sanità, Nursing Up smaschera chi è pronto a firmare un contratto al ribasso: una scelta che penalizza i lavoratori e favorisce l’immobilismo dell’ARAN
ROMA 21 FEB 2025 – La verità è sotto gli occhi di tutti: mentre noi di Nursing Up continuiamo a batterci per ottenere un contratto che riconosca il giusto valore agli infermieri e alle professioni sanitarie, alcune sigle sindacali si dicono pronte a sottoscrivere un accordo che riteniamo inadeguato, senza i necessari miglioramenti economici, normativi e professionali per i lavoratori.
Alcuni sindacati provano a far ricadere su di noi la responsabilità del mancato rinnovo contrattuale, sostenendo che la nostra posizione blocchi gli aumenti. La realtà, invece, è ben diversa: il contratto in discussione non garantisce un adeguato riconoscimento economico, non prevede reali percorsi di crescita professionale e non migliora le condizioni di lavoro di infermieri, ostetriche e professionisti sanitari. Chi lo accetta, di fatto, avalla una soluzione che non risponde alle esigenze delle categorie.
Un contratto scritto senza un reale confronto con chi rappresenta i lavoratori
Ancora una volta, ARAN e Regioni propongono un contratto che non tiene conto della perdita del potere d’acquisto subita negli ultimi anni. Noi chiediamo una redistribuzione più equa delle risorse stanziate per il rinnovo, e questo l’ARAN non lo dice, e la valorizzazione professionale che spetta agli infermieri e agli altri professionisti della salute.
Sottoscrivere un contratto senza le necessarie garanzie significa accettare una soluzione al ribasso, senza ottenere il dovuto riconoscimento per chi ogni giorno lavora con professionalità e dedizione in un sistema sanitario sempre più in affanno.
Nessuna imposizione, vogliamo una vera trattativa
È chiaro il tentativo di portare avanti il rinnovo contrattuale con la logica del “prendere o lasciare”, facendo pressione sui sindacati affinché firmino un accordo scritto dai datori di lavoro e che non vogliono. Ma noi di Nursing Up non accettiamo imposizioni: vogliamo un confronto reale, basato su proposte concrete e su un negoziato serio.
Se ARAN avesse davvero voluto chiudere questa partita in modo equo, allora avrebbe dovuto aprire il tavolo a vere trattative, senza convocazioni di facciata. Fino ad allora, continueremo a portare avanti le istanze degli infermieri e delle professioni sanitarie in ogni sede.
Ma se preferisce lo stile provocatorio, puntando il dito “sulla maggioranza che non ha firmato un contratto che non accetta”, allora stia pur certa, che per quanto ci riguarda basterà solo un cenno, e la nostra risposta non tarderà ad arrivare.
Noi non ci arrendiamo. Noi siamo con gli infermieri, le ostetriche e le altre professioni sanitarie.
UFFICIO STAMPA SINDACATO NURSING UP
Un welfare sempre meno universalistico e sempre più disuguale
È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.
Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.
“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.
Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”
Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).
I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).
La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.
Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.
Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).
Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.
Qui per scaricare il Rapporto: https://www.sussidiarieta.net/cn4351/welfare-motore-di-sviluppo-si-ma-previa-ristrutturazione.html
Ultima Generazione: al via la campagna “Giusto Prezzo”
ROMA, INTERROTTO LO SPETTACOLO AL TEATRO VITTORIA
Apriamo gli occhi sul disastro che vivono milioni di italiani
Roma, 22 febbraio 2025 – Ieri sera a Roma, alle ore 21, cinque persone aderenti alla campagna “Il giusto prezzo” di Ultima Generazione, hanno interrotto lo spettacolo del duo comico Nuzzo di Biase andato in scena al Teatro Vittoria. Le persone sono salite sul palco mostrando cartelli con scritto “Ultima generazione” e “Fuori è il disastro apriamogli occhi”.
Alfredo, pensionato, dal palco ha dichiarato: “Ringraziamo gli artisti perché con la loro drammaturgia esprimono benissimo l’assurdo di questa contrapposizione tra due mondi, quello di fuori e quello di dentro. Noi cerchiamo di rimuovere il mondo di fuori perché lo riteniamo irreale; invece è drammaticamente vicino e reale. Noi cerchiamo di portare consapevolezza sul mondo di fuori”.
AL VIA LA CAMPAGNA “IL GIUSTO PREZZO”
L’Italia sta affrontando una crisi agricola senza precedenti. Il prezzo dell’olio, della frutta e di altri generi alimentari di base è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Dietro questi aumenti ci sono fenomeni climatici estremi come siccità, alluvioni e grandinate, che stanno mettendo in ginocchio l’agricoltura italiana. Ma la crisi non colpisce solo i consumatori: anche gli agricoltori si trovano in difficoltà, schiacciati tra la crisi climatica e le logiche della grande distribuzione organizzata, che li costringe a vendere i loro prodotti a prezzi irrisori.
Per affrontare questa emergenza e costruire un’alleanza tra agricoltori e famiglie italiane preoccupate per il futuro, abbiamo lanciato martedì 19 febbraio la nostra nuova campagna: “Il Giusto Prezzo”.
COSA CHIEDIAMO?
PROTEGGERE I RACCOLTI: L’agricoltura italiana sta affrontando una crisi senza precedenti. Siccità, ondate di calore, grandinate e alluvioni devastano i campi, compromettendo raccolti e coltivazioni. Dobbiamo proteggere i raccolti e, per farlo, è necessario promuovere una transizione verso un nuovo sistema agricolo che sia resiliente e sostenibile economicamente ed ecologicamente.
AGGIUSTARE I PREZZI: Il costo degli alimenti nei supermercati sta diventando insostenibile, mentre ai produttori arriva solo una minima parte del prezzo finale. Chiediamo alle Istituzioni di intervenire immediatamente per garantire un giusto prezzo al cibo, equo per chi compra e per chi produce.
FAR PAGARE I RESPONSABILI: Chi rompe paga. Vogliamo che a finanziare questa transizione verso un sistema agricolo più sostenibile non siano le nostre tasse ma siano, piuttosto, gli extraprofitti dei reali responsabili della crisi attuale – la finanza, la GDO, i top manager delle multinazionali del cibo e l’industria del fossile.
PRESENTAZIONE ONLINE
Per approfondire il tema e discutere insieme le prossime azioni, ti invitiamo a partecipare al nostro incontro pubblico online il 23 febbraio. Sarà un’occasione per confrontarci, ascoltare esperti e costruire insieme un piano d’azione concreto.
PROSSIMI INCONTRI:
Prossimo incontro online è il 23 alle ore 21 – iscrizione a questo link: http://vai.ug/e/250223?cs
Milano: 4 marzo ore 20.30: Cinema Mexico, cineforum di Berlinguer insieme al regista Andrea Segre e Ultima Generazione
Roma: 11 marzo ore 21.00: Cinema Giulio Cesare, cineforum di Berlinguer insieme al regista Andrea Segre e Ultima Generazione
PROSSIMI PROCESSI:
Milano – 25 febbraio ore 9.45: Blocco stradale viale don Sturzo
I NOSTRI CANALI
Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web:
Sito web:https://ultima-generazione.com
A Chioggia ieri un altro morto in un cantiere
Spezziamo l’infernale catena degli omicidi sul lavoro
La mattina del 21 febbraio a Chioggia un altro giovane è morto sul lavoro: un giovane di 25 anni, in un cantiere edile. Impossibile non ricordare Mattia Battistetti. Anche ieri eravamo in tante e tanti al tribunale di Treviso per chiudere verità e giustizia per Mattia, per fermare questa catena insopportabile di morti sul lavoro.
Morire sul lavoro non è mai una fatalità, le cause sono note, sono la mancanza di controlli, in numero risibile rispetto alle necessità reali, la corsa al profitto, la precarietà e il sistema degli appalti e dei subappalti sempre improntati al ribasso dei costi.
Anche per questo, come abbiamo ribadito ieri davanti al tribunale di Treviso, noi sosteniamo con il massimo impegno i referendum promossi dalla CGIL perché si voti SI’ all’abrogazione delle norme che rendono il lavoro, precario, sottopagato, insicuro. Torniamo a chiedere l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro perché è inaccettabile l’impunità che protegge chi mette a rischio la vita di lavoratori.
Mentre rivolgiamo alla famiglia del giovane che ha perso la vita sul lavoro a Chioggia tutto il nostro cordoglio e vicinanza, pronti a sostenere ogni mobilitazione necessaria per avere verità e giustizia, non possiamo non ribadire il nostro impegno di sempre nella battaglia contro la strage nei luoghi di lavoro.
Maurizio Acerbo, segretario nazionale e Paolo Benvegnù, segretario regionale Veneto del Partito della Rifondazione Comunista
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