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Politica

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 2° parte

Riprendiamo l’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i terribili fatti avvenuti in Sud America, con il rapimento e il successivo omicidio del marito, la sua storia continua in Europa.

Arrivi in Svezia, come continua la tua storia?

La Svezia era allora l’unico Paese europeo che ci accoglieva. A Buenos Aires, durante la ricerca dei ragazzi, ero andata all’ambasciata italiana dove mi avevano trattato molto male, nonostante avessi detto loro che sia io che Daniel eravamo di origine italiana. Mi risposero: “Di terroristi in Italia abbiamo già i nostri.” Dopo due giorni a Stoccolma (dove governava Olof Palme) ci spostarono in un villaggio, una grande area con una serie di casette completamente arredate nella località di Alvesta. Trovammo soprattutto compagni cileni… Sei mesi dopo, ci diedero un appartamento in una cittadina nel Sud della Svezia, Malmö. Io cominciai a studiare lo svedese, le bimbe andavano alla scuola per l’infanzia.

In quel momento non ne volevi più sapere di politica?

In quel momento non volevo sapere più nulla dei partiti politici. Personalmente credo che molta della responsabilità sia stata dei dirigenti, sia del movimento guerrigliero che dei partiti. Ho comunque capito che bisognava iniziare con le denunce, attivare e mettere in pratica la solidarietà dell’Europa, visto che avevamo migliaia di prigionieri politici, non solo in Uruguay, che vivevano una repressione durissima nei lager e nelle carceri dei nostri Paesi. Non credevo più nella guerriglia, ma continuavo a credere nella politica, nella Democrazia e soprattutto nella Libertà.

C’era un rapporto tra il Frente Amplio e la guerriglia dei Tupamaros?

Formalmente no, ma di fatto si, e ogni volta che i guerriglieri denunciavano sequestri, torture e uccisioni, erano spalleggiati dai partiti del Frente Amplio. L’esempio più chiaro è stato Zelmar Michelini, che ho citato prima. Una delle figlie di Michelini, Elisa, era militante dei Tupamaros. Lui fu minacciato in questi termini: “Se fai ancora qualcosa di simile a quando andasti al tribunale Russell in Europa a parlare di noi… tua figlia inizierà ad essere torturata.” Elisa in quel tempo era in galera, ma non l’avevano ancora toccata. Ho visto Zelmar piangere quando è arrivato in Argentina, perché avevano iniziato a torturarla. Lui non poteva stare fermo e zitto, nessuno di quei politici poteva farlo, con quello che stava accadendo. La tortura era sistematica, le persone in Uruguay venivano fatte a pezzi. Poi c’era il dramma degli scomparsi che esplose dopo il golpe in Argentina nel 1976.

Quindi sia in Uruguay che in Argentina il golpe non fu un passaggio netto, “dal bianco al nero”, ma iniziò ben prima

Sì, soprattutto in Uruguay. Già alla fine degli anni ’60 un governo eletto aveva iniziato a dar vita alle “medidas de seguridad” per le quali si vietava la propaganda politica, e la stessa parola Tupamaros (la stampa doveva dire “sovversivi”, “innominabili”). Se dicevi “Tupamaros”, andavi in galera. Avevano chiuso tutta la stampa di opposizione. Nelle elezioni del 1971 ci furono brogli, al Frente Amplio furono rubati molti voti. Nel 1972 il governo dichiarò lo “stato di guerra interna”.

Quindi tutti noi ricordiamo l’11 settembre del ’73 in Cile perché quello fu davvero un salto radicale dal “bianco al nero”. I golpe in Uruguay e in Argentina furono solo il consolidamento di una situazione che era già in atto?

Senza dubbio. Arrivammo in Italia nel ’76 perché io in Svezia non ce la facevo più…avevo un papà italiano, di Borgotaro (Parma) e volevo venire in Italia, la terra di mio padre. In Italia sentivo parlare SOLO del golpe in Cile che, comprendo bene, aveva colpito profondamente sia il sistema politico che i cittadini. Con altri compagni uruguaiani ci demmo proprio il compito di far sapere in Italia e in Europa che in Uruguay c’era stato un colpo di stato. Il caso dell’Argentina è stato diverso, con i desaparecidos, a migliaia, con le madri di Plaza de Mayo che si organizzarono per la ricerca e la denuncia e che oggi sono il simbolo dalla lotta per la Memoria, la Verità e la Giustizia. L’Argentina poi era un Paese grande e importante.

Ricordo che poco dopo il mio arrivo andai alla questura col mio passaporto di ACNUR, l’unico che ancora avevo. Dissi loro che volevo i miei documenti italiani. Tieni conto che di immigrazione in Italia, a quel tempo, non se ne parlava proprio (c’era solo popolazione somala ed eritrea, qualche cittadino greco, qualche portoghese e qualche spagnolo). L’agente mi disse: “Ma se lei è figlia di italiani è italiana, basta, mica ha bisogno di un documento come rifugiato politico!” Quando ritornai all’ufficio immigrazione, un altro agente che mi aveva fermato e a cui dissi che ero uruguayana, mi lasciò andare sorridendo dopo aver nominato alcuni tra i giocatori di calcio dell’allora famosa nazionale uruguayana. Così feci i documenti.

Come andò avanti la storia della dittatura in Uruguay?

Furono anni di repressione tremenda, solo verso il 1983 le forze politiche, di fronte ad un fallimento totale della dittatura (avevano rubato tutto quello che c’era da rubare), cominciarono a guadagnare terreno. La situazione generale era cambiata, l’Africa si era liberata (almeno formalmente) dai colonizzatori. Spagna, Grecia e Portogallo erano diventati delle democrazie. Nell’84 ci fu un accordo tra alcuni partiti (di centro e di destra) e i militari,, che cercavano di resistere in tutti i modi. Nell’84 si fecero le elezioni e noi tornammo per votare. Vinse il partito Colorado che da più di un secolo aveva quasi sempre governato ed era composto dalla buona borghesia metropolitana del Paese. L’altro partito, il Blanco, rappresentava la parte agraria, ma erano comunque due partiti di centro-destra, e in quel momento erano gli unici “legali”. Il primo presidente, Julio Maria Sanguineti, fece subito un’amnistia che liberò tutti i prigionieri politici (compreso Pepe Mujica), ma anche i militari che non vennero quindi giudicati. Fu fatto anche un referendum per stabilire se i militari potevano essere processati, ma perdemmo, la gente aveva paura e aveva buoni motivi per averne. Poi il Frente Amplio è cresciuto, si è presentato alle elezioni locali e ha conquistato la città di Montevideo. Poi fino al 2020 ha governato il Frente Amplio. Questo governo stabilì che quell’amnistia per i militari era incostituzionale e che i militari colpevoli di crimini di lesa umanità, potessero essere processati. Ora, dopo 50 anni, stanno ancora arrivando denunce.

E Pepe Mujica?

È malato, ha dichiarato in una conferenza stampa che ha un cancro all’esofago, è un vecchio saggio. Dice parole importantissime ai giovani, trasmette carica, coraggio, speranza, per l’ambiente e contro la rassegnazione.

Quando andai a votare in Uruguay dopo tanti anni, ero convinta di rimanere lì, ma fu il padre di Daniel, il mio primo suocero, a dirmi: “Ma di cosa vivi se vieni qui?”. Il Paese era rovinato, così tornai in Italia.

 

Fine seconda parte

 

Qui il link alla terza e ultima parte

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

Contro il rullo del tamburo (noi e Putin)

Il rullare dei tamburi di guerra è inquietante e va considerato: quando le spese militari crescono e si riempiono gli arsenali, si avvicina la guerra. Si sta preparando l’opinione pubblica a ciò che pare inevitabile: sacrificare al riarmo lo stato sociale. In un paese smemorato, dove molto spesso le decisioni non sono prese in base a dati e numeri, è bene riflettere, alla luce dei fatti.

Il nemico è Putin, feroce dittatore; lo era però anche quando Berlusconi, Salvini e la Meloni lo incensavano. Ricordiamo quanti soldi, credibilità politica ed economica l’Italia, con altri, gli ha dato. Nel 2000, all’alba dell’era Putin, il gas russo copriva circa il 20% del nostro fabbisogno, quota salita poi fino al 43%. Ricordiamo le forti collaborazioni tra Eni e gruppi russi degli idrocarburi, per ricerca e sfruttamento di giacimenti e per la costruzione di gasdotti per molti miliardi di euro1. Per favorire affari tra zone dell’Italia e Russia sono sorte associazioni come “Lombardia Russia” o “Veneto Russia” o “Conoscere Eurasia”2; quest’ultima si propone di rafforzare le relazioni con Russia e altri paesi dell’area e dal 2007 raduna a Verona ministri italiani e stranieri, dirigenti statali e privati, coinvolgendo le più ricche aziende di Mosca.

All’edizione di ottobre 2021, a pochi mesi dalla guerra, hanno partecipato, tra gli altri, Prodi, Scaroni, Tronchetti Provera, Marcegaglia, Bonomi, Profumo e tanta nomenclatura russa; iniziativa importante, con i contributi di Intesa, Generali, Gazprom, Rofneft e importanti banche russe3. L’associazione ha organizzato anche frequenti seminari, che si sono svolti fino a una settimana prima dell’invasione, con la partecipazione dei dirigenti di Intesa, dell’ambasciatore a Mosca Storace, fratello dell’AD di Enel, di Fontana e Toti. Va poi ricordata l’intensa amicizia tra Putin e Berlusconi. Memorabile il gesto del mitra che Silvio fece a una giornalista rea di una domanda di gossip che imbarazzava l’amico.4 C’è poi Salvini, che indossava magliette con l’effige del dittatore e ha siglato un patto di gemellaggio tra la Lega e il suo partito personale5. Sono noti i presunti finanziamenti che la Lega avrebbe richiesto a Mosca, denunciati da vari organi di stampa6.

Pure Meloni ha avuto grande stima del satrapo, congratulandosi per la quarta rielezione, nelle lezioni farsa del 2018.7 Simile accondiscendenza si è avuta anche in altri paesi europei e negli USA. Nel suo libro del 2004 intitolato “La Russia di Putin” la Politkovskaja testualmente scriveva: “Del resto il revanscismo sovietico seguito all’ascesa e al consolidamento del potere di Putin è lampante. A renderlo possibile, però – va detto – non sono state solo la nostra negligenza (ovviamente dei russi), l’apatia e la stanchezza seguite a tante – troppe – rivoluzioni. Il processo è stato accompagnato da un coro di osanna in Occidente. In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schroeder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano”8 Solo tra il 1998 e il 2020 gli europei hanno venduto armi alla Russia per circa 1,9 miliardi di euro e a Kiev si sono visti i militari russi sui blindati italiani Lince9. Nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, Putin è stato estromesso dal G8 ed è stato decretato l’embargo per le forniture di armi. La UE però non ha stabilito sanzioni per chi violava tale disposizione; così diversi paesi, tra cui Italia e Germania, hanno continuato a vendere armi a Mosca per un valore di circa 346 milioni di euro10. Fino al 31/12/24 numerosi paesi UE, tra cui noi, hanno continuano, sia pur in modo decrescente nel tempo, ad acquistare idrocarburi russi, direttamente, tramite gasdotti11, o indirettamente, tramite paesi terzi, come l’Azerbaigian, che non avrebbe tutto il gas che ci vende, importandone parte dalla Russia12.

Chi fosse Putin è sempre stato ben chiaro. Egli è diventato Presidente il 31/12/99 ereditando un paese in ginocchio, che pensava perfino di entrare nella Nato; ha subito piegato le istituzioni di uno Stato a pezzi e ha rimesso sotto il controllo statale le immerse riserve di idrocarburi, recuperando l’arma energetica, che da sempre riteneva cruciale per rilanciare la potenza russa. Dalla sua ascesa ci sono stati innumerevoli omicidi di giornalisti13, la Politkovskaja, uccisa nel 2006, è solo l’esempio più noto14.

Altrettanto ha fatto con numerosi oppositori, Navalny è solo il più famoso15. Agli oligarchi, arricchitisi già dai tempi di Eltsin, acquistando a prezzi stracciati proprietà e aziende pubbliche privatizzate dopo il crollo dell’URSS, ha aggiunto un cerchio ristretto di sodali e prestanome, che costudiscono un suo tesoro personale, pare di 200 miliardi di dollari16. Secondo Freedom House il sistema politico autoritario russo, sottomette la magistratura, controlla i media, manipola le elezioni, sopprime il dissenso; la corruzione dilagante favorisce legami tra funzionari statali e criminalità organizzata17. Anche Amnesty International da tempo denuncia arresti e persecuzioni di pacifici manifestanti, difensori dei diritti umani e attivisti civili e politici; la tortura è endemica in Russia, come la quasi totale impunità dei responsabili. Il diritto a un processo equo viene regolarmente violato18. Questi fatti erano già stati tutti documentati dalla stessa Politkovskaja nel citato libro. Putin ha iniziato la sua Presidenza attaccando brutalmente la Cecenia, con massacri di civili ed altri numerosi e gravi crimini19. Nel 2008 ha invaso la Georgia20, con modalità ripetute in grande in Ucraina. E’ intervenuto massicciamente a sostegno di Assad, contribuendo al mantenimento del suo potere e partecipando sostanziosamente alla distruzione di Aleppo21. Alla luce di quanto sopra, dobbiamo sbugiardare i troppi politici del centro destra, che per oltre vent’anni hanno intrallazzato con colui che oggi designano come il nostro peggior nemico, la cui forza però è dipesa in larga misura dagli aiuti che ha ricevuto da coloro che oggi vogliono tagliare lo stato sociale per difenderci dal loro ex amico.

3 Gli sputinati in L’Espresso n°10 del 06/03/22 pag. 14 e seguenti

8 Anna Politkovskaja La Russia di Putin ed. Apelphi pag. 342

16 I tesori segreti del clan di Putin in L’Espresso n°11 del 20/03/22 pagina 48 e seguenti

Enrico Campolmi

“Riforma della Giustizia. Cosa prevede e con quali conseguenze?”

Il Movimento delle Agende Rosse, Gruppo Rita Atria di Reggio Emilia e Provincia invita la cittadinanza a questo incontro pubblico.

Il 24 febbraio prossimo alle 18.00, presso “L’altro Teatro” di Cadelbosco di Sopra (Galleria Giuseppe Carretti , n.2/a), si terrà un incontro pubblico dal titolo “Riforma della Giustizia. Cosa prevede e con quali conseguenze?”.

L’iniziativa è organizzata dal Movimento Agende Rosse Rita Atria Reggio Emilia in collaborazione col Comune di Cadelbosco di Sopra ed è patrocinata dalla Consulta Provinciale per la Legalità.

All’iniziativa interverranno esperti qualificati quali il magistrato Calogero Gaetano Paci, Procuratore della Repubblica di Reggio Emilia e il magistrato Francesco Maria Caruso, già Presidente dei tribunali di Reggio Emilia e di Bologna nonché del collegio giudicante del processo Aemilia.

La conduzione del dibattito sarà a cura di Paolo Bonacini, giornalista e scrittore, coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico della Consulta sopra citata.Con l’iniziativa del prossimo 24 febbraio,  intendiamo approfondire un tema di grande attualità, che può apparire ostico e distante dalle persone, ma che in realtà impatta fortemente su cittadini/e, sia a livello individuale che collettivo.

Gli autorevoli ospiti ci aiuteranno a capire i contenuti e gli obiettivi della Riforma del sistema Giustizia in atto e gli effetti che ne derivano nella lotta alla criminalità organizzata e comune e nella tutela dei cittadini.

Verranno illustrate in particolare due riforme di questo governo: la cosiddetta “Riforma Nordio”(Legge 9 agosto 2024), che è intervenuta sul codice penale e sulla procedura penale, e la Riforma Costituzionale, che mette al centro la separazione delle carriere e lo sdoppiamento del CSM.

Rispetto ai provvedimenti della Legge Nordio quali l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e lo “svuotamento” di altri reati, ci chiediamo se possano potenziare il controllo di legalità da parte dei magistrati o se invece servano a “spuntare le armi” per combattere certe categorie di reato.

Per non parlare della stretta sulle intercettazioni e dei vincoli posti alla misura cautelare, misure anch’esse su cui nutriamo seri dubbi.

Riteniamo importante, anche alla luce della posizione di netto contrasto assunta dai magistrati rispetto alla riforma costituzionale, alimentare un dibattito pubblico sul merito di questi provvedimenti, che destano molti interrogativi, primo fra tutti: sono davvero utili ad “efficientare” il sistema della giustizia, con effettivi vantaggi per la collettività?

Con il contributo di esperti ci proponiamo di informare e sensibilizzare i cittadini e le cittadine su questi temi, approfondendo contenuti e conseguenze di ogni singolo provvedimento e l’idea di Giustizia che prefigurano nel loro complesso.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare!


Movimento Agende Rosse, Gruppo Rita Atria di Reggio Emilia e Provincia

 

Redazione Italia

Regione Emilia Romagna dice No alla Autonomia differenziata

Il 19 febbraio l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna ha approvato una Risoluzione con la quale impegna la Giunta a “manifestare formalmente il venir meno del consenso della Regione E-R alla prosecuzione di qualunque procedimento attuativo dell’art.116 c. 3 Cost.” e “a comunicare formalmente al Governo la volontà di revocare il proprio consenso all’accordo preliminare in merito all’intesa tra il Governo della Repubblica italiana e le regioni Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia del 28 febbraio 2018”.

È esattamente quello che chiedevano i/le 3000 sottoscrittori/ici in una petizione popolare del 2020 – arbitrariamente mai discussa – e i/le 6000 sottoscrittori/ici di una proposta di legge regionale di iniziativa popolare del 2023, che chiedeva alla regione di recedere dalle preintese firmate dal presidente Bonaccini con il governo Gentiloni nel 2018, che istituzionalizzarono la richiesta dell’ER di ben 16 delle 23 materie disponibili alla potestà legislativa esclusiva regionale; iniziative promosse entrambe dal Comitato emiliano-romagnolo Per il Ritiro di ogni Autonomia Differenziata. Alla Lip è stato fatto esplicito riferimento sia nel dibattito che nella risoluzione approvata.

Una grande vittoria ed una grande soddisfazione per tutte tutti noi; e per questo vogliamo ringraziare e complimentarci vivamente con tutti/e coloro che vi hanno contribuito, con il loro impegno e il lavoro costante sul territorio.

La tenacia e l’abnegazione del Comitato per il ritiro di ogni autonomia differenziata dell’Emilia-Romagna e la risposta della Regione – circostanziata, puntuale, inequivocabile, e dunque degna di una istituzione repubblicana – dimostrano che non tutto è perduto sul fronte del dialogo tra cittadino/a e chi esercita il potere decisionale. Inoltre, che – nonostante la bocciatura da parte della Corte Costituzionale del quesito referendario e la conseguente impossibilità di celebrare un referendum contro l’autonomia differenziata, per il quale erano state raccolte 1 milione 300 mila firme – la nostra lotta deve continuare.  

Attraverso un lavoro inesausto e appassionato di formazione, informazione, vigilanza e mobilitazione – in continuità con un percorso che abbiamo inaugurato più di sei anni fa – auspichiamo e cercheremo di far sì che anche altre Regioni che hanno intrapreso o intendano intraprendere iniziative volte ad acquisire autonomia differenziata abbiano la capacità di ripensare il percorso – i cui limiti sono stati chiaramente inquadrati nelle dichiarazioni della regione Emilia Romagna – interrompendolo, e contribuendo a liquidare definitivamente un’idea di regionalismo egoista, rapace, appropriativo, sordo ai principi di uguaglianza e solidarietà e alla garanzia per tutti/e, e in egual misura, dei diritti sociali e civili.

L’Esecutivo nazionale dei Comitati per il Ritiro di ogni Autonomia differenziata, l’unità della Repubblica,  l’uguaglianza dei diritti

Redazione Romagna

Parte la petizione RimborsaMI: gli utenti ATM chiedono un indennizzo tramite bonus al Comune di Milano

La flessione del servizio di superficie erogato da ATM a Milano è un problema noto. Da mesi occupa le prime pagine dei giornali e di recente è stato confermato anche dal rapporto del Laboratorio di Politica dei Trasporti (Transpol) del Politecnico di Milano che per il periodo 2016-2024 ha documentato una contrazione del 15-20% con punte del 30-50% per alcune linee.

Ma è particolarmente nell’ultimo biennio 2023-2024 che la riduzione delle corse e l’irregolarità dei passaggi dei mezzi di superficie ATM hanno inciso pesantemente sulla qualità della vita e sul portafoglio dei cittadini di Milano e hinterland.
Un disagio evidenziatosi nelle tante iniziative di protesta (assemblee, petizioni e raccolte firme, manifestazioni di piazza) messe in atto da diversi gruppi civici, con l’azione trainante del Comitato Basmetto, del raggruppamento di comitati “La 73 non si tocca” e di “AspettaMI, Milanesi in attesa dei bus”, gruppo Facebook che in 9 mesi ha raccolto tantissime testimonianze fotografiche dei ritardi dei mezzi di superficie ATM ed altri disservizi, pubblicate dagli oltre 4mila membri.

Come si coglie anche dai post nel gruppo AspettaMI, molti utenti ATM sentono di aver diritto ad un indennizzo per il 2023-2024 e ad uno sconto per i disservizi, tagli di corse e frequenze che – per previsione degli stessi manager di ATM e Assessora alla Mobilità del Comune di Milano – caratterizzeranno anche tutto il 2025, mentre ATM e Comune cercano di correre ai ripari sul problema della carenza di autisti e della fuga degli stessi da ATM.

Da qui nasce l’idea del Comitato Basmetto di una petizione al Comune di Milano per ottenere il riconoscimento di un bonus pari al 30% del valore degli abbonamenti mensili e annuali 2023-2024, utilizzabile come sconto sull’acquisto di abbonamenti mensili e annuali nel 2025 e/o 2026.

Sonia Ferrari del Comitato Basmetto spiega: “La nostra petizione è sostenuta da 14 altri comitati e gruppi di quartiere che hanno sottoscritto il testo e ci aiuteranno nella raccolta delle firme: perché il Comune di Milano sia obbligato a darci una risposta formale ne serviranno almeno 1000, un obiettivo che abbiamo già raggiunto con una petizione del 2024”.
“Chiediamo un bonus del valore del 30% degli abbonamenti – continua Sonia Ferrari – perché nel 2023-2024 il servizio di superficie di ATM, tra tagli di linee, salti delle corse e rimodulazioni, è stato stimato come inferiore del 30% rispetto al 2022. L’idea del bonus ha ricevuto il parere favorevole di un’associazione di tutela dei consumatori con la quale ci siamo confrontati anche su possibili azioni legali da intraprendere se la situazione del trasporto di superficie milanese non dovesse tornare a livelli veramente accettabili. Tra l’altro ATM non si è dotata della Carta della qualità dei servizi prevista come obbligatoria dalla legge finanziaria del 2008”.

Per Adriana Berra, fondatrice del gruppo Facebook AspettaMI, “la petizione è un segnale per dire al Comune di Milano e ATM che noi utenti non siamo più disposti a subire e stiamo cominciando a pensare a come far valere i nostri diritti. Ma è anche una proposta conciliante: il bonus è una forma di risarcimento molto ragionevole, rispetto alla class action suggerita da molti cittadini allo sciopero dei biglietti e abbonamenti invocato da tanti altri”.
“Del resto – prosegue Adriana Berra – a noi non interessa pagare zero un servizio scadente, bensì pagare il giusto un servizio che al più presto deve ritornare all’efficienza, alla puntualità e alla capillarità per raggiungere tutti, non lasciare indietro nessuno e far funzionare una città come Milano, dove il trasporto pubblico è essenziale per garantire i servizi ai cittadini”.

La petizione è stata appena pubblicata nella sezione “Milano Partecipa” del sito del Comune di Milano e può essere votata da tutti i residenti a Milano e i “city user” sopra i 16 anni di età entrando con lo SPID o la CieID e seguendo il percorso:
https://partecipazione.comune.milano.it > PETIZIONI > BONUS 30%

I comitati promotori organizzeranno anche la raccolta firme su moduli cartacei. Indicazioni in merito saranno via via disponibili sulle pagine Facebook dei comitati.

Comunicato congiunto del Comitato Basmetto e AspettaMI, Milanesi in attesa dei bus

Milano, 21 febbraio 2025

Redazione Milano

Egitto, giustizia per l’attivista Alaa Abd El Fattah

Da quando c’è Al-Sisi al potere, finire in carcere in Egitto è fin troppo semplice se non si segue la linea dettata dalle autorità. Così, come è successo anche a Patrick Zaki, in prigione è finito Alaa Abd El Fattah, blogger e attivista egiziano-britannico, tra i punti di riferimento delle proteste di piazza Tahrir del 2011.

Negli ultimi 10 anni, Alaa ha fatto dentro e fuori dal carcere per via del suo impegno politico. Nel 2019 è stato nuovamente arrestato, lasciato per due anni in detenzione preventiva e nel 2021 condannato a cinque anni di carcere con l’assurda accusa di terrorismo e diffusione di notizie false. Per protestare contro questa ingiusta detenzione, nel 2022 Alaa ha messo in atto uno sciopero della fame, ma ha dovuto interromperlo quando, a causa del grave stato di deperimento, ha perso i sensi sotto la doccia.

In carcere ha continuato a scrivere e, tramite una rete di editor e giornalisti, i suoi messaggi sono stati raccolti in un libro uscito anche in Italia col titolo “Non siete stati ancora sconfitti”. Per la qualità e i contenuti dei suoi testi è chiamato “il Gramsci d’Egitto”.

Avrebbe dovuto essere rimesso in libertà lo scorso settembre, ma le autorità egiziane non hanno tenuto conto dei due anni passati in detenzione preventiva. Così Alaa si trova ancora in carcere, oltre il tempo dovuto e  senza una colpa.

Da cinque mesi sua mamma Leila è in sciopero della fame per chiedere che suo figlio venga scarcerato il prima possibile e riceva tutte le cure di cui ha bisogno.

 

Unisciti al coro di voci che chiede la libertà per Alaa:

https://www.amnesty.it/appelli/egitto-attivisti-condannati-dal-tribunale-di-emergenza/?utm_source=DEM&utm_medium=Email&utm_campaign=DEM11035

Amnesty International

Rinnovo Contratto Sanità, Nursing Up smaschera chi è pronto a firmare un contratto al ribasso: una scelta che penalizza i lavoratori e favorisce l’immobilismo dell’ARAN

ROMA 21 FEB 2025 – La verità è sotto gli occhi di tutti: mentre noi di Nursing Up continuiamo a batterci per ottenere un contratto che riconosca il giusto valore agli infermieri e alle professioni sanitarie, alcune sigle sindacali si dicono pronte a sottoscrivere un accordo che riteniamo inadeguato, senza i necessari miglioramenti economici, normativi e professionali per i lavoratori.

Alcuni sindacati provano a far ricadere su di noi la responsabilità del mancato rinnovo contrattuale, sostenendo che la nostra posizione blocchi gli aumenti. La realtà, invece, è ben diversa: il contratto in discussione non garantisce un adeguato riconoscimento economico, non prevede reali percorsi di crescita professionale e non migliora le condizioni di lavoro di infermieri, ostetriche e professionisti sanitari. Chi lo accetta, di fatto, avalla una soluzione che non risponde alle esigenze delle categorie.

Un contratto scritto senza un reale confronto con chi rappresenta i lavoratori

Ancora una volta, ARAN e Regioni propongono un contratto che non tiene conto della perdita del potere d’acquisto subita negli ultimi anni. Noi chiediamo una redistribuzione più equa delle risorse stanziate per il rinnovo, e questo l’ARAN non lo dice, e la valorizzazione professionale che spetta agli infermieri e agli altri professionisti della salute.  

Sottoscrivere un contratto senza le necessarie garanzie significa accettare una soluzione al ribasso, senza ottenere il dovuto riconoscimento per chi ogni giorno lavora con professionalità e dedizione in un sistema sanitario sempre più in affanno.

Nessuna imposizione, vogliamo una vera trattativa

È chiaro il tentativo di portare avanti il rinnovo contrattuale con la logica del “prendere o lasciare”, facendo pressione sui sindacati affinché firmino un accordo scritto dai datori di lavoro e che non vogliono. Ma noi di Nursing Up non accettiamo imposizioni: vogliamo un confronto reale, basato su proposte concrete e su un negoziato serio.

Se ARAN avesse davvero voluto chiudere questa partita in modo equo, allora avrebbe dovuto aprire il tavolo a vere trattative, senza convocazioni di facciata. Fino ad allora, continueremo a portare avanti le istanze degli infermieri e delle professioni sanitarie in ogni sede.

Ma se preferisce lo stile provocatorio, puntando il dito “sulla maggioranza che non ha firmato un contratto che non accetta”, allora stia pur certa, che per quanto ci riguarda basterà solo un cenno, e la nostra risposta non tarderà ad arrivare. 

Noi non ci arrendiamo. Noi siamo con gli infermieri, le ostetriche e le altre professioni sanitarie.

UFFICIO STAMPA SINDACATO NURSING UP

Redazione Italia

È finita la battaglia per la libertà di Maysoon Majidi, non quella del popolo Kurdo

Maysoon Majidi prima di tutto è una giovane kurda, poi attivista e regista, fuggita dal regime islamico dell’Iran, uno dei regimi occupanti del Kurdistan, che è stato sacrificato e diviso per la volontà dell’Occidente che nel primo dopoguerra ha modificato la carta geografica e i confini del Medioriente, creando alcuni paesi e sacrificandone altri. Così il Kurdistan è stato diviso tra Iraq, Iran, Turchia e Siria e in seguito il popolo kurdo è stato sempre perseguitato. Per questo ha dovuto scegliere tra rimanere sottomesso o combattere, scegliendo di combattere; da quel momento sono iniziate la resistenza e la lotta del popolo kurdo e in un secolo i Kurdi sono stati attaccati anche con armi chimiche, uccisi in massa subendo un genocidio.

Ancora oggi quando si parla di bombardamento chimico e di genocidio, l’attenzione si rivolge subito e giustamente, a Hiroshima e alla Shoah; purtroppo la storia drammatica e la sofferenza dei Kurdi, come di altri popoli che hanno subìto genocidi negli ultimi anni, sono sistematicamente dimenticate, nel silenzio assordante delle istituzioni e dell’opinione pubblica. I Kurdi hanno vissuto la crudeltà di tutti i regimi che hanno governato e governano tuttora il Kurdistan. In Turchia ci chiamano i “turchi della montagna”, in Siria non abbiamo neanche il diritto di avere i documenti di identità, in Iraq non potevamo avere posti di lavoro se non eravamo del partito del Al-Bath, ci hanno mandato via dalle nostre case e hanno trasferito al nostro posto gli arabi per cambiare la demografia delle città kurde; in Iran eravamo considerati inesistenti: chi uccide un kurdo andrà in paradiso (fatwa di Khomeyni durante la preghiera del venerdì). In nessuno di questi stati occupanti si può parlare il kurdo, a differenza della Regione del Kurdistan autonomo in Iraq, regione federale dal 1990 dopo la guerra del Golfo, quando la lingua kurda è diventata la seconda lingua ufficiale del paese, ma ciò non vuol dire che sia tutto rose e fiori.

Il popolo kurdo, circa 40 milioni di persone, ancora oggi viene definito’ minoranza’ ed è senza una nazione. I diritti dei Kurdi sono calpestati da tutti e anche da coloro che si definiscono difensori dei diritti umani e dei valori di giustizia, che siano politici, giornalisti o attivisti. Per tornare al caso di attualità di Maysoon Majidi, tutti i media parlano in nome della difesa della libertà e dei diritti, ed invece sono i primi che li calpestano, senza che se ne rendano conto; infatti generalizzano il suo caso riferendosi alla norma del velo obbligatorio e alle leggi repressive per le donne in Iran. Riporto anche come esempio la vicenda della giovane kurda Jina Amini (che è stata la scintilla per accendere la rivoluzione “Jin Jyan Azadi” in Iran), che ancora oggi spesso viene chiamata “Mahsa”, il nome che le è stato dato dal regime per obbligo, perché i kurdi non possono avere o essere registrati con il nome kurdo. Nominarla come Mahsa rappresenta la negazione dei diritti della persona “Jina” e del popolo kurdo.

Quando si parla del regime islamico dell’Iran, della politica religiosa nel dominio assoluto, sia l’Occidente che gli stessi cittadini iraniani parlano di repressione nei quaranta anni di potere, che ha reso obbligatorio l’uso del foulard e ha limitato i diritti delle donne. Questo è vero fino a certo punto, perché democrazia e giustizia non c’erano nemmeno durante i regimi precedenti: è vero che lo shah, il sovrano di Persia, l’amico dell’Occidente, non obbligava l’uso del foulard, però non c’erano la democrazia, le libertà fondamentali e il rispetto dei diritti della persona; i kurdi erano sempre perseguitati. Ricordiamo che il carcere di Evrin era stato costruito per i kurdi, per i comunisti e per altri popoli (minoranze) oppositori in Iran. Oggi ad Evrin, dove è stata detenuta Cecilia Sala, si trovano anche tanti iraniani. I Kurdi, quindi, subiscono ingiustizia e repressione sin da quando il Kurdistan è stato smembrato, operazione che ha fatto sì che fuggissero e si rifugiassero in Europa e nel mondo.

Quindi Maysoon Majidi era ed è una dei milioni di Kurdi che si sono allontanati per salvarsi la vita e per avere la libertà; anche lei è dovuta scappare in Europa perché non ha trovato la sicurezza nemmeno in quella parte del Paese che oggi viene chiamato “Regione del Kurdistan autonomo in Iraq”, dove Maysoon si era recata per poter continuare la sua lotta e dove ha subìto gravi minacce. E’ scappata da un regime criminale e finita in un carcere italiano perché considerata ingiustamente scafista; in un paese libero invece di trovare la libertà “è caduta dalla bocca del lupo e finita nella bocca del leone”, come dice un proverbio kurdo.

Però non abbiamo mai perso la fiducia nella giustizia italiana. Maysoon da donna kurda ed attivista ha resistito e ha cercato di difendersi per avere la giustizia che non ha avuto in patria, con l’aiuto di tante persone, associazioni e anche di alcuni politici che le sono stati vicini. Ed è stata finalmente assolta!
Quello che importa sottolineare è che durante tutta l’assurda vicenda, ma anche dopo, Maysoon e il popolo kurdo continuano a subire ingiustizie e negazione dei diritti senza che vi sia alcuna attenzione dei media; c’è stato chi ha cercato purtroppo di strumentalizzare la vicenda di Maysoon per motivi politici e partitici.

E’ vero, tanti hanno difeso Maysoon ma allo stesso tempo tanti continuano a non riconoscere la sua identità di persona: alcuni giornali noti, conduttori televisivi che l’hanno intervistata e politici di chiara fama ancora oggi scrivono “ Maysoon, attivista iraniana, attivista kurda iraniana”, anzichè scrivere ‘attivista kurda’, punto e basta, o ‘attivista del Kurdistan occupato dall’Iran’, oppure ‘attivista di Rojhalat’; in questo modo, anche per ignoranza, negano l’identità e i diritti del popolo kurdo.
Ecco perché, tristemente, la storia del popolo kurdo è “la storia di uno Stato mai nato”.

Gulala Salih, donna Kurda, scrittrice e presidente di UDIK “ Unione donne Italiane e kurde”

Unione Donne Italiane e Kurde (UDIK)

Incontro Mattarella – Herzog: diritto internazionale à la carte

Assopace Palestina afferma la sua indignazione e sconcerto alla calorosa accoglienza riservata ieri dal nostro Presidente della Repubblica Mattarella al Presidente israeliano Herzog, nel corso del secondo incontro ufficiale dall’inizio delle operazioni militari contro Gaza e Cisgiordania.

Il nostro Presidente della Repubblica, a nome di tutti gli italiani, ha affermato che “La sua presenza a Roma è un onore per la Repubblica italiana”, passando poi a parlare esclusivamente dell’impegno dell’Italia contro l’antisemitismo che, a suo dire, sarebbe aumentato, ma non ha espresso neanche una parola sulla situazione nei territori palestinesi e sul piano di deportazione e pulizia etnica della Palestina in primo luogo dei Gazawi, nemmeno una parola di dolore e di vicinanza alla popolazione palestinese cosi colpita dall’aggressione israeliana.

Ci preme ricordare che Herzog è colui che, il 12 ottobre 2023, dichiarò “è un’intera nazione là fuori che è responsabile. Questa retorica sui civili non consapevoli, che non sono coinvolti, non è assolutamente vera. Avrebbero potuto insorgere, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio […] noi combatteremo fino a quando non spezzeremo loro la spina dorsale.”; è colui che si è fatto ritrarre in foto mentre scriveva “mi affido a te” sui missili destinati a colpire qualche casa, ospedale, scuola o tendopoli di Gaza; è colui che ha attaccato l’Onu, la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale di “bancarotta morale” perché hanno osato condannare i numerosi crimini compiuti contro la popolazione inerme di Gaza. E ricordiamo, infine, che le dichiarazioni di Herzog sono state allegate al fascicolo presentato all’Aja come una delle prove dell’intenzionalità di colpire i civili e quindi dell’avvenuto genocidio.

Ebbene, ci chiediamo quale dissonanza cognitiva abbia portato il nostro Presidente della Repubblica a ricordare e difendere giustamente il diritto internazionale quando si è trattato di criticare la Russia, e dimenticarsene completamente quando ha accolto a braccia aperte il presidente di uno stato accusato di genocidio presso la più alta Corte di diritto internazionale.

Chiediamo al nostro Presidente di dichiarare la sua vicinanza e il suo dolore per l’ingiustizia e le sofferenze subite del popolo palestinese e la necessità di riconoscere lo Stato Palestinese.

Ricordiamo, infine, che mentre si reitera la linea dei due popoli e due stati sempre ieri, nel frattempo il Senato della Repubblica respingeva una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina, promossa dal m5s e sostenuta da AVS e PD, ma bocciata a causa dei voti contrari di 80 senatori di tutti gli altri schieramenti. Un’altra pagina triste della nostra politica.

Luisa Morgantini – Presidente di Assopace Palestina
luisamorgantini@gmail.com , assopacepalestina@gmail.com
tel +39 348 392 1465

Assopace Palestina

 A Chioggia ieri un altro morto in un cantiere

Spezziamo l’infernale catena degli omicidi sul lavoro
La mattina del 21 febbraio a Chioggia un altro giovane è morto sul lavoro: un giovane di 25 anni, in un cantiere edile. Impossibile non ricordare Mattia Battistetti. Anche ieri eravamo in tante e tanti al tribunale di Treviso per chiudere verità e giustizia per Mattia, per fermare questa catena insopportabile di morti sul lavoro.

Morire sul lavoro non è mai una fatalità, le cause sono note, sono la mancanza di controlli, in numero risibile rispetto alle necessità reali, la corsa al profitto, la precarietà e il sistema degli appalti e dei subappalti sempre improntati al ribasso dei costi.

Anche per questo, come abbiamo ribadito ieri davanti al tribunale di Treviso, noi sosteniamo con il massimo impegno i referendum promossi dalla CGIL perché si voti SI’ all’abrogazione delle norme che rendono il lavoro, precario, sottopagato, insicuro. Torniamo a chiedere l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro perché è inaccettabile l’impunità che protegge chi mette a rischio la vita di lavoratori.

Mentre rivolgiamo alla famiglia del giovane che ha perso la vita sul lavoro a Chioggia tutto il nostro cordoglio e vicinanza, pronti a sostenere ogni mobilitazione necessaria per avere verità e giustizia, non possiamo non ribadire il nostro impegno di sempre nella battaglia contro la strage nei luoghi di lavoro.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale e Paolo Benvegnù, segretario regionale Veneto del Partito della Rifondazione Comunista

Rifondazione Comunista - Sinistra Europea