Sia fatta la MIA volontà. A proposito di fine vita
26Ogni tanto, una buona notizia: il consiglio regionale della Toscana ha approvato la proposta di legge sul fine vita; la Toscana diventa così la prima regione italiana a introdurre una regolamentazione su questa materia. Nello specifico, le persone gravemente ammalate che vorranno porre fine alle loro sofferenze potranno contare su tempi certi riguardo alla procedura per fare domanda all’Asl, nonché sulle modalità di risposta della commissione chiamata a verificare la sussistenza dei requisiti fissati dalla Corte costituzionale affinché il cosiddetto “suicidio assistito” non venga considerato reato.
Va riconosciuto ai radicali e all’associazione Luca Coscioni il merito di aver sostenuto con grande pervicacia questa battaglia, dal momento che la legge approvata dalla Regione Toscana nasce proprio da una loro proposta di iniziativa popolare supportata da oltre diecimila firme. Bisogna ricordare, infatti, che la Corte costituzionale si pronunciò chiaramente nel 2019 per la non punibilità, ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, di «chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Il riferimento era alla messa sotto accusa di Marco Cappato che, nel 2017, aveva accolto la richiesta di Fabiano Antoniani (DJ Fabo), rimasto cieco e tetraplegico per un incidente d’auto, a essere accompagnato in Svizzera per effettuare l’eutanasia.
La Toscana colma così, meritoriamente, un vuoto legislativo che rimane a livello nazionale nonostante l’importanza dell’argomento e del dibattito sul fine vita che dura da almeno vent’anni. Pensiamo, giusto per fare qualche esempio, ai casi più famosi: Eluana Englaro, lo stesso Luca Coscioni, Piergiorgio Welby.
Quasi sei anni fa, la Consulta aveva espressamente invitato il Parlamento a intervenire offrendo adeguate tutele legislative corrispondenti al dettato costituzionale. Ma questo invito è stato sempre puntualmente ignorato.
È fin troppo facile spiegare le resistenze della classe politica italiana. Le ragioni vanno ricondotte, ovviamente, alla pesante ingerenza della Chiesa cattolica nella vita pubblica di questo paese, perennemente ostaggio del Vaticano e dei suoi uomini.
Non solo il papa, i cardinali, i vescovi o i preti, ma anche tutti quei politici che, facendosi interpreti delle istanze più reazionarie del cattolicesimo, fanno di tutto per ostacolare qualunque provvedimento che potrebbe andare nella direzione di una maggiore libertà e di una maggiore autonomia degli individui.
D’altronde, il percorso toscano per l’approvazione della legge non è stato tutto in discesa, tant’è che anche tra le file del Partito democratico si sono registrati parecchi mal di pancia, specialmente fra i consiglieri di formazione cattolica. Il presidente della regione Giani si è comunque affrettato a chiarire che il testo di legge (abbondantemente emendato) «vuole essere semplicemente di attuazione sul piano amministrativo di quello che ci dice la sentenza della Corte costituzionale. Quindi non c’entra il dibattito ideologico sull’eutanasia».
Ma se i politici, specialmente i clericali e i fascisti, vogliono evitare il “dibattito ideologico” (qualunque cosa voglia dire), i preti sanno fare benissimo il loro mestiere e vanno all’attacco, senza paura dell’ideologia. «Sancire con una legge regionale il diritto alla morte non è un traguardo, ma una sconfitta per tutti» ha dichiarato il cardinale Paolo Augusto Lojudice, presidente della Conferenza Episcopale Toscana, aggiungendo una vera e propria chiamata alla mobilitazione: «Ai cappellani negli ospedali, alle religiose, ai religiosi e ai volontari che operano negli hospice e in tutti quei luoghi dove ogni giorno ci si confronta con la malattia, il dolore e la morte dico di non arrendersi e di continuare ad essere portatori di speranza, di vita. Nonostante tutto».
È abbastanza chiaro che il mondo cattolico più retrivo intensificherà la sua azione terroristica per impedire che le persone possano decidere, in piena libertà e consapevolezza, come vivere la loro vita. Perché di questo si tratta, in fondo, dal momento che scegliere come e quando morire significa – in definitiva – scegliere come e quando vivere.
La sacralità della vita, nella concezione religiosa, è qualcosa di completamente sganciato dalla realtà, dalla carne viva di cui siamo fatti. Quando i preti parlano di eutanasia o di fine vita, ogni ragionamento è inquinato da una impostazione – questa sì ideologica – che non tiene conto in alcun modo della sensibilità di chi semplicemente non riesce più a sopportare un accanimento terapeutico di una vita che non è più vita.
Lo stesso discorso vale anche per il diritto all’aborto, costantemente attaccato dal potere clericale al punto che ormai i consultori chiudono ovunque ed è diventato quasi impossibile trovare medici disposti a praticare l’interruzione volontaria di gravidanza. La vita è sacra, ci dicono i preti, e l’embrione non si tocca.
Ma a loro non importa della vita vera, non gli importa della vita di una donna che – semplicemente – non voleva, non vuole, non vorrà essere madre. Ai preti che blaterano di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato non importa nient’altro che il potere di disporre delle nostre coscienze, facendo leva sui sensi di colpa, sui ricatti morali, sull’intimidazione costante e sulla criminalizzazione della libertà.
Sostenere il diritto al suicidio assistito o il diritto all’aborto non significa essere degli assassini. Tanto per capirci, e per capire con chi abbiamo a che fare, bisogna ricordare che un’accusa di questo tenore è stata ribadita, giusto pochi mesi fa, da papa Francesco: «Un aborto è un omicidio, si uccide un essere umano, i medici che si prestano a questo sono, permettetemi la parola, sicari».
Questo è il livello della discussione nella quale ci si vorrebbe trascinare, ma noi siamo troppo civili per raccogliere provocazioni così volgari.
Quando difendiamo il diritto all’autodeterminazione, alla piena disponibilità dei corpi, della salute, della vita, della sessualità e di tutto ciò che ha a che fare con la nostra intima natura di esseri umani, noi rivendichiamo ciò che più di ogni cosa ci rende umani: la libertà. Una libertà che non è astratta ma che si concretizza nel nostro essere nel mondo, insieme agli altri. Gli occhi supplicanti di un malato terminale costretto in un letto, paralizzato e senza speranza alcuna, ci chiamano a un atto profondo di umanità e di responsabilità. La sua sofferenza è la nostra, la sua volontà di liberarsi dal dolore è la nostra, e non c’è niente di più sacro, per noi, dell’umana comprensione della sua condizione e dei suoi desideri.
Se, quindi, il caso toscano può costituire un interessante precedente anche per altre regioni italiane per garantire, nei vari territori, il rispetto di un diritto costituzionale, dal nostro specifico punto di vista rimane imprescindibile lottare senza sosta contro l’ingombrante influenza del potere religioso sul corpo sociale e politico, senza fare sconti ad alcuna confessione che pretenda di sovradeterminare le nostre esistenze e la nostra libertà. Più saremo in grado di tenere alta l’attenzione su questi temi, più ampi saranno i margini di azione per l’allargamento dei diritti che potranno esserci riconosciuti e delle libertà che sapremo prenderci.
Alberto La Via
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