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Politica

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 3° parte

Eccoci alla terza e ultima parte dell’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i tragici fatti del Sud America, Aurora arriva in Europa, prima in Svezia e successivamente in Italia…

Arrivi in Italia nel 1976, quindi. Come te la sei cavata?

All’inizio, grazie a delle donne legate a padre David Maria Turoldo, trovai due case dove potevo andare a fare i lavori domestici. Poi, attraverso la mia attività col sindacato uruguaiano, trovai lavoro alla CGIL, dove ho lavorato per molti anni. In seguito ho trovato un impiego presso la Provincia di Milano, fino al 2015.

Veniamo a tutto quello che facesti in Italia per l’Uruguay

Fin dall’inizio girai tanto, anche per l’Europa, a raccontare, denunciare, quello che avveniva nel mio Paese. Facevo parte di un Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dell’Uruguay. Mi mossi anche molto con i compagni del partito comunista uruguaiano che erano in Italia, ma sempre sul piano della solidarietà. Grazie anche a Tucci, mio secondo marito, che è ancora qui con me ho potuto fare tutto questo, benchè con due figlie.

Nel frattempo scoprimmo che in Italia esisteva questo articolo 8 del Codice penale, per noi importantissimo, che dice che OVUNQUE succeda qualcosa ad un cittadino italiano, la giustizia italiana deve intervenire. Quindi noi, sull’onda del processo alla Esma (famoso luogo di tortura in Argentina) cominciammo a muoverci. Nel frattempo, il giudice Garzon in Spagna aveva chiesto il rimpatrio di Pinochet: qualcosa si stava muovendo. Così insieme ad altre quattro donne uruguaiane, ma con figli o mariti italiani, andammo alla procura di Roma. Li conoscemmo Giancarlo Capaldo, che era il Pubblico Ministero, e raccontammo le nostre storie. Lui stava già seguendo le vicende di altri cittadini italiani provenienti dal Cile e dall’Argentina, che avevano denunciato i militari dei loro Paesi. Capaldo, seguendo queste vicende (che avevano fra l’altro come centro principale Buenos Aires, dove avvenivano cose tremende) ebbe l’intuizione di mettere insieme queste storie. Ringrazierò quest’uomo tutta la vita.

Da destra: i PM Giancarlo Capaldo e Tiziana Cuggini, oltre gli avvocati dell’accusa

Avevamo iniziato a parlare di cosa fosse il Plan Condor negli anni ‘80: un piano strategico per eliminare gli oppositori alle dittature. La grandissima mano che ci permise di conoscere bene il Plan Condor ce la diede un uomo straordinario, paraguaiano, che abbiamo perso alcuni mesi fa: il professor Martin Almada. Ci raccontò che durante la sua prigionia in Paraguay aveva incontrato un militare (uno dei pochi militari oppositori del regime) che gli disse dove avrebbe potuto trovare tutta la documentazione su quello che si stava facendo in alcuni Paesi latinoamericani. Il Plan Condor dava la possibilità alle polizie dei vari paesi dell’area di perseguire ovunque nel Cono Sur i propri oppositori. In effetti una volta uno dei vertici militari aveva detto: “La sinistra non vuole le frontiere? Anche noi non le vogliamo!”.
Venne così trovato ad Asuncion, in Paraguay, quello che si è chiamato l’archivio del terrore, dove si poteva leggere tutto. Era un piano sottoscritto in Cile da tutte le dittature del semicontinente.

Come andò il processo che metteste in piedi con Capaldo?

La giustizia italiana ci ha messo molto tempo, ma era normale, ci voleva molto tempo per avere i documenti da quei Paesi, fare le traduzioni, superare gli intoppi burocratici sia qui in Italia che lì, e poi si fecero molti viaggi in Sud America. Ci volle tempo, fatica, costanza. Capaldo raccolse moltissime dichiarazioni. Volle sentire giornalisti, esperti, storici, i testimoni furono circa 140. Alla fine, Capaldo sentì che aveva ricostruito tutto il quadro, andò davanti al giudice e venne riconosciuto che questo era un processo da farsi. Dal 1999 al 2015 furono gli anni delle ricerche, nel 2015 iniziò il processo pubblico. Certo, io avrei voluto in Uruguay un processo giusto per la morte di mio marito. Non è stato possibile. L’Italia ha compensato questa grave mancanza.

Considerate che si trattava di un processo fatto dopo decine di anni, a migliaia di chilometri di distanza, con alcuni giudici popolari che non sapevano neanche dove fossero questi Paesi. In quegli anni si sapeva poco e si parlava pochissimo di quelle dittature. Andava spiegato tutto. Nelle piazze si era parlato soprattutto del Cile, ma ben poco dei processi. Bisogna però riconoscere che le condanne definitive del nostro processo in America Latina ebbero ripercussioni enormi. Molti avvocati e giudici di là si rivolsero a noi per avere le sentenze italiane. Venne creato un precedente fondamentale. Quell’articolo 8 qui in Italia fu importantissimo. Il processo avviato da noi si concluse nel 2021 con la seguente condanna definitiva: “Tutti gli imputati vivi, all’ergastolo”. Certo, uno solo andò in galera, un militare che di nome Troccoli che viveva a Salerno. Molti erano morti, altri erano già in carcere nei nostri Paesi.

Ma allora perché dici che fu l’Italia a darti giustizia?

Prima di tutto perché in Sud America non si è mai fatto un processo Condor, ma solo processi riferiti a una o due vittime.

Tu seguisti il processo a Roma: dovevi o volevi?

Io collaboravo, insieme ad altre, con il PM Capaldo nella ricerca di materiale e nelle traduzioni.
La mole di carte che producemmo fu impressionante, dovemmo presentare le prove su tutto. Tutto. Di dolito venivo accompagnata a Roma dai miei tre nipoti.

Da destra: la PM Cuggini, Aurora Meloni e il suo avvocato Giancarlo Maniga

Alla fine del processo giudiziario, nel ’21, tirai il fiato, ma già con la prima sentenza io avevo pianto. Qualcuno mi ha chiesto a cosa avessi pensato in quel momento… Io avevo pensato a Daniel, a Guillermo, a Luis, a tutti quelli che non c’erano più e a quelli che ancora non avevano trovato. Non devi dimenticare che noi abbiamo ancora una ferita aperta, che sono i desaparecidos. Il problema vero è che noi sappiamo che loro (i militari) SANNO. Ancora pochi mesi fa abbiamo trovato in un presidio militare i resti di una compagna scomparsa nel ’77. Sono i resti della settima vittima che ritroviamo dei 197 scomparsi che abbiamo in Uruguay. Solo 7! Dopo 50 anni! Una lentezza tremenda, anche perché non ci sono finanziamenti per la ricerca e per gli scavi. Noi poi ci rivolgiamo ad antropologi argentini per l’identificazione del DNA, non è semplice.

Comunque, per me, questo processo è stata GIUSTIZIA. Pensa che il relatore della Corte di Cassazione, il dottor Gaeta, fece un intervento di più di un’ora, determinando poi la decisione della corte, in cui analizzò punto per punto tutto quello che portava alla condanna di questi criminali. Un intervento meraviglioso, come se lo avessimo scritto noi, e da parte di un relatore della Cassazione: a questi livelli non avviene mai che vi sia un tale coinvolgimento. Quando con quest’uomo ci vedemmo presso un’università romana per un incontro, piangemmo insieme.

Quanto poi è stato reso pubblico il risultato di questo processo, in Italia?

Un po’ di risonanza ci fu. Durante il processo entrammo in contatto con diversi giornalisti, io intervenni in diversi servizi di RaiNews e Radio1, oltre ai contatti con i tanti amici in Italia e a numerosi blog che ci hanno dato spazio. Se cerchi su internet la vicenda del processo Condor, trovi moltissimo materiale. In America Latina si parla ancora dell’esito di questo processo e del plan Condor.

Chi si fece carico delle spese di questo lungo processo?

Soprattutto lo Stato italiano. Alcune regioni italiane, alle quali la vittima apparteneva, hanno aiutato. La chiesa valdese partecipò alle spese.

Cosa pensi di coloro che al giorno d’oggi hanno nostalgia di quelle dittature o sono negazionisti rispetto ai fatti che voi avete denunciato?

Noi dobbiamo continuare a raccontare la nostra storia e a spiegare che non si può negare quello che è avvenuto. Io mi sono ancora emozionata quando, pochi giorni fa, ho visto le immagini dell’estremo saluto ai resti della compagna di cui parlavo prima, fatto nell’enorme atrio dell’università di Montevideo. Ho visto un popolo che piangeva e che diceva: “la tua lotta continua ad essere la nostra”, e tra loro moltissimi giovani. Sono pochi resti, in un’urna, ma emozionano ancora moltissimo. A noi rimane l’ultima madre di quel periodo, che tra poco compirà cento anni, lucidissima. Ogni volta che posso vado a parlare, a raccontare, nelle scuole, soprattutto intorno al Giorno della Memoria. Pur se è difficile con i tempi che corrono, dobbiamo insistere perché sia davvero “nunca mas”.

Per chiudere, cosa pensi dell’essere umano e della sua capacità di compiere violenze?

Che non ha limiti. Che è ancora incredibile, nonostante la storia, pensare che un essere umano possa essere così crudele, malvagio, spietato…ma poi ci guardiamo intorno e vediamo le guerre in atto: di cosa ci stupiamo?. E non solo le guerre. Che dire: che il sopravvento è stato preso dal potere e dal denaro, come continua a ripetere Francesco.  Io credo che la forza per combattere tutto ciò si possa trovare nella lotta. Sempre. Perché credere nella vita, nell’amore e nell’essere umano è lo stimolo, e anche l’esempio che mi sento di trasmettere ai miei nipoti.

Anche in questa lotta, lunga, faticosa, dura, foste quasi esclusivamente donne, perché?

Forse perché noi diamo la vita, quindi siamo molto attaccate ad essa. Non voglio dire che gli uomini non abbiano forza, abbiamo avuto al nostro fianco uomini bravissimi, ma la nostra è particolare.

Um’ultima nota, un po’ sciocca: hai un cognome impegnativo adesso…

(Aurora ride) Non c’entro niente.

 

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

“Valerio vive, un’idea non muore”: manifestazione in ricordo di Valerio Verbano

Come ogni anno a partire dal 1980, terribilis annus, oltre 4.000 si sono radunate sotto la casa di Valerio Verbano, liceale impegnato nel quartiere e in una indagine sui gruppi eversivi di estrema destra, ucciso sotto gli occhi dei genitori legati ad una sedia. E’ utile ricordare che il dossier cui Valerio stava lavorando è sparito come pure la pistola di ‘ordinanza’ con la quale è stato freddato. Valerio è diventato cosi il simbolo di una generazione in lotta contro la grigia cappa clerico/fascista che opprimeva e opprime Roma dove i centri sociali sono sempre minacciati di sgombero mentre Casapound ha persino le utenze gratis.

Dopo l’omaggio floreale alla targa posta all’ingresso dell’abitazione di Valerio, un corteo di giovani è poi sfilato per le vie dei quartieri del Tufello e Montesacro. Gli studenti delle scuole hanno preparato con cura la manifestazione con riunioni, assemblee e con una settimana di trasmissioni a Radio Onda Rossa. Hanno persino rinfrescato la scritta sui muri del liceo Archimede che Valerio frequentava. Alla domanda: “siete qui per Valerio o contro il DDL sicurezza del governo?” uno studente del liceo Augusto risponde: “c’è differenza?”. Insieme agli studenti hanno sfilato curdi e palestinesi con le loro bandiere, giovani donne a ricordarci con i loro slogan che non c’è antifascismo senza lotta contro il patriarcato ed infine i compagni, ormai anziani, di Valerio molti dei quali tornati apposta a Roma. Ha praticamente sfilato tutto il III municipio

Terribilis annus il 1980 apertosi con l’omicidio di Mattarella seguito da Ustica e poi la stazione di Bologna per concludersi con la sconfitta operaia alla Fiat (61 licenziamenti e un mese di occupazione). Come e con un terremoto (Irpinia) si chiude il ventennio iniziato a Genova con la mobilitazione per impedire il comizio di Almirante. Si chiude un ventennio di conquiste sociali: diritto di famiglia, scala mobile, statuto dei lavoratori, divorzio e via discorrendo. Ma <il vento soffia ancora> si legge su una grande bandiera bianca che al centro reca l’immagine di un coloratissimo uccello. <Sarà un caso che a partire da allora sono nati circa 2500 Valerio e Valeria? > fa notare un compagno di lotta di Valerio.

Il corteo si è concluso con un concerto perché l’antifascismo si pratica anche con la socialità e la cultura.

Rachele Colella

Redazione Roma

L’irresistibile attrazione delle banche verso l’industria delle armi

L’aggressione russa all’Ucraina ha spinto, anche in Italia, a una corsa globale agli armamenti. Nel 2024 la spesa militare globale ha raggiunto i 2.443 miliardi di dollari, segnando un nuovo record in un contesto di crescente instabilità geopolitica. Dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio 2022, l’Ue e i suoi Stati membri hanno mobilitato 124 miliardi di euro a sostegno dell’Ucraina, una cifra significativa rispetto agli investimenti previsti per il Green New Deal. Per quanto riguarda il nostro Paese, utilizzando il Database SIPRI si nota che nell’arco temporale 2015-2023 la spesa militare italiana passa da 23,83 miliardi a 32,63 miliardi di dollari (+36,9%). In termini di incidenza sul PIL, siamo passati dall’1,2% all’1,6%. Ciò implica una spesa pro-capite che è lievitata da 368,35 dollari nel 2015 ai 603,50 dollari del 2023. Anche per quanto riguarda l’esportazione di materiale d’armamento l’Italia ha una posizione di tutto rispetto: si trova al 6° posto come Paese esportatore di armi nel mondo. Il database aggiornato annualmente del SIPRI colloca l’Italia subito dietro la Germania, ma prima del Regno Unito. Con il 4,3% dell’ammontare delle esportazioni mondiali nel quinquennio 2019-2023 l’Italia ha visto crescere dell’86% quest’attività rispetto al quinquennio precedente (2014-2018). Il 71% delle sue esportazioni, l’Italia le dirige verso il Medio Oriente, una delle aree a maggior densità di conflitti endemici del pianeta. In quest’area si collocano tre dei maggiori 10 importatori di armi: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. Gli Stati Uniti, sempre secondo SIPRI, coprono il 52% delle esportazioni totali verso il Medio Oriente. A seguire la Francia (12%), l’Italia (10%) e la Germania (7,1%).

Siamo di fronte ad un preoccupante trend di crescita delle spese militari, che tutto fa pensare che sarà purtroppo destinato a continuare anche nel prossimo futuro. Spese militari verso le quali, come ha evidenziato “ZeroArmi”, alcune banche italiane subiscono un’irresistibile attrazione. Il progetto ZeroArmi rappresenta il primo strumento di valutazione dell’esposizione bancaria italiana verso l’industria delle armi. L’iniziativa è frutto della collaborazione tra Fondazione Finanza Etica e Rete Italiana Pace e Disarmo, con il coinvolgimento delle principali banche italiane. ZeroArmi analizza il grado di coinvolgimento del sistema bancario nel settore militare, ponendo l’accento sulla trasparenza e sul dialogo critico con gli istituti bancari. La valutazione copre le seguenti banche: Banca Mediolanum, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare Etica, Banco BPM, BPER Banca, Cassa Centrale Banca, Cassa Depositi e Prestiti, Crédit Agricole Italia, ICCREA, Intesa Sanpaolo. Mediobanca e Unicredit.

Stando ai risultati 2024 di ZeroArmi presentati alla fine dello scorso gennaio, Banca Etica si conferma l’unico istituto con un coinvolgimento nullo nel settore militare. Cassa Centrale Banca, BPER, Banco BPM e Cassa Depositi e Prestiti mostrano un coinvolgimento minimo, con punteggi tra 10 e 20, attribuibili alla loro storia, a scelte strategiche recenti e alla disponibilità a confrontarsi con ZeroArmi. La seconda fascia di coinvolgimento moderato (20-40 punti) è leggermente più numerosa: Banca Mediolanum, Crédit Agricole, Mediobanca e ICCREA si posizionano tra 20 e 25 punti, mentre Banca Popolare di Sondrio si trova nella parte alta di questa fascia. Infine, le due banche tradizionali con il maggiore flusso di cassa, Intesa Sanpaolo e Unicredit, si posizionano all’interno della terza fascia (40-60) a conferma del loro storico ruolo di protagoniste strutturali nel settore, con un coinvolgimento significativo. 

Scrive Simone Siliani nel Report ZeroArmi: “Dove finiscono i soldi delle persone risparmiatrici quando vengono depositati in banca? Esiste un diritto a essere informati su come vengono impiegati? Considerando che quei fondi restano di proprietà di chi li ha affidati alle banche con l’obbligo di tutelarli e utilizzarli per muovere l’economia, questo diritto assume una importanza ancora maggiore quando i risparmi vengono impiegati per finanziare settori dell’economia eticamente sensibili, come quello degli armamenti.” Per affrontare il crescente coinvolgimento delle banche italiane nell’industria bellica, ZeroArmi propone azioni concrete: 1. Promuovere la trasparenza, rendendo pubblici i dati relativi ai finanziamenti al settore militare. 2. Definire policy restrittive per escludere effettivamente il supporto a industrie produttrici di armamenti controversi. 3. Favorire il disinvestimento, sostenendo la riallocazione di capitali verso settori a elevato impatto sociale e ambientale positivo. 4. Coinvolgere chi risparmia, informando i cittadini e le cittadine sull’impatto delle loro scelte finanziarie per favorire decisioni consapevoli.

Qui per scaricare il Report: https://finanzadisarmata.it/risorse/zero-armi/

 

Giovanni Caprio

Meno tasse soltanto per pochi ricchi

Da mesi nel Governo italiano si discute sulla possibile riduzione dell’aliquota fiscale del 35%, che si applica ai redditi delle persone fisiche da 28.000 a 50.000 euro.

In particolare Forza Italia propone di diminuire la percentuale di 2 punti, scendendo al 33%.

Non solo: di estendere questa aliquota anche ai redditi tra 50.000 e 60.000 euro, attualmente tassati al 43%.

Questa modifica dell’aliquota IRPEF, secondo i proponenti, dovrebbe servire ad agevolare il ceto medio.

Ma se si prendono in considerazione gli ultimi dati disponibili sulle dichiarazioni fiscali (del 2023 riferite ai redditi del 2022), si vede chiaramente che il ceto medio non c’entra nulla con queste proposte.

Per comprendere l’effettivo impatto dell’eventuale riduzione dell’aliquota al 33% e dell’applicazione anche ai redditi fino a 60.000 euro, si può calcolare il risparmio in base ai diversi livelli di retribuzione.

Chi guadagna 30.000 euro pagherebbe 40 euro in meno di imposta all’anno.

Con 40.000 euro di reddito lo sconto sarebbe di 240 euro.

Chi ha un reddito di 50.000 avrebbe 440 euro e dai 60.000 euro in su il risparmio sarebbe di 1.440 euro.

In sintesi, si tratterebbe di una riduzione evidentemente contraria al criterio della progressività costituzionale, perché la diminuzione dell’imposta si accentua con l’aumento del reddito.

Resta da vedere quanti potrebbero essere i contribuenti favoriti da queste riduzioni di tasse e se davvero appartengono al ceto medio.

I contribuenti che avrebbero il massimo risparmio (1.440 euro) sono quelli con redditi superiori a 60.000 euro.

Si tratta di 1.756.284 persone, che corrispondono al 4,23% del totale.

Se anche volessimo considerare i 762.699 contribuenti con redditi da 50.000 a 60.000 euro, che avrebbero un vantaggio crescente compreso tra 440 e 1.440 euro, si tratterebbe dell’1,84% del totale.

A questo punto sorge spontanea la domanda: che senso ha agevolare soprattutto il 6% dei contribuenti più ricchi?

Anche allargando il calcolo a tutti coloro che avrebbero uno sconto (anche se minimo), cioè a partire dai redditi di 28.000 euro a cui si applica l’aliquota attuale del 35%, si tratterebbe in totale del 25% dei contribuenti.

Detto in altro modo, il 75% dei contribuenti, quelli con i redditi meno elevati, non trarrebbe alcun beneficio da questa modifica dell’IRPEF.

Perciò, affermare che la riduzione dell’aliquota del 35% andrebbe a vantaggio del ceto medio, se l’aggettivo “medio” ha un senso, è palesemente falso.

In tutta questa vicenda quello che più stupisce è la quasi mancanza di obiezioni sia da parte delle altre forze politiche sia degli organi di informazione.

Ogni volta che si parla della proposta di Forza Italia non c’è nessuno che mostri e dimostri, numeri alla mano, che andrebbe soltanto a favore dei più abbienti.

Nulla ai più poveri e nemmeno al ceto medio indicato espressamente come beneficiario.

Non solo: la riduzione delle imposte dovute dai contribuenti più ricchi, comporterà una minor disponibilità di risorse, che di fatto si trasformano in una riduzione dei servizi per tutti e questa diminuzione di fatto colpisce maggiormente chi è più in difficoltà.

Di conseguenza il vantaggio per i più ricchi si trasforma anche in uno svantaggio per tutti gli altri.

Il commediografo inglese Noel Coward ha scritto: “È sorprendente quante persone sono turbate dall’onestà e quante poche dall’inganno”.

E forse aveva ragione anche Pier Paolo Pasolini: “Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”.

Rocco Artifoni

Stati Uniti, decine di proteste contro le politiche di Trump e Musk

In seguito al licenziamento di migliaia di dipendenti pubblici predisposto dal nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE), guidato dal miliardario Elon Musk e voluto da Trump, in alcune zone degli Stati Uniti si sono registrate proteste contro le politiche del fondatore di Tesla e del presidente della Casa Bianca. In particolare, centinaia di persone si sono radunate davanti alle concessionarie Tesla a New York, Kansas City e in tutta la California per protestare contro i tagli del DOGE. Gli organizzatori hanno riferito di almeno 37 dimostrazioni in uno sforzo coordinato attraverso gli hashtag social TeslaTakedown e TeslaTakover, con i manifestanti che hanno agitato cartelli con le scritte “Detronizzate Musk”, “Nessuno ha votato Elon Musk” e “Fermate il colpo di Stato”. In alcuni Stati democratici, inoltre, sono partite le rivendicazioni contro le politiche riguardanti i diritti all’aborto e delle persone transgender.

Attraverso il DOGE, istituito per ridurre la burocrazia statunitense, Musk ha finora licenziato più di 9.500 dipendenti federali che si occupavano di tutto, dalla gestione dei terreni federali all’assistenza dei veterani militari. I licenziamenti si aggiungono ai circa 75.000 lavoratori che hanno accettato una buonuscita offerta da Musk e Trump. Il presidente statunitense ha affermato che il governo federale è saturo e che troppi soldi vengono persi a causa di sprechi e frodi. Il governo ha circa 36 trilioni di dollari di debito e ha avuto un deficit di 1,8 trilioni di dollari l’anno scorso: c’è un accordo bipartisan sulla necessità di riforme. Tuttavia, l’ondata di licenziamenti ha causato proteste sia tra i dipendenti licenziati che tra i cittadini: molti lavoratori pubblici hanno affermato di sentirsi traditi dallo Stato che hanno servito per anni.

Trump e Musk hanno chiuso quasi completamente alcune agenzie governative come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Quest’ultimo era uno dei pochi uffici rimasti dalla crisi del 2008 con lo scopo di aiutare finanziariamente i cittadini comuni, ma è accusato dai repubblicani di abuso di potere. In risposta alla chiusura di queste Agenzie, è nata una nuova rete di dipendenti federali organizzata per contrastare i tagli nel settore pubblico, chiamata Federal Unionists Network (FUN).

Chris Dols, uno dei membri fondatori, ritiene che l’attacco al CFPB abbia chiarito qual è il vero obiettivo di Musk e Trump. «[Il CFPB] è la protezione dei consumatori contro le frodi», ha affermato, aggiungendo che «I truffatori se la sono presa con l’agenzia anti-truffa». In altre parole, secondo Dols, se Trump e Musk si preoccupassero davvero di ridurre gli sprechi e le frodi e di migliorare la vita dei lavoratori rafforzerebbero ed espanderebbero la portata del CFPB, anziché tagliarla.

Alcuni manifestanti, soprattutto negli Stati di stampo più “progressista” come la California, hanno messo in dubbio la legittimità di Elon Musk, sostenendo che nessuno lo ha votato e radunandosi fuori dalle concessionarie Tesla per protesta. Più di una trentina di eventi contro l’oligarca sudafricano naturalizzato statunitense sono andati in scena in varie parti degli USA, come riportato sul sito Action Network, dove si invitano le persone che possiedono delle Tesla o azioni della società a disinvestire, vendere il proprio veicolo e unirsi alle proteste. Le dimostrazioni seguono le notizie di incendi dolosi e danneggiamenti dei saloni Tesla in Oregon e Colorado. Alcuni investitori temono che il sostegno di Musk a Trump possa influenzare le vendite e sottrarre tempo allo sviluppo del marchio automobilistico: a gennaio le azioni Tesla hanno intrapreso una rapida discesa e anche le vendite risultano in calo.

La Casa Bianca ha affermato che Musk opera come dipendente governativo speciale non retribuito. Tale qualifica è riservata ufficialmente a coloro che lavorano per il governo per 130 giorni o meno in un anno. Fino ad ora, il DOGE ha chiuso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e sta cercando di chiudere il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Inoltre, come parte di una lotta alle politiche “woke“, Musk ha affermato che il suo team ha «risparmiato ai contribuenti oltre 1 miliardo di dollari in folli contratti DEI (diversità, equità e inclusione)».

L'Indipendente

I centri per migranti in Albania: un fallimento senza vergogna

I lavoratori, assunti a seguito dell’accordo tra Italia e Albania, sono stati licenziati nei giorni scorsi per “manifesta inutilità”. Assistiamo all’ennesimo fallimento delle politiche migratorie, peraltro in questo caso sbandierato come un grande successo da parte del nostro governo.

Gli accordi tra Italia e Albania per la creazione dei centri di trattenimento dei migranti si sono rivelati un completo insuccesso. Questo è evidente poiché tutti i migranti trasferiti dall’Italia a questi centri sono stati rapidamente rimandati indietro. Il fallimento è ulteriormente confermato dal licenziamento del personale impiegato per la gestione dei centri.

Il primo a riportare il licenziamento è stato il quotidiano “Domani“, che ha ottenuto la comunicazione con cui la cooperativa Medihospes ha terminato il contratto con i lavoratori impiegati nei centri in Albania.

La Medihospes è una cooperativa italiana specializzata in assistenza sociale e sanitaria, con sede a Roma. Opera in diverse strutture nel Lazio, in Puglia e in Basilicata. Dallo scorso ottobre, Medihospes è attiva anche in Albania dove, dopo aver vinto un bando di 134 milioni di euro indetto dal Ministero dell’Interno, gestisce i centri di Shengjin e Gjader, sebbene queste strutture non siano indicate sul loro sito.

Per questo progetto, la cooperativa ha reclutato mediatori culturali, autisti, medici, consulenti legali, addetti alle pulizie, psicologi, personale amministrativo, esperti informatici e altre figure professionali.

Il licenziamento, in vigore dal 15 febbraio, coinvolge la maggior parte dei dipendenti. Soltanto il personale essenziale resterà in servizio, tra cui alcuni medici, addetti alle pulizie e agenti di sicurezza.

L’accordo tra Italia e Albania

Il progetto stabilito dall’accordo tra Italia e Albania prevede la realizzazione di due centri: il primo a Shengjin, lungo la costa, dove attraccano le navi italiane che trasportano i migranti dall’Italia all’Albania. A Shengjin si svolge lo sbarco e l’identificazione dei migranti, un processo che è stato ripetuto più volte, incluso al momento dell’imbarco in Italia. Dopo lo sbarco e l’identificazione, i migranti vengono trasferiti al secondo centro, situato a Gjader, nell’entroterra albanese.

Nei centri vengono trasferite persone che, dopo una valutazione preliminare e senza garanzie, sembrano non soddisfare i criteri per ricevere asilo. In base all’accordo, i migranti rimangono in questi centri in attesa della decisione finale, che può essere di due tipi: l’accoglimento della richiesta di asilo, che consentirebbe loro di tornare in Italia, o il rigetto della richiesta, con conseguente espulsione. I migranti portati in Albania sono quelli soccorsi in mare dalla Guardia Costiera o dalla Guardia di Finanza Italiana, escludendo quelli salvati dalle ONG, evidenziando una discriminazione ulteriore.

I trasferimenti, secondo quanto stabilito dall’accordo, sono gestiti dalle autorità albanesi. Invece, l’Italia è responsabile della gestione interna dei centri, inclusa la cura delle persone durante la loro permanenza. Questo accordo comporta un trasferimento non solo di persone, ma anche di responsabilità e competenze, presentando numerose criticità logistiche e potenziali conflitti con le norme costituzionali.

Un progetto fallimentare ha portato al licenziamento del personale, poiché, dopo circa cinque mesi dall’apertura, nessuno è presente nelle strutture. Ogni volta che i migranti sono stati trasferiti in Albania, i giudici italiani non hanno mai convalidato la loro detenzione in questi centri, ordinandone il ritorno in Italia. Le convalide non sono avvenute perché in alcuni casi si trattava di minorenni o persone vulnerabili, con problemi di salute mentale o fisica. In generale, i giudici non hanno convalidato i fermi perché questo tipo di gestione viola le norme europee sulla gestione dei migranti.

L’accordo tra i due Paesi prevede l’invio di migranti provenienti da nazioni considerate sicure. Tuttavia, la questione dei Paesi sicuri è complessa, poiché l’Italia ritiene sicuri alcuni Stati che l’Unione Europea non considera tali, come la Tunisia, nota per la tratta di esseri umani, o la Nigeria. Inoltre, in Albania sono state trasferite persone provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, dove l’omosessualità è illegale e punibile con il carcere.

Questo elemento dell’omosessualità non dovrebbe essere trascurato nell’interpretazione giuridica, poiché per l’Unione Europea ogni individuo deve sentirsi completamente al sicuro nel proprio Paese di origine, senza dover rivelare le proprie preferenze sessuali o altri dettagli personali. Il prossimo 25 febbraio la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dovrebbe chiarire l’interpretazione delle norme sui “Paesi di origine sicuri”.

Il fallimento del progetto dei centri in Albania è evidente, tanto che il governo sta considerando un cambio di destinazione d’uso. Tra le possibilità c’è quella di trasformare queste strutture in CPR, centri permanenti per il rimpatrio, simili a quelli già esistenti in Italia. Tuttavia, i CPR sono anche criticati per la cattiva gestione e le condizioni disumane in cui si trovano.

Tutto ciò evidenzia la determinazione politica italiana, principalmente di questo governo ma non esclusivamente, nel proseguire su una gestione inumana dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente stringendo accordi con Paesi come Libia e Tunisia, noti per violazioni sistematiche dei diritti umani, complicità in violenze, torture e tratta di esseri umani. Gestione disumana che ha dato origine a luoghi crudeli come i CPR, noti per le comprovate violazioni dei diritti umani, culminando infine nella creazione di questi centri in Albania.

Un gioco politico e di potere svolto a scapito di persone trattate come merce da trasferire da uno Stato all’altro, rinchiuse in centri di vario tipo, spesso senza giustificazione e considerate come se fossero sacrificabili. Figure di potere che sembrano ignorare l’impatto delle loro decisioni sugli esseri umani, indifferenti alle conseguenze che tale disumanità può avere sul cuore, sulla mente e sull’anima di queste persone.

 

Heraldo

La lotta per la Groenlandia (Parte III)

Si intensifica il dibattito dell’UE sull’invio di soldati in Groenlandia. L’Artico è già oggi teatro di una crescente rivalità militare tra Stati Uniti e Russia.

Il dibattito sull’invio di soldati in Groenlandia si sta intensificando nell’Unione Europea. Dopo la proposta del Presidente del Comitato militare dell’UE, anche il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che “se sono in gioco i nostri interessi”, si potrebbe prendere in considerazione il dispiegamento di truppe sull’isola, che appartiene allo Stato UE della Danimarca. Barrot ha sottolineato che l’Artico nel suo complesso è diventato una “nuova area di conflitto”.

In effetti, la rivalità sta aumentando, soprattutto tra l’Occidente e la Russia. La Russia dispone oggi di quasi una dozzina di basi militari nella regione artica per proteggere il suo fianco settentrionale, il porto della sua flotta settentrionale e le fonti di petrolio e di gas che vi si trovano.

Gli Stati Uniti gestiscono nove basi militari in Alaska e utilizzano la base spaziale di Pituffik in Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che l’Artico è un’“arena” per le lotte di potere globali; il Presidente Donald Trump voleva acquistarlo. Il fatto che abbia fallito allora contribuisce a spiegare le sue attuali richieste di annessione estremamente aggressive.

Porto Rico con la neve

Per la prima volta dopo gli sforzi compiuti negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, nel 2019 gli Stati Uniti hanno puntato ad annettere la Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha dichiarato in un discorso a una riunione del Consiglio Artico a Rovaniemi, nel nord della Finlandia, che l’Artico era diventato un’“arena” per di competizione globale: “Stiamo entrando in una nuova era di attività strategica nell’Artico”[1]

Nell’agosto 2019, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato di voler acquistare la Groenlandia. La mossa ha scatenato reazioni incredule e talvolta inorridite in Danimarca in generale e nella stessa Groenlandia. “Spero che sia uno scherzo”, ha dichiarato Martin Lidegaard, presidente della Commissione Affari Esteri del parlamento danese – si tratta di ‘un pensiero terribile e grottesco’[2].

‘La Groenlandia non è in vendita’, ha annunciato il primo ministro groenlandese Kim Kielsen. Di conseguenza, i piani di Trump non avrebbero portato a nulla. Il capo del Centro per gli studi militari dell’Università di Copenaghen, Henrik O. Breitenbauch, ha dichiarato che non si fa commercio di persone e Paesi. Inoltre, l’interesse della popolazione groenlandese a diventare una sorta di “Porto Rico con la neve” era probabilmente piuttosto limitato[3].

“Ci prendiamo la Groenlandia”

Il 22 dicembre 2024, Trump ha nuovamente annunciato di voler incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti.[4] Il 7 gennaio 2025, ha esplicitamente ribadito che non escluderà la coercizione economica o militare per raggiungere questo obiettivo.[5]

Come nel 2019, in Danimarca e nella stessa Groenlandia si sono sentiti sgomento e aperto rifiuto. Facendo riferimento alla storica discriminazione razziale contro la popolazione indigena dell’Alaska, gli Inuit, Pipaluk Lynge, membro del parlamento groenlandese, ha dichiarato: “Sappiamo come trattano gli Inuit in Alaska”. Rivolgendosi agli Stati Uniti, Lynge ha aggiunto: “Rendeteli ‘great’ prima di cercare di invaderci”[6]

I primi tentativi del governo danese di smorzare le richieste con concessioni all’amministrazione Trump – come la promessa di espandere un aeroporto in Groenlandia per i caccia F-35 statunitensi – sono falliti. In una conversazione telefonica con il primo ministro danese Mette Frederiksen la scorsa settimana, Trump non solo ha insistito per incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti, secondo quanto riferito, ma ha anche minacciato misure coercitive specifiche, come i dazi.[7] “Avremo la Groenlandia”, ha affermato Trump nel fine settimana; se la Danimarca non è disposta a cedere il suo territorio, questo sarebbe “un atto molto ostile”[8].

Sistemi di allerta rapida per l’Artico

Trump insiste nella rivendicazione, anche se gli Stati Uniti hanno già un notevole spazio di manovra militare in Groenlandia e la Danimarca si è offerta di ampliarlo. Washington e Copenaghen hanno un accordo militare relativo alla Groenlandia dal 1951, che consente alle forze armate statunitensi di utilizzare, tra le altre cose, una base militare situata molto a nord-ovest dell’isola. Ancora oggi è conosciuta come base aerea di Thule, ma da diversi anni si chiama ufficialmente base spaziale di Pituffik.

Oltre a una stazione di sorveglianza spaziale, vi si trovano anche radar e sistemi di allarme rapido. Questi erano già utilizzati durante la Guerra Fredda per rilevare eventuali bombardieri e missili sovietici in avvicinamento. Il percorso attraverso la Groenlandia è il più breve dalla Russia agli Stati Uniti a causa della curvatura della terra.

Oggi gli esperti sottolineano che le strutture della base spaziale di Pituffik non sono probabilmente in grado di rilevare in tempo i moderni missili ipersonici russi; per questo, dicono, “nuove strutture di ricognizione dovrebbero essere posizionate anche in Groenlandia”[9]. Peter Viggo Jakobsen, professore del Royal Danish Defence College, ha affermato che gli Stati Uniti “hanno ottenuto in larga misura ciò che volevano militarmente in Groenlandia chiedendo gentilmente”[10].

Basi militari nell’Artico

Un’eventuale annessione della Groenlandia e un’espansione della presenza militare statunitense sull’isola aggraverebbero in modo significativo le tensioni militari nell’Artico. Gli Stati Uniti mantengono attualmente nove basi militari in Alaska, oltre alla base spaziale di Pituffik in Groenlandia.

La Russia, invece, ha aumentato le sue basi militari nelle regioni settentrionali fino a quasi una dozzina. È nella penisola di Kola, per la precisione, che si trova la base della Flotta del Nord, che contiene parte della capacità di secondo colpo nucleare delle forze armate russe. Le regioni artiche della Russia ospitano anche grandi riserve di petrolio e, soprattutto, di gas naturale. Entrambe devono essere protette dagli attacchi in caso di guerra, motivo per cui Mosca dichiara la sua presenza militare nell’Artico come chiaramente difensiva.[11]

Tuttavia, la Russia ha recentemente ampliato le sue manovre nelle acque artiche e, secondo i rapporti, le ha spostate sempre più verso la Norvegia, il che aumenta il suo spazio di manovra ma è classificato come azione offensiva in Occidente. Nell’Artico sta inoltre cooperando con la Cina, non a livello militare, ma ad esempio nello scambio di dati satellitari per la comunicazione e la navigazione[12].

Un segnale forte

Nel frattempo, si discute anche dello stazionamento di forze dell’UE in Groenlandia. A fine gennaio, il presidente del Comitato militare dell’UE, il generale austriaco Robert Brieger, ha dichiarato che sarebbe “abbastanza sensato” “prendere in considerazione lo stazionamento di soldati dell’UE” in Groenlandia: “Sarebbe un segnale forte”. [13.

Durante una breve visita a Parigi del primo ministro danese Mette Frederiksen, il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che l’Artico è diventato una “nuova area di conflitto” in cui “l’interferenza straniera” deve essere deplorata.  “Se i nostri interessi sono in gioco”, allora il dispiegamento di militari in Groenlandia sarà preso in considerazione. [14]

La Danimarca ha ora iniziato ad armarsi a livello nazionale nella sua provincia autonoma. Come annunciato lunedì, Copenaghen intende spendere 14,6 miliardi di corone danesi – poco meno di due miliardi di euro – per acquistare, tra l’altro, tre navi da guerra in grado di affrontare l’Artico e due droni a lungo raggio che possono essere utilizzati per voli di sorveglianza estensivi. Inoltre, ci saranno esercitazioni militari più intense rispetto al passato sul terreno artico [15].

Le parti precedenti di questa serie di articoli si possono leggere ai seguenti link:  La lotta per la Groenlandia (I)   La lotta per la Groenlandia (II) 

NOTE:

  • [1] Michael R. Pompeo: Looking North: Sharpening America’s Arctic Focus. 2027-2021.state.gov 06.05.2019.
  • [2], [3] Martin Selsoe Sorensen: “La Groenlandia non è in vendita”: Trump’s Talk of a Purchase Draws Derision. nytimes.com 16.08.2019.
  • [4] Rebecca Falconer: Trump suggerisce che gli Stati Uniti dovrebbero diventare proprietari della Groenlandia. axios.com 23.12.2024.
  • [5] Seb Starcevic: Trump rifiuta di escludere l’uso della forza militare per prendere la Groenlandia e il Canale di Panama. politico.eu 07.01.2025.
  • [6] Seb Starcevic, Eric Bazail-Eimil, Jack Detsch: La visita di Donald Trump Jr. è stata “inscenata”, dice il legislatore groenlandese. politico.eu 09.01.2025.
  • [7] Richard Milne, Gideon Rachman, James Politi: Donald Trump in una telefonata infuocata con il primo ministro danese sulla Groenlandia. ft.com 24.01.2025.
  • [8] Richard Milne: Donald Trump ridicolizza la Danimarca e insiste che gli Stati Uniti prenderanno la Groenlandia. ft.com 26.01.2025.
  • [9] Michael Paul: Grönlands arktische Wege zur Unabhängigkeit. SWP-Studio 2024/S 22. Berlino, 02.10.2024.
  • [10] Julian Staib: Perché Trump vuole la Groenlandia. Frankfurter Allgemeine Zeitung 09.01.2025.
  • [11] Colin Wall, Njord Wegge: La minaccia artica russa: conseguenze della guerra in Ucraina. csis.org 25.01.2023.
  • [12] Majid Sattar, Friedrich Schmidt, Julian Staib, Jochen Stahnke: La lotta per l‘artico. Frankfurter Allgemeine Zeitung 14.01.2025.
  • [13] EU-Militärchef für Stationierung von Soldaten auf Grönland. rnd.de 26.01.2025.
  • [14] Théo Bourgery-Gonse: La Francia pensa di inviare truppe UE in Groenlandia. euractiv.com 28.01.2025.
  • [15] Billy Stockwell, James Frater, Eve Brennan: La Danimarca aumenta la spesa per la difesa dell’Artico di 2 miliardi di dollari dopo l’interesse di Trump per la Groenlandia. edition.cnn.com 27.01.2025.

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid.

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com

Leonard Peltier è libero

Finalmente Leonard Peltier è libero e a casa sua.

Questa una delle prime foto  arrivate dove è insieme alla sua famiglia e agli amici del Comitato che sempre l’ha difeso e ne ha chiesto la liberazione.

Peltier è stato liberato grazie a un provvedimento delle ultime ore del Presidente Biden poco prima di cedere il suo incarico. Non è stata la grazia che tutti chiedevano dopo 49 anni di incarcerazione in base a prove inesistenti ma gli ha dato  la possibilità di essere vicino ai suoi cari e amici e di curarsi.

Questo grazie al grande movimento di solidarietà internazionale di cui Pressenza è lieta di essere parte, dimostrando che l’azione umana, della società civile, non è un’azione inutile e senza speranza, come a volte sembra.

Tutti gli articoli sul caso Peltier su Pressenza

Redazione Italia

Migliaia di persone protestano contro Trump e Musk in tutti e 50 gli Stati

Lunedì 17 febbraio 2025 migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in tutti gli Stati Uniti per protestare contro le misure di Donald Trump ed Elon Musk volte a smantellare radicalmente il governo federale in quello che molti hanno paragonato a un colpo di stato. Le proteste si sono svolte in tutte le capitali dei 50 Stati e in molte altre città. Molte delle proteste erano all’insegna dello slogan “Not My President’s Day”.

“Abbiamo Elon Musk e Donald Trump e i fratelli DOGE, i fratelli della tecnologia, che fanno a pezzi il nostro governo, fanno a pezzi la nostra Costituzione, ignorano lo stato di diritto. E il popolo americano deve opporsi” ha dichiarato Jay W. Walker di Rise and Resist durante una protesta a New York

A Washington, i manifestanti si sono riuniti davanti al Campidoglio e alla Casa Bianca. “Il fine non giustifica i mezzi. C’è un modo giusto e un modo sbagliato per realizzare un cambiamento e il Presidente Trump ha infranto ogni regola del cambiamento democratico appropriato nella nostra società” ha denunciato Daniel Fairholm.

Democracy Now!