Nonostante la sospensione dei dazi commerciali sui beni canadesi da parte degli americani, per alcune settimane, durante diversi eventi sportivi canadesi, i tifosi hanno espresso il loro disappunto fischiando l’inno americano ai tornei di hockey.
Secondo il Primo Ministro Justin Trudeau, i canadesi non vogliono impegnarsi in una guerra commerciale con gli Stati Uniti, ma saranno “altrettanto inequivocabili” nella loro risposta se nelle prossime settimane gli Stati Uniti metteranno in atto le loro minacce sui dazi commerciali.
Per questo motivo il governo canadese aveva deciso di imporre un dazio del 25% su 30 miliardi di dollari di beni importati dagli Stati Uniti nei primi giorni di febbraio. Ma il 3 febbraio i funzionari statunitensi e canadesi si sono incontrati e gli Stati Uniti hanno accettato di ritardare l’accordo di 30 giorni. In seguito a questo ritardo, il Canada ha attuato un piano di frontiera da 1,3 miliardi di dollari per rafforzare il confine e coordinarsi con i partner statunitensi per fermare il flusso di fentanyl.
Comunque, la minaccia incombente dei dazi è ancora molto concreta per l’economia canadese e in tutto il Canada migliaia di posti di lavoro sono a rischio.
«Dobbiamo rimanere vigili e prepararci all’impatto. Abbiamo già sentito dai membri di tutto il Canada come la minaccia dei dazi stia sconvolgendo le imprese e le economie locali. Questi nuovi dati (guerra commerciale) sottolineano ulteriormente che questo non è un gioco che vogliamo giocare quando così tanti mezzi di sostentamento dipendono da una relazione stabile con gli Stati Uniti», ha dichiarato Candace Laing, Presidente e CEO della Camera di Commercio canadese.
Per determinare il livello di rischio delle 41 città più grandi del Canada, la Camera di Commercio canadese ha sviluppato, in collaborazione con il Business Data Lab, un indice di esposizione ai dazi agli Stati Uniti che riflette sia l’intensità delle esportazioni statunitensi di una città, sia la sua dipendenza dagli Stati Uniti come destinazione chiave delle esportazioni. L’indice di esposizione ai dazi esamina le prime 10 economie più esposte, da cui emergono alcuni temi e impatti chiave:
Esportatori di energia determinanti, come Calgary, in Alberta, e Saint John, nel New Brunswick
Diverse città dell’Ontario sud-occidentale, poli automobilistici e manifatturieri, sono situate lungo la Highway 401
Il più grande produttore di acciaio del Canada a Hamilton, in Ontario
I produttori di alluminio e di silvicoltura del Quebec, Saguenay e Trois-Rivières
«I dazi proposti dal Presidente Trump avranno conseguenze significative per l’economia globale, ma per alcune città canadesi la minaccia è molto più locale e personale. Grazie a questa analisi, i canadesi, le imprese e i politici hanno maggiori elementi da incorporare alle discussioni in corso su come il Canada possa rispondere al meglio alla sfida monumentale portata da dazi statunitensi inutili e ingiustificati», ha dichiarato Stephen Tapp, Chief Economist della Camera di Commercio canadese.
In Canada, nessuno sa ancora se Trump procederà con i suoi dazi punitivi nei confronti del Canada. Ma tutti sanno che questa mossa rischia di scatenare una guerra commerciale a livello continentale. Sembra che i canadesi non abbiano più trattamento favorevole a Washington e che la relazione reciprocamente vantaggiosa tra Canada e Stati Uniti, risalente al 1850, sia ora in pericolo.
David J. Bercuson, senior fellow della Aristotle Foundation for Public Policy, che ha recentemente pubblicato l’articolo “Il Canada deve prepararsi a un futuro senza gli Stati Uniti”, spiega al National Post:
«Il popolo degli Stati Uniti ha scelto Trump e i canadesi devono rispettare la loro decisione. A questo punto non sappiamo se presto saremo coinvolti in una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Ma sappiamo che la nostra fiducia è stata infranta. Dobbiamo accettare questa cruda verità e procedere da qui».
Traduzione dall’inglese di Martina D’amico. Revisione di Mariasole Cailotto.
ROMA 21 FEB 2025 – La verità è sotto gli occhi di tutti: mentre noi di Nursing Up continuiamo a batterci per ottenere un contratto che riconosca il giusto valore agli infermieri e alle professioni sanitarie, alcune sigle sindacali si dicono pronte a sottoscrivere un accordo che riteniamo inadeguato, senza i necessari miglioramenti economici, normativi e professionali per i lavoratori.
Alcuni sindacati provano a far ricadere su di noi la responsabilità del mancato rinnovo contrattuale, sostenendo che la nostra posizione blocchi gli aumenti. La realtà, invece, è ben diversa: il contratto in discussione non garantisce un adeguato riconoscimento economico, non prevede reali percorsi di crescita professionale e non migliora le condizioni di lavoro di infermieri, ostetriche e professionisti sanitari. Chi lo accetta, di fatto, avalla una soluzione che non risponde alle esigenze delle categorie.
Un contratto scritto senza un reale confronto con chi rappresenta i lavoratori
Ancora una volta, ARAN e Regioni propongono un contratto che non tiene conto della perdita del potere d’acquisto subita negli ultimi anni. Noi chiediamo una redistribuzione più equa delle risorse stanziate per il rinnovo, e questo l’ARAN non lo dice, e la valorizzazione professionale che spetta agli infermieri e agli altri professionisti della salute.
Sottoscrivere un contratto senza le necessarie garanzie significa accettare una soluzione al ribasso, senza ottenere il dovuto riconoscimento per chi ogni giorno lavora con professionalità e dedizione in un sistema sanitario sempre più in affanno.
Nessuna imposizione, vogliamo una vera trattativa
È chiaro il tentativo di portare avanti il rinnovo contrattuale con la logica del “prendere o lasciare”, facendo pressione sui sindacati affinché firmino un accordo scritto dai datori di lavoro e che non vogliono. Ma noi di Nursing Up non accettiamo imposizioni: vogliamo un confronto reale, basato su proposte concrete e su un negoziato serio.
Se ARAN avesse davvero voluto chiudere questa partita in modo equo, allora avrebbe dovuto aprire il tavolo a vere trattative, senza convocazioni di facciata. Fino ad allora, continueremo a portare avanti le istanze degli infermieri e delle professioni sanitarie in ogni sede.
Ma se preferisce lo stile provocatorio, puntando il dito “sulla maggioranza che non ha firmato un contratto che non accetta”, allora stia pur certa, che per quanto ci riguarda basterà solo un cenno, e la nostra risposta non tarderà ad arrivare.
Noi non ci arrendiamo. Noi siamo con gli infermieri, le ostetriche e le altre professioni sanitarie.
È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.
Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.
“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.
Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”
Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).
I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).
La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.
Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.
Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).
Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.
ROMA, INTERROTTO LO SPETTACOLO AL TEATRO VITTORIA
Apriamo gli occhi sul disastro che vivono milioni di italiani
Roma, 22 febbraio 2025 – Ieri sera a Roma, alle ore 21, cinque persone aderenti alla campagna “Il giusto prezzo” di Ultima Generazione, hanno interrotto lo spettacolo del duo comico Nuzzo di Biase andato in scena al Teatro Vittoria. Le persone sono salite sul palco mostrando cartelli con scritto “Ultima generazione” e “Fuori è il disastro apriamogli occhi”.
Alfredo, pensionato, dal palco ha dichiarato: “Ringraziamo gli artisti perché con la loro drammaturgia esprimono benissimo l’assurdo di questa contrapposizione tra due mondi, quello di fuori e quello di dentro. Noi cerchiamo di rimuovere il mondo di fuori perché lo riteniamo irreale; invece è drammaticamente vicino e reale. Noi cerchiamo di portare consapevolezza sul mondo di fuori”.
AL VIA LA CAMPAGNA “IL GIUSTO PREZZO”
L’Italia sta affrontando una crisi agricola senza precedenti. Il prezzo dell’olio, della frutta e di altri generi alimentari di base è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Dietro questi aumenti ci sono fenomeni climatici estremi come siccità, alluvioni e grandinate, che stanno mettendo in ginocchio l’agricoltura italiana. Ma la crisi non colpisce solo i consumatori: anche gli agricoltori si trovano in difficoltà, schiacciati tra la crisi climatica e le logiche della grande distribuzione organizzata, che li costringe a vendere i loro prodotti a prezzi irrisori.
Per affrontare questa emergenza e costruire un’alleanza tra agricoltori e famiglie italiane preoccupate per il futuro, abbiamo lanciato martedì 19 febbraio la nostra nuova campagna: “Il Giusto Prezzo”.
COSA CHIEDIAMO?
PROTEGGERE I RACCOLTI: L’agricoltura italiana sta affrontando una crisi senza precedenti. Siccità, ondate di calore, grandinate e alluvioni devastano i campi, compromettendo raccolti e coltivazioni. Dobbiamo proteggere i raccolti e, per farlo, è necessario promuovere una transizione verso un nuovo sistema agricolo che sia resiliente e sostenibile economicamente ed ecologicamente.
AGGIUSTARE I PREZZI: Il costo degli alimenti nei supermercati sta diventando insostenibile, mentre ai produttori arriva solo una minima parte del prezzo finale. Chiediamo alle Istituzioni di intervenire immediatamente per garantire un giusto prezzo al cibo, equo per chi compra e per chi produce.
FAR PAGARE I RESPONSABILI: Chi rompe paga. Vogliamo che a finanziare questa transizione verso un sistema agricolo più sostenibile non siano le nostre tasse ma siano, piuttosto, gli extraprofitti dei reali responsabili della crisi attuale – la finanza, la GDO, i top manager delle multinazionali del cibo e l’industria del fossile.
PRESENTAZIONE ONLINE
Per approfondire il tema e discutere insieme le prossime azioni, ti invitiamo a partecipare al nostro incontro pubblico online il 23 febbraio. Sarà un’occasione per confrontarci, ascoltare esperti e costruire insieme un piano d’azione concreto.
PROSSIMI INCONTRI:
Prossimo incontro online è il 23 alle ore 21 – iscrizione a questo link: http://vai.ug/e/250223?cs
Milano: 4 marzo ore 20.30: Cinema Mexico, cineforum di Berlinguer insieme al regista Andrea Segre e Ultima Generazione
Roma: 11 marzo ore 21.00: Cinema Giulio Cesare, cineforum di Berlinguer insieme al regista Andrea Segre e Ultima Generazione
PROSSIMI PROCESSI:
Milano – 25 febbraio ore 9.45: Blocco stradale viale don Sturzo
I NOSTRI CANALI
Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web:
Sito web:https://ultima-generazione.com
Spezziamo l’infernale catena degli omicidi sul lavoro
La mattina del 21 febbraio a Chioggia un altro giovane è morto sul lavoro: un giovane di 25 anni, in un cantiere edile. Impossibile non ricordare Mattia Battistetti. Anche ieri eravamo in tante e tanti al tribunale di Treviso per chiudere verità e giustizia per Mattia, per fermare questa catena insopportabile di morti sul lavoro.
Morire sul lavoro non è mai una fatalità, le cause sono note, sono la mancanza di controlli, in numero risibile rispetto alle necessità reali, la corsa al profitto, la precarietà e il sistema degli appalti e dei subappalti sempre improntati al ribasso dei costi.
Anche per questo, come abbiamo ribadito ieri davanti al tribunale di Treviso, noi sosteniamo con il massimo impegno i referendum promossi dalla CGIL perché si voti SI’ all’abrogazione delle norme che rendono il lavoro, precario, sottopagato, insicuro. Torniamo a chiedere l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro perché è inaccettabile l’impunità che protegge chi mette a rischio la vita di lavoratori.
Mentre rivolgiamo alla famiglia del giovane che ha perso la vita sul lavoro a Chioggia tutto il nostro cordoglio e vicinanza, pronti a sostenere ogni mobilitazione necessaria per avere verità e giustizia, non possiamo non ribadire il nostro impegno di sempre nella battaglia contro la strage nei luoghi di lavoro.
Maurizio Acerbo, segretario nazionale e Paolo Benvegnù, segretario regionale Veneto del Partito della Rifondazione Comunista
Il sostegno tedesco al Ruanda viene accolto con proteste a causa della guerra del Paese nel Congo orientale. In pratica, un accordo dell’UE sulle materie prime con il Ruanda favorisce anche l’importazione in Germania di “minerali insanguinati” rubati nel Congo orientale.
Decenni di sostegno al Ruanda da parte della Germania e dell’UE stanno suscitando sempre più proteste per il ruolo assunto dalla Repubblica federale tedesca nella guerra nel Congo orientale. Per decenni, il governo ruandese di Kigali ha sostenuto ogni tipo di milizia nelle vicine province del Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, che saccheggia le materie prime su larga scala e le contrabbanda in Ruanda. Kigali ne ricava miliardi, mentre le milizie del Congo orientale continuano la guerra. Negli ultimi mesi e settimane, la milizia M23 (Movimento 23 Marzo di etnia tutsi N.d.T) ha conquistato ampie zone delle province del Kivu con il sostegno diretto in prima linea dei soldati delle forze armate ruandesi causando l’attuale fuga di tantissimi congolesi.
La Germania collabora da tempo a stretto contatto con il Ruanda, ex colonia del Reich tedesco, Paese che assunto ultimamente una certa rilevanza per Berlino anche come luogo di esternalizzazione delle domande di asilo in zone remote del mondo. Inoltre, l’anno scorso, l’UE ha concluso un accordo con Kigali che prevede la fornitura di materie prime fondamentali. Gli osservatori ipotizzano che grazie a questo accordo anche i “minerali insanguinati” provenienti dalla guerra nel Congo orientale raggiungeranno l’Europa.
L’interesse per il Ruanda
La Germania, insieme ad altri Paesi occidentali e all’Unione Europea collabora da anni con il Ruanda, considerando il suo passato da ex colonia dell’Impero tedesco dal 1884 al 1916. Berlino versa a Kigali ingenti somme dal suo bilancio per lo sviluppo; di recente, nell’ottobre 2022, ha promesso una somma di 93,6 milioni di euro per un periodo di tre anni, due terzi dei quali sono stati destinati alla cosiddetta “cooperazione finanziaria” per la promozione degli investimenti [1]. Il Ruanda è uno dei Paesi che la Germania ha incluso nel progetto Compact with Africa, che mira a migliorare le condizioni quadro per gli investimenti stranieri nei Paesi africani partecipanti. Inoltre, a Kigali è stato istituito un Business Desk tedesco per la promozione degli investimenti.
Inoltre, nel 2019 il Ministero federale tedesco per la cooperazione e lo sviluppo economico ha inaugurato un centro digitale che, secondo le informazioni ufficiali, è destinato a “fare da ponte” tra le aziende e gli istituti di ricerca tedeschi e ruandesi [2]. Volkswagen ha uno stabilimento a Kigali dal 2018 e anche il produttore tedesco di vaccini BioNTech vi è rappresentato dal 2023. Il Ruanda è ovviamente noto in Europa soprattutto come potenziale partner di cooperazione per i piani di trasferimento dei richiedenti asilo in Paesi lontani; l’opzione è stata presa in considerazione anche a Berlino [3].
Fornitore di materie prime
Tuttavia, il Ruanda riveste un’importanza cruciale come fornitore di materie prime. Da decenni gli osservatori sottolineano che il Paese esporta quantità significativamente superiori a quelle prodotte sul proprio territorio. Gran parte delle esportazioni di materie prime del Ruanda provengono proprio dalle zone limitrofe della Repubblica Democratica del Congo, in particolare dalle province congolesi orientali del Nord e del Sud Kivu, che ne sono estremamente ricche. Dall’inizio della grande guerra nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo nel 1996, Kigali ha sostenuto le milizie, in particolare nel Nord Kivu, che trasportano illegalmente una parte significativa delle risorse minerarie attraverso il confine con il Ruanda. Ciò significa che Kinshasa sta perdendo ingenti somme di denaro; nel 2023, il ministro delle Finanze della RDC, Nicolas Kazadi, ha stimato l’importo in un miliardo di dollari USA all’anno [4].
In questo contesto appare evidente che il ruolo delle milizie sostenute dal Ruanda è quello di assicurare il proseguimento della guerra nel Congo orientale – sponsorizzata da Kigali. Due decenni fa, le organizzazioni per i diritti umani hanno richiamato l’attenzione sulle conseguenze del coltan – il minerale, utilizzato ad esempio per la produzione di telefoni cellulari- che viene estratto nel Nord Kivu, spesso nelle peggiori condizioni di lavoro, contrabbandato in Ruanda e da lì esportato. Kigali incassa i profitti, mentre nel Congo orientale permangono guerra e miseria.
Minerali insanguinati
Anni di campagne contro l’approvvigionamento di “minerali insanguinati” dal Congo orientale attraverso il Ruanda sono semplicemente fallite perché gli Stati occidentali – ben riforniti di materie prime – collaborano strettamente con Kigali, coprendo così efficacemente il contrabbando e la furia delle milizie sostenute dal Ruanda nel Congo orientale. Nel febbraio dello scorso anno, l’UE ha persino concluso un memorandum d’intesa con il governo ruandese, che prevede una stretta cooperazione nell’estrazione e nella lavorazione delle risorse naturali. L’attenzione è rivolta alle cosiddette materie prime critiche, indispensabili per le tecnologie della transizione energetica. La Commissione UE sottolinea esplicitamente che il Ruanda esporta quantità particolarmente elevate di tantalio [5], estratto tra l’altro dal coltan. Le organizzazioni per i diritti umani avvertono che c’è un alto rischio di ingresso nell’UE di “minerali insanguinati” sulla base del Memorandum d’intesa [6]. Sebbene Bruxelles sostenga di avere meccanismi di controllo per garantire che questo non si verifichi, gli esperti denunciano che tali meccanismi siano stati a lungo aggirati con ogni tipo di mezzo nel contrabbando quotidiano dal Congo orientale al Ruanda, rendendoli sostanzialmente inefficaci.
Guerra di conquista
Nel 2021, il Ruanda ha riattivato la milizia M23, fondata originariamente nel 2012, per assicurarsi l’accesso alle materie prime del Congo orientale. Nel 2022, gli esperti delle Nazioni Unite hanno dichiarato di avere le prove che l’M23 non solo disponeva di armi insolitamente moderne, ma era anche sostenuto da truppe delle forze armate ruandesi direttamente sul territorio della RDC. Con il loro aiuto, l’M23 ha preso il controllo di aree in crescita, compresi nuovi depositi di materie prime. Questo è continuato anche dopo la conclusione formale di un cessate il fuoco tra la RDC e il Ruanda nel luglio 2024. Inoltre, secondo gli esperti delle Nazioni Unite all’inizio del 2025 nel Nord Kivu sono stati dispiegati da 3.000 a 4.000 soldati delle forze armate ufficiali ruandesi e si ritiene che siano state coinvolte anche nell’offensiva della milizia dell’M23 [7]. Alla fine di gennaio, queste forze sono riuscite a conquistare insieme la capitale del Nord Kivu, Goma. Dopo un breve cessate il fuoco, le milizie hanno continuato i loro attacchi martedì [8] e da allora innumerevoli persone hanno perso la vita. La scorsa settimana è stato riferito che più di 2.000 persone sono state bruciate a Goma dopo l’invasione dell’M23. Secondo l’UNHCR, il numero di rifugiati costretti a vivere nelle province del Kivu, in particolare in condizioni di estrema miseria, si avvicina a cinque milioni [9].
Il corridoio verde
L’offensiva del Ruanda e l’occupazione di gran parte delle province del Kivu avvengono in un momento in cui la RDC sta offrendo all’UE la possibilità di cooperare per le riserve di materie prime del Congo orientale, come sottolinea Kambale Musavuli del Centro di ricerca sul Congo-Kinshasa. In occasione del World Economic Forum di quest’anno (20-24 gennaio) a Davos, il presidente della RDC, Félix Tshisekedi, ha promosso la sua nuova iniziativa del corridoio verde [10], che prevede numerose misure di sviluppo in un’enorme striscia di terra lungo il fiume Congo, che vanno dalla produzione di energie rinnovabili alla promozione dell’agricoltura e alla creazione di infrastrutture di trasporto. Il corridoio verde è un progetto a lungo termine destinato a collegare le province orientali congolesi del Kivu con la capitale Kinshasa [11].
Come riferisce Kambale Musavuli, il corridoio è in grado di competere con la tradizionale rotta di trasporto e contrabbando che dalle province del Kivu conduce in Kenya attraverso il Ruanda e l’Uganda. La Commissione europea ha recentemente confermato di voler sostenere la creazione del corridoio verde – e la relativa costruzione di infrastrutture di trasporto [12]. In definitiva, attraverso questo corridoio si potrebbero trasportare fino a un milione di tonnellate di prodotti agricoli dalle province del Kivu a Kinshasa ogni anno, materie prime comprese.
La protesta
Nel frattempo si stanno moltiplicando le proteste contro la guerra nelle province del Kivu, contro l’occupazione di ampie zone della regione da parte delle milizie dell’M23 e delle truppe ruandesi e contro l’approvazione delle azioni omicide da parte degli Stati occidentali. Alla fine di gennaio, manifestanti infuriati a Kinshasa hanno attaccato le ambasciate del Ruanda, degli Stati Uniti, della Francia e del Belgio, tra gli altri [13]. Da allora si sono svolte proteste anche in altre città della RDC e anche in Germania gli attivisti contestano l’approvazione implicita della Germania della guerra ruandese nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo.
Fonti
[1], [2] Ruanda. bmz.de.
[3] Judith Kohlenberger: Das Ruanda-Modell ist gescheitert – das sollte man endlich auch in Berlin verstehen. spiegel.de 17.07.2024. Vedi anche Die “Option Ruanda”.
[4] Lorraine Mallinder: ‘Blood minerals’: What are the hidden costs of the EU-Rwanda supply deal? aljazeera.com 02.05.2024.
[5] EU and Rwanda sign a Memorandum of Understanding on Sustainable Raw Materials Value Chains. ec.europa.eu 19.02.2024.
[6] Lorraine Mallinder: ‘Blood minerals’: What are the hidden costs of the EU-Rwanda supply deal? aljazeera.com 02.05.2024.
[7] Romain Chanson: RDC, Rwanda et M23 : ce que contient le dernier rapport de l’ONU. jeuneafrique.com 08.01.2025.
[8] Amid DR Congo ceasefire, Goma residents race to bury 2,000 bodies. aljazeera.com 05.02.2025. Rwanda-backed M23 fighters resume attacks in DR Congo after two-day pause. aljazeera.com 11.02.2025.
[9] UNHCR gravely concerned by worsening violence and humanitarian crisis in eastern DR Congo. unhcr.org 24.01.2025.
[10] Kambale Musavuli: Congolese General Cirimwami assassinated in North Kivu, escalating the region’s crisis. peoplesdispatch.org 25.01.2025.
[11] Gill Einhorn, Emmanuel de Merode: The Democratic Republic of Congo to create the Earth’s largest protected tropical forest reserve. weforum.org 22.01.2025.
[12] Global Gateway: A Green Corridor preserving the last lungs of the earth through green economic growth. international-partnerships.ec.europa.eu 22.01.2025.
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Secondo un rapporto basato su milioni di conversazioni con il chatbot Claude, l'intelligenza artificiale viene oggi usata principalmente in campo informatico e creativo, ma sta iniziando a diffondersi in tutti i settori dell'economia
Siamo tornati a una situazione di non-crescita. Il nostro paese, che da trent’anni presenta una situazione economica estremamente fragile, aveva vissuto durante il governo Draghi e poi quello Meloni un rimbalzo post pandemico. Il PIL aumentava, mentre l’occupazione raggiungeva livelli record. Ma oggi quel rimbalzo sembra ormai esaurito: come testimoniano i dati, la crescita italiana è sempre più stagnante, mentre l’occupazione ha avuto una battuta d’arresto negli ultimi mesi dell’anno, anche se modesta.
I segnali che indicavano l’estrema fragilità della crescita italiana si potevano già percepire: i dati sulla produzione industriale lo segnalavano da tempo, con un calo che va avanti dai tempi del governo Draghi. Eppure, nonostante le prospettive per la nostra economica siano tutt’altro che rosee, non vi è alcuna flessione nelle intenzioni di voto ai partiti che compongono la maggioranza. Questo è particolarmente preoccupante proprio alla luce della politica economica portata avanti dal governo Meloni, orientata a misure di corto raggio a discapito di riforme e programmazione sul lungo periodo per cercare di fermare il declino del paese.
La situazione odierna: PIL, occupati, produzione industriale
Partiamo da una rapida panoramica sui principali indicatori macroeconomici, concentrandoci su tre di questi.
Il punto di partenza è chiaramente il PIL. Nel quarto trimestre del 2024, secondo le stime preliminari dell’ISTAT, la crescita del PIL è rimasta stazionaria rispetto al trimestre precedente, con un lieve aumento invece rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. Questo comporterebbe una crescita su base annua dello 0,5 per cento, nonostante le precedenti stime di crescita della Commissione Europea dello 0,7 fossero già al di sotto della media europea. Le stime del Governo, contenute nel documento programmatico di Bilancio, stimavano una crescita nel 2024 intorno all’1 per cento.
Un altro fattore di preoccupazione è che la crescita acquisita per il 2025 risulta, secondo queste stime preliminari, pari a zero. Questo significa che non c’è alcun supporto dell’anno passato per la crescita dell’anno corrente, delineando una strada tutta in salita.
Il secondo dato riguarda l’occupazione. Nel corso degli ultimi anni l’occupazione è cresciuta fino a raggiungere il record dagli anni Settanta. Tuttavia, da alcuni mesi si assiste a una situazione meno rosea. Come fa notare una nota dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), già nei mesi estivi, nonostante la buona performance del mercato del lavoro, le ore lavorate pro capite sono diminuite in tutti i settori. Ciò è dovuto, scrive l’UPB, al fenomeno del labour hoarding: quando l’economia è in fase di stagnazione le imprese scelgono di mantenere i dipendenti non utilizzati per non incorrere in costi di licenziamento qualora la situazione migliorasse. Nei mesi autunnali, invece, si è assistito a un lieve rallentamento, con un calo dello 0,1 per cento.
Il terzo e ultimo dato, forse quello più preoccupante vista la tendenza, riguarda il calo della produzione industriale. Secondo i dati diffusi, si è assistito a un calo del 3,5 per cento nel mese di dicembre rispetto a novembre. Su base annua il calo è ancora più impressionante, arrivando al 7,1 per cento rispetto a dicembre 2023. Un valore che deve essere visto in una situazione di già profonda difficoltà dell’industria nel nostro paese: il calo della produzione industriale nell’anno 2023 era stato intorno al 2 per cento. Se allarghiamo l’orizzonte, i grafici ISTAT mostrano come la produzione industriale sia oggi inferiore rispetto ai valori pre-pandemia.
Il Sole 24 Ore ha stimato che il costo in termini di incassi si aggira attorno ai 42 miliardi di euro nell’anno appena passato. Per quanto vi sia eterogeneità tra i settori, gli unici che hanno registrato una crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente sono stati quello estrattivo, con un aumento del 17,4 per cento, e quello della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria, con un incremento del 5 per cento. Al contrario, si sono osservate significative flessioni in altri settori: la produzione di mezzi di trasporto è diminuita del 23,6 per cento, le industrie tessili, dell’abbigliamento, delle pelli e degli accessori hanno registrato un calo del 18,3 per cento e la metallurgia che ha invece chiuso con un -14,6 per cento.
Un report del centro di ricerca Prometeia ci permette di avere una situazione comparata rispetto ai nostri partner e un prospetto di quello che ci attende nel 2025. Sia Francia sia Spagna, escludendo il comparto energetico, hanno registrato un calo su base mensile di 0,7 e 0,4 per cento rispettivamente. Al contrario la Germania, che si trova da anni in una situazione economica delicata, ha registrato un calo del 3,3 per cento.
Come rileva sempre il report di Prometeia, non ci sono segnali di miglioramento all’orizzonte. A gennaio, il clima di fiducia tra le imprese manifatturiere italiane ha registrato un lieve aumento, ma rimane comunque su livelli molto bassi. Inoltre, le aspettative per il futuro non indicano alcun cambiamento significativo rispetto alla situazione attuale, lasciando poco spazio all’ottimismo. Si vanno infatti ad aggiungere fattori esogeni che potrebbero compromettere la performance della manifattura italiana.
Su tutti, il più grave rischio resta quello dei dazi degli Stati Uniti. Il Presidente Donald Trump ha infatti attaccato il deficit commerciale sui beni con l’Europa, puntando su misure protezionistiche per riequilibrarlo. È probabile che questo si rifletta sulla produzione industriale europea, almeno nel breve periodo, se non saranno trovati nuovi mercati o se non si sostituisce con la domanda interna. Tra i paesi più esposti ci sono Germania e, appunto, Italia.
Il problema è strutturale, ma il governo Meloni non vuole affrontarlo
Concentrandosi sul dato della produzione industriale, è necessario evidenziare quali siano i fattori dietro a questo calo. E, soprattutto, se questa situazione non segnali anche una debolezza più strutturale del tessuto economico italiano.
Il leader di Confindustria Emanuele Orsini ha sostenuto che, a differenza della Germania, la situazione nel nostro paese non è strutturale, ma dipende da vari fattori contingenti. Come riportato da Il Sole 24 Ore, secondo Orsini:
Ci sono due settori, auto e moda-tessile abbigliamento, con gravi perdite a doppia cifra. Ci sono poi i settori energivori che perdono in maniera rilevante per l’aumento dei costi, e ci sono settori, come i beni intermedi e i beni strumentali per la produzione, macchinari e robotica, che perdono per il freno agli investimenti nel nostro paese. Tutto questo, in assenza di correzioni drastiche, rischia di contaminare anche settori che finora stanno tenendo a galla con fatica l’economia italiana.
Uno dei temi principali resta, quindi, quello dei costi dell’energia. I rincari, non solo per le imprese ma anche per le famiglie, sono stimati intorno al 31 per cento. Un tale aumento dei costi di produzione rischia di essere un macigno sui beni italiani, soprattutto sull’export che rappresenta una componente principale del mercato. Il governo Meloni però non è ancora intervenuto su questo nuovo aumento: il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Pichetto Fratin punta sul nucleare, che non ha alcun effetto sull’immediato. Non solo: per quel che riguarda l’export, la crisi tedesca ha indubbiamente un effetto contagio in Italia. Le imprese di beni intermedi italiane vendono a quelle tedesche e anche i dati confermano la sincronizzazione tra i due paesi.
Ma se è vero che vi sono dei fattori contingenti, il tessuto industriale italiano presenta problemi che sono ben più radicati. Dopo la fine della stagione dello Stato Imprenditore, con la privatizzazione dell’IRI, il nostro paese ha esacerbato un dualismo all’interno dell’industria - e in generale della nostra economia - con poche imprese di grandi dimensioni che sono in grado di competere sul mercato globale e una marea di piccole e medie che invece arranca. Inoltre, si è assistito a una sempre maggior enfasi su settori a basso valore aggiunto e nei servizi, come quello del turismo di cui il governo sottolineava l’ottima performance.
La natura persistente del problema indica che le soluzioni non possono essere trovate, se non quelle tampone, in tempi rapidi. Al contrario, richiedono una visione strategica di lungo periodo.
Ma il governo Meloni sta facendo qualcosa in tal senso? Se si esamina la linea di politica economica seguita dal governo nel corso di questi anni, attraverso le finanziarie e altri provvedimenti, si nota una totale assenza di programmazione. Il governo Meloni tratta i problemi dell’industria italiana soltanto a parole, denunciando sì le decisioni di Stellantis, ma senza intervenire, come aveva detto, per garantire un nuovo produttore italiano. Lo stesso Ministro Adolfo Urso parla di tutto, tranne che di impresa: nel corso degli anni ha lanciato proposte mirabolanti, come “aggiungi un posto a tavola”, che non hanno alcun effetto sulla crescita e sul benessere del paese. D’industria, salvo in casi eccezionali ed emergenziali, non si parla.
Anzi, stando alle misure principali, il governo Meloni sembra andare addirittura nella direzione opposta, puntando più su politiche sul lato domanda che sul lato offerta. Per comprenderlo è bene riprendere i due provvedimenti di maggior importanza intrapresi dal governo nel corso di questi anni in materia di politica economica: il taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento degli scaglioni IRPEF. Quello che accomuna le due misure è il tentativo di intervenire sui salari netti, aumentandoli con un taglio delle trattenute da parte dello stato. Anche le promesse del governo, come quella di ridurre la seconda aliquota IRPEF dal 35 al 33 per cento per aiutare il ceto medio, sembrano andare nella stessa direzione.
Una strategia di questo tipo poteva forse essere condivisibile in un periodo emergenziale di elevata inflazione, come quello che si è trovato ad affrontare il governo Draghi e nel primo anno e mezzo il governo Meloni. In un contesto in cui l’inflazione è in calo - se non appunto su beni come l’energia - servirebbe invece un piano non tanto per aumentare i salari netti, bensì quelli lordi.
Perché è così importante parlare di salari lordi, se alla fine ai lavoratori arriva quello netto con cui spendono e risparmiano? Il motivo risiede nella relazione, estremamente complessa, tra il salario e la produttività, un indicatore cruciale che misura il rapporto tra la quantità di output e di input. Ci permette, cioè, di comprendere se le risorse come il lavoro e il capitale sono utilizzate in maniera efficiente. Se le aziende sono più produttive e quindi più efficienti nella produzione, possono permettersi stipendi più elevati per i dipendenti. Questo è il problema del tessuto industriale italiano da almeno trent’anni a questa parte: una produttività in calo che si riflette sui salari, impoverendo il paese e rendendolo meno competitivo. Per affrontarlo, serve una strategia più incisiva e ragionata rispetto a un taglio del cuneo fiscale che, come mostrano le evidenze comparate, non è che la punta dell’iceberg.
Il governo Meloni non ha un piano, ma nemmeno l’opposizione
Se la situazione economica non è più complicata di quanto già non fosse, ciò che preoccupa è invece un governo che anche di fronte a problemi urgenti non riesce a essere incisivo. Il governo Meloni sembra più interessato a controllare l’agenda mediatica con attacchi a settori come la magistratura, per cercare di sviare i problemi dell’economia. Quest’ultimo tema, un tempo al centro del dibattito pubblico, è via via scomparso, quasi come se il paese avesse accettato la strada di declino imboccata trent’anni fa. Il governo ha preferito così concentrarsi su piccoli contentini nell’immediato rispetto a politiche più incisive, il tutto mediante uno strumento che si presta bene alla narrazione della destra italiana: quello delle tasse.
Se il governo non ha un piano, però, nemmeno l’opposizione sembra in grado di sfruttare i problemi sul fronte economico per far breccia nell’elettorato. Sia il PD sia gli altri partiti di opposizione riescono a malapena a scalfire la superficie del dibattito, spesso andando a riprendere gli argomenti portati dalla destra più che cercando di imporre la propria narrazione e denunciando l’inadeguatezza del governo davanti alla situazione in cui si trova il paese.
Allo stesso tempo, data la natura continentale del problema, anche l’Europa deve ripensare la sua strategia industriale alla luce delle tensioni geopolitiche. Questo passa inevitabilmente da un rilancio della politica industriale europea, soprattutto per sostenere settori come quello automobilistico, con il duplice scopo di aumentare la produttività e contrastare la crisi climatica. Se questo sforzo è necessario, allo stesso tempo va coniugato con politiche per rafforzare i diritti dei lavoratori e i salari, dopo decenni di quota salari in discesa, al fine di supportare la domanda interna.