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Evo Morales sostiene di essere candidabile, la legge dice di no

«Siamo pienamente abilitati a presentarci alle elezioni. È impressionante il sostegno che stiamo ricevendo: sono sicuro che vinceremo le elezioni col 60%!». A parlare alla ristretta cerchia di militanti giunti dalle più remote province del paese, è Evo Morales, già presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia e da più di due anni diretto avversario dell’attuale presidente Luis Lucho Arce Catacora. Non ci sarebbe niente di strano in quest’affermazione se non fosse che Evo e Lucho fanno parte, perlomeno ancora formalmente, dello stesso partito: il Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp).

Da due anni Evo sta spaccando il partito giungendo alla creazione di quel che è stato definito un Mas-parallelo rispetto a quello istituzionale e riconosciuto giuridicamente. In queste settimane, però, Morales è messo alle strette dalla giustizia: il tribunale di Tarija lo ha accusato di violenza sessuale su di una minorenne, fatto che risalirebbe attorno a due lustri fa. L’ex presidente non si sta presentando in tribunale, nonostante le convocazioni, e su di lui ora pende un mandato di cattura: obbligato al domicilio presso la sua residenza, non può uscire dalla regione del Chiapare in cui si sente protetto da settori politici, sindacali e dell’associazionismo legati alla realtà dei cocaleros che pure presiede.

Un outsider?
Il personaggio vicino a Evo che sta emergendo in questa circostanza è Andronico Rodriguez, giovane esponente del Mas-Ipsp, vicepresidente del Senato, è sostenitore della fazione anti Lucho. È lui a rappresentare il volto nuovo della fazione evista nonché la possibile cerniera tra le due correnti politiche. Tuttavia, sebbene la stampa boliviana abbia diffuso notizie che prevederebbero un possibile accordo di pacificazione nel partito prevedendo Arce candidato alla presidenza e Rodriguez come vice, lo stesso senatore si è detto indisponibile al tandem. «Ci sono state speculazioni e informazioni false che hanno attribuito il mio nome addirittura come candidato alla presidenza», ha dichiarato Andronico Rodriguez l’8 febbraio [2025] in un comizio dei sostenitori di Morales tenutosi nella città di Cochabamba, «il movimento popolare che si è unito attorno al nome di Evo Morales lo sosterrà [ancora] alla presidenza in vista delle prossime elezioni». Come a volersi smarcare dalle ricostruzioni della stampa, ha ribadito il proprio sostegno all’ex presidente. Chissà, però, che non succeda il contrario: in fondo alcune dichiarazioni servono in determinate circostanze specifiche ma lasciano il tempo che trovano nel lungo periodo. Succede così anche in Italia, d’altra parte.

Divisioni interne ed esterne
«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», ha dichiarato raggiunta al telefono Julia Damiana Ramos Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramos Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – ha aggiunto – «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione». Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.

Ma questo ora a Evo non importa più
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite Radio Kawsachun Coca. Da settimane militanti a lui vicini stanno raggiungendo il suo domicilio, riunendosi con lui presso i locali della Seis federaciones, per «dimostrargli l’affetto e il sostegno politico». Una settimana fa una porzione consistente dei presidenti delle municipalità del dipartimento della capitale politica (La Paz) hanno riconosciuto Evo come candidato alla presidenza alle prossime elezioni che si terranno in agosto. Per dare un’idea dello scontro in atto: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente sono durati più di due mesi e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l’Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.

«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», ha spiegato da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid.

La violenza è ovunque
L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (come s’è accennato sopra): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula. «Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige.

Il quotidiano boliviano «La Razon», che pure sarebbe vicino alle istanze del Mas-Ipsp, nell’edizione di lunedì 3 febbraio [2025] ha pubblicato numeri piuttosto eloquenti riguardo lo sfruttamento minorile nel paese: «In 11 anni si sono registrati 6.001 matrimoni tra uomini e ragazze minorenni la cui età si aggira tra i 16 e i 17 anni». Ancora: «nel 6,06% dei casi registrati l’età dello sposo è fino a tre volte superiore a quella della sposa». Una situazione evidentemente esplosiva che rappresenta, purtroppo, un costume diffusissimo nel paese.

«Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scoladtiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni».

La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore: sulle elezioni che si terranno ad agosto aleggia lo spettro di nuovi scontri sociali, com’è avvenuto per il tentato golpe dello scorso anno e per la Marcia per la vita a cui hanno partecipato i sostenitori di Morales il 14 gennaio [2025] terminata in scontri, lanci di molotov da parte dei manifestanti e lacrimogeni da parte della forza pubblica. La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.

Marco Piccinelli

Il valore aggiunto dell’economia sociale

L’economia sociale è caratterizzata dalle attività senza scopo di lucro e di utilità sociale realizzate dalle organizzazioni di terzo settore che nel loro agire sono mosse da principi quali la reciprocità e la democrazia. Secondo la definizione della Commissione Europea, l’economia sociale può essere considerata come l’insieme di cinque categorie di organizzazioni: associazioni, cooperative (sociali e non), imprese sociali, società di mutuo soccorso e fondazioni. L’economia sociale è dunque costituita dall’insieme di quelle organizzazioni il cui principio fondativo non risiede nella massimizzazione del profitto, ma nel principio di reciprocità. Organizzazioni che proprio per questo sono capaci di produrre beni e servizi che né l’economia for profit né l’economia pubblica sarebbero in grado o avrebbero interesse a produrre. L’economia sociale ha l’obiettivo di trasformare contesti, politiche ed economie, affrontando le grandi transizioni e le sfide dei nostri tempi (ambientali, sociali, digitali e democratiche), grazie ad una visione dell’economia che va oltre quella estrattiva, finalizzata esclusivamente ad estrarre valore dai territori riservandolo a pochi senza alcun interesse alla redistribuzione.

Secondo uno studio commissionato dall’Agenzia esecutiva del Consiglio europeo per l’innovazione e delle PMI (EISMEA), che raccoglie e analizza dati quantitativi e qualitativi sull’ecosistema europeo dell’economia sociale e sul suo contributo a un’economia e una società sostenibili, innovative e resilienti, nell’Unione

Europea almeno 11,5 milioni di persone, ovvero il 6,3% della popolazione occupata, lavorano nell’economia sociale. Nei 27 Stati membri l’economia sociale raccoglie oltre 4,3 milioni di enti e si stima vi siano più di 246.000 imprese sociali. Lo studio evidenzia come esistano organizzazioni dell’economia sociale in tutti i Paesi dell’UE, anche se alcune risultano poco visibili e hanno scarso riconoscimento come parte dell’economia sociale, soprattutto a causa di una scarsa comprensione dei diversi ruoli svolti dalle organizzazioni e la mancanza di dati e analisi statistiche di alta qualità e comparabili. Soltanto pochi Stati membri infatti dispongono di statistiche nazionali che misurano specificamente l’economia sociale.

Nella sua prima raccomandazione sull’economia sociale, l’Unione Europea ha invitato gli Stati membri ad adottare misure intese a riconoscere e sostenere il ruolo dell’economia sociale allo scopo di: agevolare l’accesso al mercato del lavoro, in particolare per i gruppi vulnerabili o sottorappresentati; promuovere l’inclusione sociale mediante la fornitura di servizi sociali e servizi di assistenza accessibili e di alta qualità: stimolare lo sviluppo delle competenze, comprese quelle necessarie alle transizioni verde e digitale; promuovere l’innovazione sociale e lo sviluppo economico sostenibile (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ%3AC_202301344).

In Italia, l’economia sociale comprende più di 398.000 organizzazioni, impiega oltre 1.500.000 persone e coinvolge più di 4.660.000 volontari. Sono alcuni dei dati che Euricse (https://euricse.eu/it/) ha pubblicato sul proprio sito web in una nuova pagina di approfondimento sull’economia sociale in Italia. Grazie ai grafici interattivi e ai dati ufficiali provenienti da fonti autorevoli, come i registri ASIA, il Censimento permanente delle Istituzioni non profit dell’Istat, i registri amministrativi RUNTS e Albo delle Cooperative, oltre alle banche dati di ricerca elaborate da Euricse, è possibile esplorare in dettaglio il numero di organizzazioni, l’occupazione e il loro contributo all’economia nazionale. Le informazioni, aggiornate annualmente, offrono un quadro completo e consultabile liberamente, e includono due sezioni specifiche dedicate alle imprese sociali e alle cooperative.

La nuova pagina web si articola in tre aree principali: “Numeri in breve”, in cui attraverso i grafici vengono rappresentati il numero complessivo delle organizzazioni attive nell’economia sociale, il livello di occupazione (inclusi i lavoratori delle cooperative e delle altre realtà) e il loro contributo all’economia nazionale, oltre alla distribuzione geografica. Interagendo con i grafici è possibile selezionare l’anno di interesse, i settori di riferimento e i dati suddivisi per regione; “Imprese sociali”, che è la sezione dedicata alle imprese sociali, un elemento trasversale nell’economia sociale. I grafici mettono in evidenza i dati relativi al numero di imprese che hanno ottenuto la qualifica legale di impresa sociale, la loro distribuzione geografica per provincia, i settori di attività e le forme giuridiche adottate; “Il valore economico generato dalle cooperative”,  che accende i riflettori sul valore della produzione e sul valore aggiunto prodotto dalle cooperative nei vari settori e territori, e sul fatturato totale suddiviso per tipologia cooperativa.

E’ a livello locale che l’economia sociale andrebbe maggiormente declinata, coniugata con l’amministrazione condivisa e la sussidiarietà. E qualche esempio in tal senso non manca: nei giorni scorsi è stato sottoscritto a Bologna un Protocollo d’intesa tra Città metropolitana, Comune di Bologna e Cgil-Cisl-Uil di Bologna e Imola, sull’Economia sociale e l’Amministrazione condivisa, siglato dal Sindaco di Bologna e dai Segretari generali delle Confederazioni sindacali. Un protocollo in cui si ribadisce che l’economia sociale, per poter sviluppare correttamente il proprio contributo, ha bisogno di un forte pilastro pubblico, in grado di garantire il carattere universalistico del sistema di garanzie sociali, di organizzare e gestire la risposta in termini di servizi ai bisogni della popolazione e di garantire i diritti sociali a tutti i cittadini: https://www.cittametropolitana.bo.it/portale/Home/Archivio_news/Economia_sociale_e_Amministrazione_condivisa.

Qui i dati di Euricse: https://euricse.eu/it/economia-sociale-italia/

Giovanni Caprio

Bentornata, Dacia!

Ritorna a Palermo, Dacia Maraini, dopo poco più di un anno, per presentare il suo ultimo libro, Diario degli anni difficili edito da Solferino. Ritorna al cinema De Seta ospite della libreria Modusvivendi che ne ha promosso e curato l’evento.

Mentre il pubblico si appresta a riempire la sala, lei è già lì, in attesa di salire sul palco insieme alla stessa squadra di allora. Con lei ci saranno come un anno fa, infatti, Felice Cavallaro, editorialista del Corriere della Sera e l’attrice Valentina Todaro.

Basta leggere il sottotitolo, Con le donne ieri, oggi e domani, per sapere che anche stavolta sarà una lettura interessante della storia attraverso gli occhi e le parole di una donna che parla di donne e attraverso loro e la violenza subita dal sistema patriarcale, affronta non solo i fatti ma anche le contraddizioni e i misfatti di quelli che lei riconosce come anni difficili non solo del nostro recente passato ma, ahimè, soprattutto del nostro presente e, come si chiede e ci chiede Felice Cavallaro, probabilmente anche del nostro futuro.

Con la puntuale attenzione che gli è propria il giornalista avvia quella che sarà una conversazione impreziosita dalla lettura di alcuni brani dalla raccolta di articoli, con diversa datazione, in cui l’autrice dà voce alle donne e ai deboli, riscatto del silenzio della sua Marianna Ucria, in un mondo in cui il linguaggio si fa sempre più povero e stereotipizzato soprattutto nel definire il bene e il male, e così facendo semplifica la complessità del reale.

È così per la democrazia e il suo contrario, dove per la prima il bene non corrisponde alla sua definizione e l’esito di una votazione può essere un inganno e il male di una dittatura è il prodotto di un amore tossico, quando un popolo intero “sbaglia innamorato”, dando il proprio consenso a chi si presenta come un salvatore e invece è un criminale. E qui il riferimento passa dalla Germania di Hitler all’America di Trump e al voto dei latinos che hanno contribuito a decretarne la vittoria.
E, nella conversazione, i temi si rincorrono e si intrecciano, proprio come le singole storie delle donne nel farsi Storia.

Aborto e stupro.
Inevitabile il primo, come esito dello storico controllo del patriarcato sul corpo delle donne e delle loro scelte, unico modo di riappropriarsene in un mondo in cui solo da pochissimo e troppo spesso in modo conflittuale le donne hanno avuto accesso a quella che per Maraini è l’unica vera alternativa, la maternità responsabile attraverso la contraccezione.

E dalla storia si parte anche per affrontare il tema dello stupro, “lecita” azione di guerra in cui chi stupra agisce simbolicamente per assicurarsi futuro mettendo il proprio seme nel ventre del nemico. E nel riferirsi ai più recenti fatti di cronaca, dalle violenze del branco alla giovanissima uccisa e bruciata dal fidanzato, ci ricorda che la virilità identificata ancora col possesso fa “impazzire” soprattutto gli uomini più fragili, che non accettano i cambiamenti teorizzati dall’autonomia femminile.

Lo sguardo si allarga così al mondo laddove la violenza si abbatte sulle donne coraggiose in modo sistematico nel togliere loro la parola attraverso il carcere e la tortura quotidiana e delle quali non bisogna smettere di parlare, di scrivere, per evitare la rassegnazione anche della parola.
Parlare soprattutto ai ragazzi e alle ragazze, entrare nelle scuole, affrontare il loro scoraggiamento di cui la stessa Maraini è stata ed è testimone, reduce nella mattina da un incontro con studenti e studentesse di un liceo, e tante tappe ha ancora in programma anche nelle province.
Parlare e invitarli ad andare a votare. Questo è il compito degli intellettuali, dei giornalisti, degli insegnanti in questo tempo di crisi della democrazia: agire sul piano culturale.

E sullo stesso piano bisogna confrontarsi con le donne che arrivano velate, e il riferimento è ad una serie di articoli sul velo, sul linguaggio degli abiti e sulla moda. Moda anche intellettuale basata su idee che la gente assorbe inconsapevolmente come il ricorso al pensiero irrazionale e il rifiuto della scienza in un proliferare di santoni, indovini, veggenti. No vax e terrapiattismo. Può essere questo un modo perverso di reagire al consumismo?

E poi l’immancabile domanda sulla vita privata, presente negli articoli dedicati ad Alberto Moravia ed Elsa Morante e la sua risposta, che parla di amicizia e libertà a partire dallo sguardo di una donna che nel raccontare sembra rivivere con leggerezza e serenità i momenti più belli della sua vita e, passando dal racconto delle vite delle altre donne, Frida Kahlo e il suo amore per Rivera, continua a raccontare la storia degli uomini, Rivera e Trotzkj, del comunismo, dei suoi ideali di società di uguali e della sua fine in una dittatura burocratica e così, parlando di Georgia, Moldavia, Ucraina e Cecenia torna a parlare di donne disobbedienti e coraggiose come Anna Politkovskaja.

Nel rispondere alle domande, guerra e sentimento di sconfitta, fallimento e mancanza di empatia, ci dice che bisogna continuare a parlare, parlare e protestare, pacificamente è chiaro, scendere ancora in piazza e, nonostante tutto, nonostante la divisione della sinistra e le tre paure presenti oggi nel mondo, pandemia, crisi economica e cambiamento climatico, essere irrimediabilmente ottimisti.

Maria La Bianca

“Il Messico ti abbraccia” ha già accolto 14.470 deportati dagli Stati Uniti

L’iniziativa denominata “Il Messico ti abbraccia”, lanciata dal nuovo governo di Claudia Sheinbaum, ha installato 10 centri di assistenza negli Stati confinanti con gli Stati Uniti, facilitando l’accesso a programmi sociali, servizi sanitari, offerte di lavoro e fornendo una carta contenente duemila pesos messicani (equivalenti a circa 100 dollari).

La presidente Sheinbaum ha riferito oggi che circa 14.470 persone espulse dagli Stati Uniti sono già arrivate in Messico da quando l’amministrazione di Donald Trump si è insediata alla Casa Bianca il 20 gennaio.

Di fronte alle annunciate espulsioni di massa che gli Stati Uniti avrebbero effettuato, il Messico ha rafforzato i suoi consolati nel Paese vicino, così come il risoluto supporto legale ai migranti, mettendo in atto un piano per accoglierli in caso di deportazione.

“Dal 20 gennaio sono tornate 14.470 persone, 11.379 messicani e 3.091 stranieri”, ha detto la presidente rispondendo a una domanda durante il suo incontro quotidiano con i giornalisti al Palazzo Nazionale.

“I nostri concittadini hanno lasciato la loro patria per cercare migliori opportunità di vita negli Stati Uniti”, ha dichiarato qualche settimana fa il Segretario degli Interni, Rosa Icela Rodríguez, sottolineando che queste persone non sono criminali e contribuiscono tanto all’economia del Messico quanto a quella del Paese vicino.

Redacción México

I Miserabili, ovvero dell’inevitabile tracollo dell’UE

E così ci siamo finalmente arrivati. Dopo tanto vociare sul ruolo “centrale” dell’Europa nel confronto scontro con l’Oriente, dopo l’autoesaltazione per aver sostenuto e affiancato l’Ucraina contro la “vile aggressione”, dopo i miliardi spesi in armi e aiuti vari all’Ucraina per costruire  l’illusione di una possibile vittoria contro la Russia perché “…oggi l’Ucraina e domani i cavalli dei Cosacchi che si abbeverano a piazza S.Pietro”, dopo la genuflessione totale sia dei “centrodestri” che dei “centrosinistri” di fronte agli affari USA nella speranza di un posticino al tavolo delle ricostruzioni/speculazioni, ecco che arriva Trump a sconvolgere le aspettative e a sparigliare le carte di un mazzo al quale già dall’inizio mancavano le figure più importanti.

Eppure i segnali di una fine ingloriosa della politica imperiale della globalizzazione c’erano tutti, dal protagonismo sempre più forte della Cina al ruolo sempre più centrale dei BRICS, dalla fine del monopolio USA delle tecnologie più avanzate alle possibilità sempre più concrete di dedollarizzare gli scambi economici e finanziari di una parte consistente del mondo, dalla rinnovata importanza delle materie prime, dal grano alle terre rare, e degli stati che le detengono al rafforzamento di imperialismi che tendono ad autonomizzarsi dagli USA in particolare nel Medio Oriente come Turchia , Israele, Arabia Saudita ed Emirati.

Insomma uno scenario da fine Impero che domina lo scacchiere internazionale da una decina d’anni e nel quale gli USA di Biden hanno cercato di forzare la mano spostando il confine della Nato sempre più ad est, distribuendo sanzioni economiche a Russia, già da prima della guerra, Cina, Iran, Venezuela e chiunque non facesse riferimento a quel complesso quadro ideologico politico economico e militare chiamato ”Occidente”.

Di tutto questo si è invece reso perfettamente conto il nuovo inquilino della casa bianca che con la praticità del palazzinaro tirchio di fronte alle pareti del palazzo UE che scricchiolano ha chiesto l’aumento dell’affitto (arrivare al 5% di spese militari comprando armi ovviamente dagli USA) e al concorrente forte preferisce offrire un accordo piuttosto che una guerra. Anche con Ucraina e Palestina l’atteggiamento è uguale: ”Ti ho dato miliardi adesso mi prendo da uno le terre rare e dall’altro la costa di Gaza per farne la Saint Tropez del Medio Oriente”. E così mentre i bimbiminkia (per usare il linguaggio istituzionale italiano) si dividono tra chi piagnucola e chi cerca di arruffianarsi Papi mollando gli altri, i Grandi si preparano ad una nuova Yalta.

Era possibile un’altra e meno ingloriosa fine? Assolutamente si, come per tre anni abbiamo urlato nei pochissimi spazi di comunicazione mainstream che ci hanno concesso chiamandoci comunque traditori, Putiniani, filo Hamas, sciocchi pacifisti senza senso pratico, zecche rosse (compreso sua Santità il Papa) o neonazi. Gli spazi per un intervento diplomatico importante c’erano tutti tant’è che l’Inghilterra, primo vassallo di Biden, ha dovuto mettersi di traverso per impedirlo (i servizi UK sono fortemente sospettati di essere gli autori del sabotaggio che ha distrutto il gasdotto che dalla Russia forniva la Germania), ma si è preferito sacrificare la vita di centinaia di migliaia di Ucraini, nonché le condizioni delle fasce di popolazione economicamente più deboli di tutta Europa in nome dell’ ennesima guerra contro il male assoluto.

Non voglio qui assolvere Putin dalle sue indiscutibili colpe bensì sottolineare ancora una volta che la guerra non può mai essere la soluzione neanche per la Russia che dovrà comunque rendere conto al suo popolo delle centinaia di migliaia di giovani soldati mandati a morire nonché di un continuo irrigidimento di un regime che lascia sempre meno spazi alla possibilità di opporsi. E adesso? Direi che siamo alla frutta, poiché mentre oggi a Riad si riuniscono gli inviati di Trump e Putin per stendere un’ipotesi di accordo peraltro senza Zelenski, alcuni leader europei si sono riuniti ieri a Parigi su invito di Macron, presidente in bilico, per stilare una posizione comune per partecipare ai negoziati. Risultato? Assolutamente nessuno, zero totale poiché è ormai chiara la frattura tra chi, Meloni in testa, preferisca accreditarsi nel modo migliore, cioè supinamente, al nuovo imperatore e chi vorrebbe  che la guerra continuasse ma non può permetterselo.

Saremo quindi costretti ancora una volta ad una sudditanza senza scampo?

Forse è troppo presto per dirlo, l’unica cosa certa è che un campo avverso alla pace è andato irrimediabilmente in crisi mostrando tutte le sue fragilità e questo apre sicuramente scenari che potrebbero rivelarsi importanti ma soprattutto proficui per il ruolo che potrebbero assumere i movimenti pacifisti e non solo. I 150 miliardi di euro bruciati dalla UE in aiuti militari all’Ucraina sono fondi tolti alla sanità, alla scuola pubblica, alla previdenza, agli investimenti pubblici e devono diventare una leva per rilanciare piattaforme sindacali e sociali in tutta Europa che mobilitino il mondo dei lavori e i movimenti per impedire questa volta ulteriori aumenti delle spese militari volte a rilanciare velleità imperiali della UE a scapito delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di cittadini.

I sondaggi sul favore che incontravano le politiche guerrafondaie in Italia e non solo, nonostante gli sforzi dei miseri “giornalistoni” che li proponevano, non riuscivano a nascondere maggioranze contrarie all’invio di armi, così come le recenti elezioni europee hanno mostrato una distanza sempre più abissale tra i partiti presenti e il popolo che per metà non ha votato sottolineando in questo modo la non rappresentatività di un quadro politico istituzionale quasi completamente allineato sulla guerra e sulle scelte economico-politiche che ne conseguono. Questa maggioranza pacifista deve oggi riprendere la parola e tornare protagonista della scena ed ha un solo modo per farlo: creare lotta, comunicazione, comunità.

Redazione Italia

Leonard Peltier è libero

Finalmente Leonard Peltier è libero e a casa sua.

Questa una delle prime foto  arrivate dove è insieme alla sua famiglia e agli amici del Comitato che sempre l’ha difeso e ne ha chiesto la liberazione.

Peltier è stato liberato grazie a un provvedimento delle ultime ore del Presidente Biden poco prima di cedere il suo incarico. Non è stata la grazia che tutti chiedevano dopo 49 anni di incarcerazione in base a prove inesistenti ma gli ha dato  la possibilità di essere vicino ai suoi cari e amici e di curarsi.

Questo grazie al grande movimento di solidarietà internazionale di cui Pressenza è lieta di essere parte, dimostrando che l’azione umana, della società civile, non è un’azione inutile e senza speranza, come a volte sembra.

Tutti gli articoli sul caso Peltier su Pressenza

Redazione Italia

In Italia sempre più spesa sanitaria privata

Secondo i dati ISTAT del sistema dei conti della sanità (ISTAT-SHA), nel 2023 la spesa sanitaria totale in Italia è stata pari a € 176,1 miliardi. Una cifra che comprende la spesa pubblica (€ 130,3 miliardi) e quella privata, suddivisa nelle sue due componenti: la spesa out-of-pocket (€ 40,6 miliardi), sostenuta direttamente dalle famiglie, e la spesa intermediata da fondi sanitari e assicurazioni (€ 5,2 miliardi). Le corrispondenti distribuzioni percentuali riflettono tre realtà di fatto: il sottofinanziamento pubblico, il carico economico sulle famiglie e l’ipotrofia del sistema di intermediazione. Infatti, il 74% della spesa sanitaria è pubblica, mentre della spesa privata l’88,6% è a carico delle famiglie e solo l’11,4% è intermediata. Sono alcuni dei dati del Report della Fondazione GIMBE sulla spesa sanitaria privata, commissionato dall’Osservatorio Nazionale Welfare & Salute (ONWS) e presentato al CNEL.

La spesa out-of-pocket, che nel 2023 ha raggiunto il 23% della spesa sanitaria totale (ben oltre il limite ideale del 15% indicato dall’OMS), si legge nel Report della Fondazione GIMBE, non può essere semplicemente ridotta attraverso un aumento della spesa intermediata. Per raggiungere questo obiettivo tre sono le principali azioni necessarie: potenziare il finanziamento pubblico, migliorare l’appropriatezza delle prestazioni e rimodulare i LEA per renderli sostenibili. In questo contesto, il secondo pilastro deve integrare il sistema pubblico, anziché tentare di sostituirlo, concentrandosi sulle prestazioni extra-LEA.”

Infatti, la Fondazione GIMBE lancia un allarme anche a proposito dei fondi sanitari, sottolineando come l’incapacità del SSN di garantire prestazioni in tempi adeguati aumenti il numero di iscritti ai fondi sanitari, mentre la crisi economica e l’inflazione continuano a limitare la possibilità di incrementare i contributi. Uno scenario che porterà ad un aumento della spesa out-of-pocket (che già oggi pone l’Italia al di sopra della media UE) per chi può permetterselo e a una crescente rinuncia alle cure da parte delle fasce più svantaggiate della popolazione, con un inevitabile peggioramento degli esiti di salute. In sostanza il secondo pilastro può essere sostenibile solo se integrato in un SSN “in salute”. Diversamente, sottolinea GIMBE, rischia di crollare insieme al sistema pubblico, spianando la strada alla privatizzazione della sanità, aggravando diseguaglianze e iniquità e tradendo l’articolo 32 della Costituzione e i princìpi fondanti del SSN.

Dal lavoro della Fondazione GIMBE emerge una situazione che spinge sempre di più verso la rinuncia alle cure. Infatti, la spesa sanitaria delle famiglie è sempre più “arginata” da fenomeni che incidono negativamente sulla salute delle persone: limitazione delle spese sanitarie, che nel 2023 ha coinvolto il 15,7% delle famiglie, indisponibilità economica temporanea per far fronte alle spese mediche (5,1% delle famiglie nel 2023) e rinuncia alle cure. In particolare, nel 2023 circa 4,5 milioni di persone hanno dovuto rinunciare a visite o esami diagnostici, di cui 2,5 milioni per motivi economici, con un incremento di quasi 600.000 persone rispetto al 2022. Le differenze regionali sono marcate: 9 Regioni superano la media nazionale (7,6%), con la Sardegna (13,7%) e il Lazio (10,5%) oltre il 10%. Al contrario, 12 Regioni si collocano sotto la media, con la Provincia autonoma di Bolzano e il Friuli Venezia Giulia che registrano il valore più basso (5,1%).

Differenze tra Regioni che appaiono sempre più marcate: parametrando la spesa sanitaria trasmessa al Sistema Tessera Sanitaria alla popolazione residente ISTAT al 1° gennaio 2023, il valore nazionale è di € 730 pro-capite, con un range che va dai € 1.023 della Lombardia ai € 377 della Basilicata. Questa distribuzione evidenzia che le Regioni con migliori performance nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) registrano una spesa pro-capite superiore alla media nazionale, mentre quelle del Mezzogiorno e/o in Piano di rientro si collocano al di sotto. Ma per cosa spendono le famiglie? Secondo i dati ISTAT-SHA, le principali voci di spesa sanitaria delle famiglie includono l’assistenza sanitaria per cura (comprese le prestazioni odontoiatriche) e riabilitazione, che rappresenta il 44,6% del totale (€ 18,1 miliardi). Seguono i prodotti farmaceutici e apparecchi terapeutici (36,9%, pari a € 15 miliardi) e l’assistenza a lungo termine (LTC), che assorbe il 10,9% della spesa complessiva, per un totale di € 4,4 miliardi. “Tuttavia – spiega il Presidente della Fondazione GIMBEle stime effettuate nel report indicano che circa il 40% della spesa delle famiglie è a basso valore, ovvero non apporta reali benefici alla salute. Si tratta di prodotti e servizi il cui acquisto è indotto dal consumismo sanitario o da preferenze individuali quali ad esempio esami diagnostici e visite specialistiche inappropriati o terapie inefficaci o inappropriate”.

Qui per scaricare il Rapporto: https://salviamo-ssn.it/attivita/osservatorio/spesa-sanitaria-privata-2023.

Giovanni Caprio

Il liceo Rosa sciopera e scende in piazza

Partecipata la manifestazione sotto l’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte contro il dimensionamento del Liceo Rosa con sedi a Susa e Bussoleno

CGIL e CUB hanno indetto al Rosa uno sciopero con una piattaforma che non lascia dubbi:
– L’esclusione, anche per gli anni futuri al 2025/2026, di ogni ipotesi di dimensionamento riguardanti l’Istituto
– La nomina di un Dirigente scolastico titolare dal 1° settembre 2025
– La tempestiva sostituzione del Dirigente reggente con l’affidamento della reggenza ad altro Dirigente scolastico

Massimiliano Rebuffo, segretario provinciale della CGIL-FLC, ha dichiarato che l’adesione allo sciopero è stata dell’80%.

La Dirigente reggente alla quale si fa riferimento nelle rivendicazioni è la Giaccone, Dirigente dell’Istituto Ferrari di Susa che nel 2022 è stata nominata reggente del Rosa. Nel comunicato stampa la CGIL-FLC spiega chiaramente la motivazione: “si è incrinato il rapporto con la comunità educante”.

Piattaforma pienamente condivisa con il comitato di cittadini “Insieme per il Rosa” i cui esponenti ci hanno ribadito con forza le rivendicazioni espresse in questo loro comunicato, anch’esso estremamente esplicito.

Alla manifestazione hanno partecipato i lavoratori (docenti e non docenti) del Rosa, genitori, studenti, molti esponenti del comitato “Insieme per il Rosa”. Una delegazione ha chiesto di parlare con Stefano Suraniti, dirigente dell’USR, il quale ha risposto – secondo quanto dichiarato al microfono da Rebuffo – rendendosi disponibile a ricevere solo genitori, studenti e lavoratori non sindacalizzati, in sostanza si è rifiutato di ricevere i rappresentanti sindacali.

Il “divide et impera” non ha tuttavia funzionato (a meno che lo scopo non fosse in realtà quello di non confrontarsi): non è salito nessuno, il patto tra lavoratori, studenti, cittadini e sindacati ha tenuto.

I manifestanti hanno scandito alcuni slogan: “Fateci Fateci Fateci salire”, “Non chiude la bocca, il Norby (Norberto Rosa n.d.r.) non si tocca”, “Tout le monde déteste la Giaccone”, e sono stati apposti dei post-it sul portone della sede dell’USR con le richieste scritte dai ragazzi.

Fabrizio Maffioletti

Ad Acquappesa oltraggiata la targa del Samudaripen

Lunedì 29 luglio 2024, presso la sala stampa della Camera dei deputati, si svolse la conferenza stampa, per presentare la proposta di legge per far riconoscere all’Italia il Samudaripen il genocidio dei rom e sinti nel corso della seconda guerra mondiale, alla quale parteciparono: l’Onorevole Devis Dori, AVS, primo firmatario e promotore proposta di legge; Onorevole Luana Zanella capogruppo AVS; Andrea Vitello storico, scrittore che ha conseguito un diploma di perfezionamento allo Yad Vashem sulla Shoah, ha scritto vari libri e collabora con varie testate; Moni Ovadia attore, regista e scrittore; comm. dott Carla Osella presidente nazionale A.i.z.o. rom sinti direttore responsabile della rivista “Rom e sinti oggi” scrittrice di oltre 50 pubblicazioni è stata nominata presso il Parlamento di Belgrado World Roma Organization commissario internazionale del Porrajmos; Commendatore Santino Spinelli (musicista, docente universitario, scrittore). Gennaro Spinelli presidente nazionale UCRI-Unione Comunità Romanès Italia. Il Parlamento Europeo lo aveva già riconosciuto nel 2015, invitando tutti i paesi membri dell’Unione Europea a fare altrettanto. 

La proposta di legge prevede che in occasione della Giornata nazionale tutti gli enti nazionali e locali e le scuole promuovano cerimonie, convegni e altre attività volte a ricordare il genocidio dei rom e dei sinti. Il testo della proposta di legge è consultabile a questo link: https://www.camera.it/leg19/126?leg=19&idDocumento=1914 

Proprio questo 27 gennaio, in occasione del giorno della Memoria ad Acquappesa, in provincia di Cosenza, era stata posta una targa commemorativa del Samudaripen. Tuttavia  in questi giorni, come si vede nella foto, è stata vandalizzata e oltraggiata. In merito a quanto successo, l’UCRI ha diramato questo comunicato stampa:

«Egregio Comune,

Viste le recenti polemiche sfociate in vili atti di vandalismo, che hanno visto la rottura e la rimozione della targa al Samudaripen, chiediamo formalmente non solo il ripristino e la cura della targa alla Memoria ma anche che l’Amministrazione prenda una posizione di ferma condanna contro questi atti di antiziganismo.

La Comunità Romanès è profondamente addolorata per quanto accaduto. Non c’è cosa peggiore di provare a distruggere la Memoria.

Sicuri di trovare nella Vostra Amministrazione un fermo alleato, 

Vi porgiamo,

Cordiali saluti.

UCRI – Unione Comunità Romanès d’Italia».

Tutte le persone che volessero protestare per l’accaduto possono inviare una mail a protocollo.acquappesa@asmepec.it

Quanto successo dimostra ancora di più, la grande importanza di riconoscere il Samudaripen in Italia, proprio per questo la proposta di legge dovrà essere approvata ai fini di fare i conti con la storia.

 

Andrea Vitello

Storie dall’Albania: Volersi Bene, Restare o Partire

Il fotoreporter Giovanni Simone ha trascorso l’intero mese di dicembre 2024 esplorando l’Albania, un paese affascinante e vicino all’Italia, ma che per troppo tempo è rimasto ai margini dell’attenzione collettiva. In questo angolo dei Balcani, dove il passato e il presente si intrecciano armoniosamente, gli albanesi cercano un legame forte con luoghi visti come porti sicuri e opportunità per un futuro migliore.

Questo è il secondo di una serie di fotoreportage dedicati all’Albania, con un focus particolare sulla vita nel paese e sulle contraddizioni di Tirana.

L’Albania, una terra di contrasti, intreccia la ricchezza della sua storia millenaria con le sfide della modernità. Se da un lato la sua posizione nei Balcani la rende un crocevia culturale e geografico affascinante, dall’altro le disuguaglianze economiche e sociali segnano profondamente la quotidianità dei suoi abitanti.

Con oltre il 51% della popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale, il paese si colloca tra i più vulnerabili del continente europeo, con un tasso nettamente superiore alla media UE del 21%. Nelle aree rurali, questa percentuale raggiunge quasi il 60%. A Tirana, il cuore economico dell’Albania, gli stipendi variano significativamente: un impiegato in una grande impresa può guadagnare fino a 900 euro al mese, mentre chi lavora in una microimpresa fatica ad arrivare a 400 euro. Nelle campagne, dove l’agricoltura è la principale fonte di reddito, gli stipendi sono ancora più bassi. I pensionati, con assegni medi di soli 150-200 euro al mese, vivono in condizioni di estrema vulnerabilità, spesso dipendendo dal supporto familiare, prolungando la loro vita lavorativa o affiancando piccoli lavoretti per arrotondare il reddito.

Le minoranze etniche, come la comunità Rom e gli Ashkali, affrontano sfide ancora più ardue. Circa il 90% dei Rom è disoccupato e il 40% delle loro famiglie vive in condizioni di precarietà abitativa. Anche gli Ashkali, una comunità di origine balcanica, si trovano spesso ai margini della società. La povertà costringe molti bambini a lavorare anziché frequentare la scuola, perpetuando un ciclo di esclusione difficile da interrompere.

Il costo della vita in Albania riflette una realtà complessa. Sebbene gli affitti e il cibo possano risultare più economici rispetto all’Italia, i bassi salari rendono la sopravvivenza una sfida quotidiana. A Tirana, l’affitto di un appartamento varia tra i 400 e gli 800 euro al mese, mentre acquistare una casa è un privilegio per pochi: il prezzo medio si aggira intorno ai 1.600 euro al metro quadro, con mutui difficili da ottenere per le elevate garanzie richieste. L’Albania, un paese importatore netto, dipende fortemente dall’estero per i beni di consumo, inclusi quelli di prima necessità. Il pollo si aggira intorno ai 7 euro al kg, il latte a 1,70 euro al litro e una dozzina di uova costa circa 3 euro. Il pane, alimento essenziale nella dieta albanese, ha un prezzo medio di 1,50 euro al kg. L’accesso all’acqua potabile rimane una delle sfide più critiche. Nonostante le abbondanti risorse idriche, la fornitura di acqua sicura e costante è problematica in molte zone, inclusa la capitale. Di conseguenza, gran parte della popolazione acquista acqua in bottiglia per il consumo quotidiano, con un costo medio di circa 60 centesimi di euro a bottiglia.

Tirana incarna le più evidenti contraddizioni, un luogo dove la fragilità economica si scontra con un’apparente vivacità sociale. La città è costellata di bar e caffè, con una densità sorprendente di un locale ogni 152 abitanti, facendone una delle capitali con il maggior numero di punti di ritrovo per persona. Ma dietro a questa vitalità si cela una realtà più complessa: nei mesi invernali, chi non può permettersi il riscaldamento domestico cerca rifugio in questi spazi per sfuggire al freddo pungente. Le infrastrutture cittadine mostrano gravi carenze: come nel resto dell’Albania, a Tirana manca una rete di gas cittadino, costringendo molti abitanti a fare affidamento su vecchie e costose pompe di calore, spesso inefficienti. Nei parchi cittadini, il sole diventa una risorsa preziosa, un rifugio naturale dove le persone si riuniscono per godere del calore e dedicarsi ad attività all’aria aperta.

Per molti albanesi, il proprio paese è solo una tappa temporanea, un luogo in cui vivere in attesa di emigrare. La loro sopravvivenza dipende dalla capacità di adattarsi a una realtà complessa, mentre l’Unione Europea rappresenta una speranza, un porto sicuro dove costruire un futuro dignitoso. Questa riflessione sulla vita in Albania invita a guardare oltre le statistiche, a comprendere la quotidianità di un paese che oscilla tra la resistenza e la fuga, tra il desiderio di costruire un domani migliore e la necessità di cercarlo altrove. Eppure, spesso, gli albanesi, immersi nella lotta per la sopravvivenza, dimenticano il significato più profondo di “Volersi bene”. Il concetto di benessere personale e collettivo viene relegato in secondo piano di fronte alla necessità di garantire il minimo indispensabile.

In Albania, “Volersi Bene” è uno stato d’animo da riscoprire, non solo come aspirazione individuale, ma come valore collettivo, capace di dare significato a un futuro costruito su fondamenta più stabili.

 

su Flickr https://flic.kr/s/aHBqjC35b1

 

“Nei pressi del Castello di Argirocastro, un’anziana venditrice offre erbe essiccate e tè di montagna (Sideritis), un infuso tradizionale noto per le sue proprietà antinfiammatorie, digestive e rilassanti. Ricco di antiossidanti, aiuta a rafforzare il sistema immunitario e alleviare raffreddore e problemi digestivi, tramandando antichi rimedi naturali della tradizione albanese.”

“Nel parco centrale di Berat, due anziani si sfidano a scacchi, approfittando del sole per riscaldarsi all’aria aperta. Questo gioco, profondamente radicato nella cultura albanese, è una passione diffusa nei caffè e nei parchi, simbolo di strategia e socialità, tramandato di generazione in generazione nelle città storiche del paese.”

“Nel quartiere delle case popolari di Coriza, una donna Ashkali stende il bucato sulla ringhiera della scuola dopo averlo lavato a mano nel giardino. Un tempo la sua casa ospitava tre famiglie in tre stanze con bagno esterno senza acqua corrente, ma oggi è rimasta solo lei con due dei figli, mentre gli altri sono emigrati all’estero in cerca di un futuro migliore.”

 

“All’ingresso di Moscopoli, pittoresca località montana rinomata per le sue antiche chiese ortodosse e il pregiato miele di fiori selvatici, una donna gestisce la vendita di prodotti tipici locali, offrendo ai visitatori un assaggio delle tradizioni e dei sapori autentici di questo affascinante villaggio.”

“In Albania, il tacchino è il piatto simbolo del cenone di Capodanno. Nei giorni precedenti, le strade si riempiono di improvvisati allevatori che guidano gruppi di tacchini con lunghi bastoni, conducendoli verso mercati improvvisati lungo le strade, dove vengono venduti ai passanti in una tradizione che si ripete ogni anno.”

“Nel bar del quartiere delle case popolari di Coriza, uomini del posto si sfidano a Tavëll, la versione albanese del backgammon. Nei mesi freddi, i bar diventano rifugi dal gelo montano, luoghi di socialità dove tra una partita e un caffè turco si scambiano storie e si rafforzano legami, mantenendo viva una tradizione radicata nella cultura locale.”

“Tra le case popolari di Tirana, recentemente assegnate a famiglie rom, un rappresentante del Movimento Bashkë mi accompagna in un viaggio tra storie di resilienza e speranza. Mentre la comunità affronta sfide quotidiane, il movimento si batte per l’inclusione e i diritti sociali, in un’Albania che cambia tra difficoltà e nuove opportunità.”

“La sussistenza delle minoranze etniche in Albania, come i rom, è spesso legata al recupero di rifiuti urbani. Materiali come la plastica vengono raccolti e portati nei centri di raccolta, dove vengono scambiati per pochi lek al chilo. Questa attività rappresenta una fonte di reddito essenziale, nonostante le difficili condizioni di lavoro e la mancanza di regolamentazione.”

“Chi si nasconde sotto questo topolino? In uno dei parchi di Tirana, un anziano signore lavora come figurante per foto con i passanti. Tra sorrisi e scatti ricordo, il costume diventa il suo mezzo di sostentamento, trasformando un angolo verde della capitale in un piccolo teatro quotidiano di incontri e fantasia.”

“Nel mercato di Scutari, un venditore siede con eleganza davanti alla sua bancarella di tessuti. Con giacca di pelle, sciarpa e coppola, incarna la tradizione albanese di vestire con cura, tipica degli anziani, per cui l’eleganza è segno di rispetto, disciplina e dignità. Un codice non scritto che ancora resiste tra le generazioni più mature.”

“Lungo le strade di Tirana, piccoli banchi colmano i marciapiedi di colori vivaci, vendendo frutta e verdura anche nel cuore dell’inverno. Sebbene l’Albania abbia una forte tradizione agricola, gran parte di questi prodotti proviene dall’estero, importati per soddisfare la domanda stagionale. Tra le cassette di peperoni e pomodori, il commercio resiste al freddo, mantenendo viva l’anima dei mercati di strada.”

Nel cuore del vecchio Bazar di Argirocastro, una signora attende pazientemente i clienti seduta davanti alla sua bottega. Con mani esperte si dedica all’uncinetto, un’antica arte albanese tramandata da generazioni. Tra fili e punti, crea con passione nuovi prodotti da vendere, mantenendo vive le tradizioni artigianali di questo affascinante angolo storico.”

“In Piazza Skënderbej a Tirana, un anziano signore si traveste da Babbo Natale per i festeggiamenti di Natale e Capodanno, cercando di arrotondare la sua pensione. Seduto tra le luci scintillanti e le decorazioni natalizie, osserva il via vai della città, regalando ai passanti un sorriso e un momento di magia in cambio di qualche moneta.”

“Nel pittoresco villaggio di Moscopoli, un’anziana signora annaffia con cura il suo orto, indossando abiti tradizionali scuri. In Albania, il nero è spesso scelto dalle donne anziane come simbolo di modestia, rispetto e lutto per le perdite subite nel corso della vita. Questa pratica riflette una profonda connessione con le tradizioni culturali e un forte senso di appartenenza alla comunità locale.”

“Sul lungomare di Durazzo, due ragazzi della nuova generazione albanese passeggiano mentre il sole si riflette sulle onde. Un tempo, da qui partivano migliaia di emigranti in cerca di un futuro migliore. Oggi, i giovani hanno il compito di costruire un’Albania che guarda al domani, tra il ricordo delle partenze e la speranza di una crescita nel proprio paese.”

 

 

 

 

 

Giovanni Simone