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Politica

“Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo” – Dal 26 febbraio su Sky Documentaries e in streaming solo su NOW

Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo è un documentario Sky Original in due parti, prodotto da Sky e Palomar in associazione con Sky Studios in esclusiva dal 26 febbraio alle 21.15 su Sky Documentaries e in streaming solo su NOW. La docuserie di e con Roberto Saviano, racconta di un uomo che cambia pelle, sapendo restare straordinariamente fedele a sé stesso, e di 30 anni di indagini per far riemergere la verità sul suo omicidio.

Con soggetto e sceneggiatura di Roberto Saviano e Stefano Piedimonte e la regia di Giovanni Troilo, il documentario è un viaggio intorno a una figura straordinaria, capace di trasformarsi in tante vite diverse attraversando epoche e forme di lotta differenti, col suo carisma e il suo bisogno di cambiare senza però smettere di obbedire allo stesso principio guida: il costante desiderio di curare sé stesso e il mondo.

Una storia che culmina col suo omicidio politico, i depistaggi e gli anni di ricerche che sono stati necessari per ottenere verità e giustizia, nel labirinto di incompetenze e occultamento delle prove.

Rostagno rappresenta uno spaccato della storia italiana per 20 anni, dal 1968 al 1988, attraversando le lotte giovanili del 1968, l’esperienza ai vertici di Lotta Continua, la fondazione del centro sociale milanese per l’attivismo politico e l’espressione creativa Macondo, l’appartenenza all’ashram di Osho a Pune, la creazione del suo ashram siciliano trasformato in centro di riabilitazione per tossicodipendenti, Samaan. Ha sempre fatto parte di qualcosa, senza mai essere inghiottito ed etichettato, senza perdere la sua originalità. Rostagno, in tutte le sue vite, è sempre stato un personaggio scomodo, perché ha gridato a piena voce le sue convinzioni, approdando perfino a RTC, una piccola televisione locale, reinventandosi giornalista e denunciando le collusioni tra mafia e politica locale. Dopo l’omicidio di Rostagno, avvenuto il 26 settembre 1988, le indagini hanno preso mille direzioni diverse.

Un lungo, doloroso ed estenuante slalom prima di accertare la verità: ad uccidere Mauro è stata la mafia, su cui Rostagno stava caparbiamente indagando, contro cui stava lottando con la sua ironia feroce e la sua intelligenza infaticabile.

Redazione Italia

La Germania al voto

Alla vigilia di uno degli appuntamenti elettorali più importanti nella storia della Repubblica Federale tedesca, il discorso del vice-presidente degli Stati Uniti James D. Vance alla conferenza sulla sicurezza di Monaco ha contribuito a rendere il clima pre-elettorale ancora più teso. Le reazioni al discorso del vice-presidente – un’esplicita legittimazione della AfD, seguita dall’incontro con la leader del partito e candidata cancelliera Alice Weidel – non si sono fatte attendere. Olaf Scholz, cancelliere uscente e candidato socialdemocratico della SPD, ha rigettato le interferenze nella politica interna tedesca. Lo stesso Merz si è dichiarato irritato, anche se non sorpreso, dall’intervento di Vance, ampiamente preannunciato da un’intervista al Wall Street Journal nella quale il vice presidente esortava i partiti tedeschi a rompere il cordone sanitario e a collaborare con la AfD.

Il ricompattamento sulla protezione dalle ingerenze esterne, però, è durato poco. Il dibattito televisivo tra i quattro candidati cancellieri dei partiti più rilevanti – Olaf Scholz, SPD; Friedrich Merz, CDU/CSU; Robert Habeck, Verdi; Alice Weidel, AfD – ha riproposto un quadro ormai delineato da settimane. A dispetto della grave recessione economica e della perdita della Repubblica federale tedesca di quel ruolo chiave nelle relazioni internazionali che i sedici anni di cancelleria Merkel le avevano consegnato, il tema centrale della campagna elettorale è la lotta alla migrazione illegale e la crescente insicurezza percepita dai cittadini tedeschi. A contribuire a questo stato di cose sono tre principali fattori.

Il primo è la progressiva crescita di rilevanza della AfD. Il partito di destra radicale populista ha saputo, nel corso di poco più di un decennio di vita, differenziare la sua piattaforma programmatica, rispondendo e dando forma alle inquietudini di un elettorato ormai disilluso da formule politiche – dalla Grande Coalizione CDU/CSU-SPD alla attuale “coalizione semaforo” tra SPD, Verdi e Liberali – percepite come incapaci di affrontare i grandi nodi di una società, oltre che di una democrazia, in profondo cambiamento.

La formula vincente della AfD è attualmente composta, oltre che dalla richiesta di re-migrazione delle persone entrate illegalmente in Germania, qualsiasi sia il loro status, da una rigida avversione contro le politiche del Green Deal, dalla lotta senza quartiere all’ideologia di genere, e dalla richiesta di potenziamento dell’ambito d’azione e del ruolo delle forze dell’ordine. A fare da sfondo a queste tematiche – tipiche del populismo di destra in Europa e non solo – è una retorica che sul piano economico è capace di coniugare gli endorsement del plurimiliardario Elon Musk con l’immagine idealizzata evocata da Alice Weidel del ritorno degli operai alla catena di montaggio per la produzione di macchine con motore a combustione.

La contrapposizione tra la vituperata “isteria verde” rappresentata dalla produzione delle auto-elettriche come simbolo delle politiche per l’abbattimento delle emissioni inquinanti e il ritorno alla produzione del prodotto simbolo della Germania “locomotiva d’Europa” ci dice molto della difficoltà di AfD di proporre un piano di azione convincente che sia in grado di affrontare la grave crisi economica della Germania.

Si tratta però di una difficoltà che il partito non ha mai dovuto affrontare, essendole preclusa la partecipazione ai governi a livello regionale e federale, per via dell’accordo sul mantenimento del cordone sanitario nei confronti di un partito ciclicamente attenzionato dall’organo di protezione costituzionale, che sorveglia le derive estremiste della AfD, soprattutto nella sua componente organizzativa dei Länder orientali.

Il secondo fattore che ha contribuito a fare della migrazione il tema principe della campagna elettorale è stato proprio il comportamento strategico del leader e candidato cancelliere della CDU-CSU, Friedrich Merz. Espressione del mondo economico e della finanza, avversato da Angela Merkel, Merz è riuscito a conquistare la segreteria del partito dopo la disastrosa performance dei cristiano-democratici alle elezioni federali del 2021.

Distante sideralmente da Angela Merkel, colpevole a suo dire di aver spostato il partito su posizioni eccessivamente centriste e di aver contribuito alla polarizzazione sul tema dell’immigrazione con la nota decisione di permettere l’ingresso a più di un milione di rifugiati tra il 2015 e il 2016, Merz ha aspettato pazientemente lo sgretolamento della debole alleanza semaforo, lanciando i propri strali di volta in volta contro il Cancelliere Scholz, e contro i Verdi, che con il ministro dell’economia Robert Habeck, avrebbero condotto a una grave deindustrializzazione dell’economia tedesca.

Il ruolo di opposizione e la riconquista di una posizione spostata a destra rispetto al baricentro centrista di Angela Merkel hanno premiato la candidatura di Merz e la percezione della CDU/CSU, stabilmente rappresentata dai sondaggi di opinione fin dalle settimane precedenti all’avvio della campagna elettorale come primo partito con circa il 30% delle intenzioni di voto.

A spiegare l’azzardo del passaggio di una risoluzione parlamentare sulla restrizione della migrazione con il sostegno e i voti di CDU/CSU e AfD è stata la inarrestabile drammatizzazione del tema della sicurezza dopo i fatti violenti della città di Aschaffenburg, dove il 22 gennaio un uomo e un bambino sono stati feriti a morte da un cittadino afghano già raggiunto da un decreto di espulsione. Il tragico fatto, preceduto dall’attacco al mercatino di Natale di Magdeburgo e seguito, come sappiamo, dall’attentato di Monaco del 13 febbraio, ha convinto Merz della necessità di presentare il proprio partito come campione dell’intransigenza contro l’immigrazione illegale.

La votazione della risoluzione della CDU-CSU con il sostegno della AfD è stata molto commentata. A essere meno commentato, invece, è stato il fatto che nel corso del tesissimo dibattito parlamentare siano state discusse altre due risoluzioni. Una della AfD che è stata respinta da tutti i gruppi parlamentari, con l’astensione del nuovo partito populista di sinistra Bündnis Sahra Wagenknecht (Alleanza Sahra Wagenknecht) e una dai liberali della FDP, per la quale ha votato anche il gruppo BSW e sulla quale AfD si è astenuta. Come sappiamo, la AfD ha poi spostato i propri voti sulla proposta di risoluzione presentata dalla CDU-CSU, determinandone l’approvazione.

La lettura delle tre proposte restituisce un’immagine nitida della convergenza di quattro partiti (Afd; CDU-CSU; FDP; BSW) su proposte di severa limitazione alle politiche migratorie della Germania, con differenze che non hanno impedito convergenze inedite tra gruppi parlamentari anche molto distanti tra loro.

Il terzo fattore è il tentativo di combattere il populismo con il populismo, non solo attraverso lo spostamento a destra della CDU/CSU. La centralità del tema dell’immigrazione è lo specchio della mancanza di alternative a un sentimento diffuso di sfiducia nelle classi politiche, ritenute prive di una iniziativa politica trasformativa, sia in politica interna che in politica estera e nelle relazioni internazionali.

La nascita del partito personale di Sahra Wagenknecht, che combina posizioni anti-establishment, proposte di limitazione dell’immigrazione, cessazione dei conflitti internazionali con una posizione ambigua sulla Russia di Putin, trova su questi temi un terreno comune – almeno di massima – con AfD, dalla quale però si differenzia sul piano delle proposte economiche. A creare un nuovo terreno di convergenza con AfD è ancora una volta la critica alla deindustrializzazione della Germania e la richiesta di BSW di permettere l’importazione di energia “secondo il criterio del prezzo più basso”. Un chiaro riferimento al gas russo.

I sondaggi pre-elettorali delle ultime settimane mostrano una certa stabilità. La CDU/CSU – attualmente data attorno al 29-30% – sembra non aver perduto né guadagnato dalla strategia di avvicinamento alla AfD, subito corretta da Merz che ha più volte ribadito di non contemplare la possibilità di alleanze elettorali con il partito di Alice Weidel. Le manifestazioni di massa in molte città tedesche contro il rischio di virate anti-democratiche del sistema politico tedesco non sembrano aver avvantaggiato né la SPD né i Verdi, ancorati rispettivamente al 15% e al 13%. BSW, i liberali della FDP e la Linke sono ancora in bilico sul superamento della soglia di rappresentanza del 5%.

Dei tre partiti è però la Linke la formazione che, nelle ultime settimane, sta registrando un notevole aumento di gradimento, testimoniato anche da una mobilitazione elettorale che fa perno sui temi della giustizia sociale attraverso la forza comunicativa e l’uso professionale dei social media della giovane deputata del Land orientale della Sassonia Anhlat Heidi Reichinnek.

C’è da chiedersi se l’abbandono di Sahra Wagenknecht abbia costituito per la Linke un sollievo dagli eccessi di personalizzazione e di populismo della carismatica politica. In questo scenario di strategie comunicative improntate al populismo, sembra essere questo l’unico segnale di inversione di rotta. I risultati di domenica 23 febbraio diranno il resto.

Giorgia Bulli  sul sito di “Volere la luna”

La Germania al voto tra populismo e crescita della destra radicale 

Redazione Italia

Il Ruanda alimenta la guerra in Congo

Il sostegno tedesco al Ruanda viene accolto con proteste a causa della guerra del Paese nel Congo orientale. In pratica, un accordo dell’UE sulle materie prime con il Ruanda favorisce anche l’importazione in Germania di “minerali insanguinati” rubati nel Congo orientale.

Decenni di sostegno al Ruanda da parte della Germania e dell’UE stanno suscitando sempre più proteste per il ruolo assunto dalla Repubblica federale tedesca nella guerra nel Congo orientale. Per decenni, il governo ruandese di Kigali ha sostenuto ogni tipo di milizia nelle vicine province del Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, che saccheggia le materie prime su larga scala e le contrabbanda in Ruanda. Kigali ne ricava miliardi, mentre le milizie del Congo orientale continuano la guerra. Negli ultimi mesi e settimane, la milizia M23 (Movimento 23 Marzo di etnia tutsi N.d.T) ha conquistato ampie zone delle province del Kivu con il sostegno diretto in prima linea dei soldati delle forze armate ruandesi causando l’attuale fuga di tantissimi congolesi.

La Germania collabora da tempo a stretto contatto con il Ruanda, ex colonia del Reich tedesco, Paese che assunto ultimamente una certa rilevanza per Berlino anche come luogo di esternalizzazione delle domande di asilo in zone remote del mondo. Inoltre, l’anno scorso, l’UE ha concluso un accordo con Kigali che prevede la fornitura di materie prime fondamentali. Gli osservatori ipotizzano che grazie a questo accordo anche i “minerali insanguinati” provenienti dalla guerra nel Congo orientale raggiungeranno l’Europa.

L’interesse per il Ruanda

La Germania, insieme ad altri Paesi occidentali e all’Unione Europea collabora da anni con il Ruanda, considerando il suo passato da ex colonia dell’Impero tedesco dal 1884 al 1916. Berlino versa a Kigali ingenti somme dal suo bilancio per lo sviluppo; di recente, nell’ottobre 2022, ha promesso una somma di 93,6 milioni di euro per un periodo di tre anni, due terzi dei quali sono stati destinati alla cosiddetta “cooperazione finanziaria” per la promozione degli investimenti [1]. Il Ruanda è uno dei Paesi che la Germania ha incluso nel progetto Compact with Africa, che mira a migliorare le condizioni quadro per gli investimenti stranieri nei Paesi africani partecipanti. Inoltre, a Kigali è stato istituito un Business Desk tedesco per la promozione degli investimenti.

Inoltre, nel 2019 il Ministero federale tedesco per la cooperazione e lo sviluppo economico ha inaugurato un centro digitale che, secondo le informazioni ufficiali, è destinato a “fare da ponte” tra le aziende e gli istituti di ricerca tedeschi e ruandesi [2]. Volkswagen ha uno stabilimento a Kigali dal 2018 e anche il produttore tedesco di vaccini BioNTech vi è rappresentato dal 2023. Il Ruanda è ovviamente noto in Europa soprattutto come potenziale partner di cooperazione per i piani di trasferimento dei richiedenti asilo in Paesi lontani; l’opzione è stata presa in considerazione anche a Berlino [3].

Fornitore di materie prime

Tuttavia, il Ruanda riveste un’importanza cruciale come fornitore di materie prime. Da decenni gli osservatori sottolineano che il Paese esporta quantità significativamente superiori a quelle prodotte sul proprio territorio. Gran parte delle esportazioni di materie prime del Ruanda provengono proprio dalle zone limitrofe della Repubblica Democratica del Congo, in particolare dalle province congolesi orientali del Nord e del Sud Kivu, che ne sono estremamente ricche. Dall’inizio della grande guerra nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo nel 1996, Kigali ha sostenuto le milizie, in particolare nel Nord Kivu, che trasportano illegalmente una parte significativa delle risorse minerarie attraverso il confine con il Ruanda. Ciò significa che Kinshasa sta perdendo ingenti somme di denaro; nel 2023, il ministro delle Finanze della RDC, Nicolas Kazadi, ha stimato l’importo in un miliardo di dollari USA all’anno [4].

In questo contesto appare evidente che il ruolo delle milizie sostenute dal Ruanda è quello di assicurare il proseguimento della guerra nel Congo orientale – sponsorizzata da Kigali. Due decenni fa, le organizzazioni per i diritti umani hanno richiamato l’attenzione sulle conseguenze del coltan – il minerale, utilizzato ad esempio per la produzione di telefoni cellulari- che viene estratto nel Nord Kivu, spesso nelle peggiori condizioni di lavoro, contrabbandato in Ruanda e da lì esportato. Kigali incassa i profitti, mentre nel Congo orientale permangono guerra e miseria.

Minerali insanguinati

Anni di campagne contro l’approvvigionamento di “minerali insanguinati” dal Congo orientale attraverso il Ruanda sono semplicemente fallite perché gli Stati occidentali – ben riforniti di materie prime – collaborano strettamente con Kigali, coprendo così efficacemente il contrabbando e la furia delle milizie sostenute dal Ruanda nel Congo orientale. Nel febbraio dello scorso anno, l’UE ha persino concluso un memorandum d’intesa con il governo ruandese, che prevede una stretta cooperazione nell’estrazione e nella lavorazione delle risorse naturali. L’attenzione è rivolta alle cosiddette materie prime critiche, indispensabili per le tecnologie della transizione energetica. La Commissione UE sottolinea esplicitamente che il Ruanda esporta quantità particolarmente elevate di tantalio [5], estratto tra l’altro dal coltan. Le organizzazioni per i diritti umani avvertono che c’è un alto rischio di ingresso nell’UE di “minerali insanguinati” sulla base del Memorandum d’intesa [6]. Sebbene Bruxelles sostenga di avere meccanismi di controllo per garantire che questo non si verifichi, gli esperti denunciano che tali meccanismi siano stati a lungo aggirati con ogni tipo di mezzo nel contrabbando quotidiano dal Congo orientale al Ruanda, rendendoli sostanzialmente inefficaci.

Guerra di conquista

Nel 2021, il Ruanda ha riattivato la milizia M23, fondata originariamente nel 2012, per assicurarsi l’accesso alle materie prime del Congo orientale. Nel 2022, gli esperti delle Nazioni Unite hanno dichiarato di avere le prove che l’M23 non solo disponeva di armi insolitamente moderne, ma era anche sostenuto da truppe delle forze armate ruandesi direttamente sul territorio della RDC. Con il loro aiuto, l’M23 ha preso il controllo di aree in crescita, compresi nuovi depositi di materie prime. Questo è continuato anche dopo la conclusione formale di un cessate il fuoco tra la RDC e il Ruanda nel luglio 2024. Inoltre, secondo gli esperti delle Nazioni Unite all’inizio del 2025 nel Nord Kivu sono stati dispiegati da 3.000 a 4.000 soldati delle forze armate ufficiali ruandesi e si ritiene che siano state coinvolte anche nell’offensiva della milizia dell’M23 [7]. Alla fine di gennaio, queste forze sono riuscite a conquistare insieme la capitale del Nord Kivu, Goma. Dopo un breve cessate il fuoco, le milizie hanno continuato i loro attacchi martedì [8] e da allora innumerevoli persone hanno perso la vita. La scorsa settimana è stato riferito che più di 2.000 persone sono state bruciate a Goma dopo l’invasione dell’M23. Secondo l’UNHCR, il numero di rifugiati costretti a vivere nelle province del Kivu, in particolare in condizioni di estrema miseria, si avvicina a cinque milioni [9].

Il corridoio verde

L’offensiva del Ruanda e l’occupazione di gran parte delle province del Kivu avvengono in un momento in cui la RDC sta offrendo all’UE la possibilità di cooperare per le riserve di materie prime del Congo orientale, come sottolinea Kambale Musavuli del Centro di ricerca sul Congo-Kinshasa. In occasione del World Economic Forum di quest’anno (20-24 gennaio) a Davos, il presidente della RDC, Félix Tshisekedi, ha promosso la sua nuova iniziativa del corridoio verde [10], che prevede numerose misure di sviluppo in un’enorme striscia di terra lungo il fiume Congo, che vanno dalla produzione di energie rinnovabili alla promozione dell’agricoltura e alla creazione di infrastrutture di trasporto. Il corridoio verde è un progetto a lungo termine destinato a collegare le province orientali congolesi del Kivu con la capitale Kinshasa [11].

Come riferisce Kambale Musavuli, il corridoio è in grado di competere con la tradizionale rotta di trasporto e contrabbando che dalle province del Kivu conduce in Kenya attraverso il Ruanda e l’Uganda. La Commissione europea ha recentemente confermato di voler sostenere la creazione del corridoio verde – e la relativa costruzione di infrastrutture di trasporto [12]. In definitiva, attraverso questo corridoio si potrebbero trasportare fino a un milione di tonnellate di prodotti agricoli dalle province del Kivu a Kinshasa ogni anno, materie prime comprese.

La protesta

Nel frattempo si stanno moltiplicando le proteste contro la guerra nelle province del Kivu, contro l’occupazione di ampie zone della regione da parte delle milizie dell’M23 e delle truppe ruandesi e contro l’approvazione delle azioni omicide da parte degli Stati occidentali. Alla fine di gennaio, manifestanti infuriati a Kinshasa hanno attaccato le ambasciate del Ruanda, degli Stati Uniti, della Francia e del Belgio, tra gli altri [13]. Da allora si sono svolte proteste anche in altre città della RDC e anche in Germania gli attivisti contestano l’approvazione implicita della Germania della guerra ruandese nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo.

Fonti

  • [1], [2] Ruanda. bmz.de.
  • [3] Judith Kohlenberger: Das Ruanda-Modell ist gescheitert – das sollte man endlich auch in Berlin verstehen. spiegel.de 17.07.2024. Vedi anche Die “Option Ruanda”.
  • [4] Lorraine Mallinder: ‘Blood minerals’: What are the hidden costs of the EU-Rwanda supply deal? aljazeera.com 02.05.2024.
  • [5] EU and Rwanda sign a Memorandum of Understanding on Sustainable Raw Materials Value Chains. ec.europa.eu 19.02.2024.
  • [6] Lorraine Mallinder: ‘Blood minerals’: What are the hidden costs of the EU-Rwanda supply deal? aljazeera.com 02.05.2024.
  • [7] Romain Chanson: RDC, Rwanda et M23 : ce que contient le dernier rapport de l’ONU. jeuneafrique.com 08.01.2025.
  • [8] Amid DR Congo ceasefire, Goma residents race to bury 2,000 bodies. aljazeera.com 05.02.2025. Rwanda-backed M23 fighters resume attacks in DR Congo after two-day pause. aljazeera.com 11.02.2025.
  • [9] UNHCR gravely concerned by worsening violence and humanitarian crisis in eastern DR Congo. unhcr.org 24.01.2025.
  • [10] Kambale Musavuli: Congolese General Cirimwami assassinated in North Kivu, escalating the region’s crisis. peoplesdispatch.org 25.01.2025.
  • [11] Gill Einhorn, Emmanuel de Merode: The Democratic Republic of Congo to create the Earth’s largest protected tropical forest reserve. weforum.org 22.01.2025.
  • [12] Global Gateway: A Green Corridor preserving the last lungs of the earth through green economic growth. international-partnerships.ec.europa.eu 22.01.2025.
  • [13] Protesters attack French, US, Rwandan embassies in DRC. aljazeera.com 28.01.2025.

Traduzione dal tedesco di Maria Sartori. Revisione di Barbara Segato

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 3° parte

Eccoci alla terza e ultima parte dell’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i tragici fatti del Sud America, Aurora arriva in Europa, prima in Svezia e successivamente in Italia…

Arrivi in Italia nel 1976, quindi. Come te la sei cavata?

All’inizio, grazie a delle donne legate a padre David Maria Turoldo, trovai due case dove potevo andare a fare i lavori domestici. Poi, attraverso la mia attività col sindacato uruguaiano, trovai lavoro alla CGIL, dove ho lavorato per molti anni. In seguito ho trovato un impiego presso la Provincia di Milano, fino al 2015.

Veniamo a tutto quello che facesti in Italia per l’Uruguay

Fin dall’inizio girai tanto, anche per l’Europa, a raccontare, denunciare, quello che avveniva nel mio Paese. Facevo parte di un Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dell’Uruguay. Mi mossi anche molto con i compagni del partito comunista uruguaiano che erano in Italia, ma sempre sul piano della solidarietà. Grazie anche a Tucci, mio secondo marito, che è ancora qui con me ho potuto fare tutto questo, benchè con due figlie.

Nel frattempo scoprimmo che in Italia esisteva questo articolo 8 del Codice penale, per noi importantissimo, che dice che OVUNQUE succeda qualcosa ad un cittadino italiano, la giustizia italiana deve intervenire. Quindi noi, sull’onda del processo alla Esma (famoso luogo di tortura in Argentina) cominciammo a muoverci. Nel frattempo, il giudice Garzon in Spagna aveva chiesto il rimpatrio di Pinochet: qualcosa si stava muovendo. Così insieme ad altre quattro donne uruguaiane, ma con figli o mariti italiani, andammo alla procura di Roma. Li conoscemmo Giancarlo Capaldo, che era il Pubblico Ministero, e raccontammo le nostre storie. Lui stava già seguendo le vicende di altri cittadini italiani provenienti dal Cile e dall’Argentina, che avevano denunciato i militari dei loro Paesi. Capaldo, seguendo queste vicende (che avevano fra l’altro come centro principale Buenos Aires, dove avvenivano cose tremende) ebbe l’intuizione di mettere insieme queste storie. Ringrazierò quest’uomo tutta la vita.

Da destra: i PM Giancarlo Capaldo e Tiziana Cuggini, oltre gli avvocati dell’accusa

Avevamo iniziato a parlare di cosa fosse il Plan Condor negli anni ‘80: un piano strategico per eliminare gli oppositori alle dittature. La grandissima mano che ci permise di conoscere bene il Plan Condor ce la diede un uomo straordinario, paraguaiano, che abbiamo perso alcuni mesi fa: il professor Martin Almada. Ci raccontò che durante la sua prigionia in Paraguay aveva incontrato un militare (uno dei pochi militari oppositori del regime) che gli disse dove avrebbe potuto trovare tutta la documentazione su quello che si stava facendo in alcuni Paesi latinoamericani. Il Plan Condor dava la possibilità alle polizie dei vari paesi dell’area di perseguire ovunque nel Cono Sur i propri oppositori. In effetti una volta uno dei vertici militari aveva detto: “La sinistra non vuole le frontiere? Anche noi non le vogliamo!”.
Venne così trovato ad Asuncion, in Paraguay, quello che si è chiamato l’archivio del terrore, dove si poteva leggere tutto. Era un piano sottoscritto in Cile da tutte le dittature del semicontinente.

Come andò il processo che metteste in piedi con Capaldo?

La giustizia italiana ci ha messo molto tempo, ma era normale, ci voleva molto tempo per avere i documenti da quei Paesi, fare le traduzioni, superare gli intoppi burocratici sia qui in Italia che lì, e poi si fecero molti viaggi in Sud America. Ci volle tempo, fatica, costanza. Capaldo raccolse moltissime dichiarazioni. Volle sentire giornalisti, esperti, storici, i testimoni furono circa 140. Alla fine, Capaldo sentì che aveva ricostruito tutto il quadro, andò davanti al giudice e venne riconosciuto che questo era un processo da farsi. Dal 1999 al 2015 furono gli anni delle ricerche, nel 2015 iniziò il processo pubblico. Certo, io avrei voluto in Uruguay un processo giusto per la morte di mio marito. Non è stato possibile. L’Italia ha compensato questa grave mancanza.

Considerate che si trattava di un processo fatto dopo decine di anni, a migliaia di chilometri di distanza, con alcuni giudici popolari che non sapevano neanche dove fossero questi Paesi. In quegli anni si sapeva poco e si parlava pochissimo di quelle dittature. Andava spiegato tutto. Nelle piazze si era parlato soprattutto del Cile, ma ben poco dei processi. Bisogna però riconoscere che le condanne definitive del nostro processo in America Latina ebbero ripercussioni enormi. Molti avvocati e giudici di là si rivolsero a noi per avere le sentenze italiane. Venne creato un precedente fondamentale. Quell’articolo 8 qui in Italia fu importantissimo. Il processo avviato da noi si concluse nel 2021 con la seguente condanna definitiva: “Tutti gli imputati vivi, all’ergastolo”. Certo, uno solo andò in galera, un militare che di nome Troccoli che viveva a Salerno. Molti erano morti, altri erano già in carcere nei nostri Paesi.

Ma allora perché dici che fu l’Italia a darti giustizia?

Prima di tutto perché in Sud America non si è mai fatto un processo Condor, ma solo processi riferiti a una o due vittime.

Tu seguisti il processo a Roma: dovevi o volevi?

Io collaboravo, insieme ad altre, con il PM Capaldo nella ricerca di materiale e nelle traduzioni.
La mole di carte che producemmo fu impressionante, dovemmo presentare le prove su tutto. Tutto. Di dolito venivo accompagnata a Roma dai miei tre nipoti.

Da destra: la PM Cuggini, Aurora Meloni e il suo avvocato Giancarlo Maniga

Alla fine del processo giudiziario, nel ’21, tirai il fiato, ma già con la prima sentenza io avevo pianto. Qualcuno mi ha chiesto a cosa avessi pensato in quel momento… Io avevo pensato a Daniel, a Guillermo, a Luis, a tutti quelli che non c’erano più e a quelli che ancora non avevano trovato. Non devi dimenticare che noi abbiamo ancora una ferita aperta, che sono i desaparecidos. Il problema vero è che noi sappiamo che loro (i militari) SANNO. Ancora pochi mesi fa abbiamo trovato in un presidio militare i resti di una compagna scomparsa nel ’77. Sono i resti della settima vittima che ritroviamo dei 197 scomparsi che abbiamo in Uruguay. Solo 7! Dopo 50 anni! Una lentezza tremenda, anche perché non ci sono finanziamenti per la ricerca e per gli scavi. Noi poi ci rivolgiamo ad antropologi argentini per l’identificazione del DNA, non è semplice.

Comunque, per me, questo processo è stata GIUSTIZIA. Pensa che il relatore della Corte di Cassazione, il dottor Gaeta, fece un intervento di più di un’ora, determinando poi la decisione della corte, in cui analizzò punto per punto tutto quello che portava alla condanna di questi criminali. Un intervento meraviglioso, come se lo avessimo scritto noi, e da parte di un relatore della Cassazione: a questi livelli non avviene mai che vi sia un tale coinvolgimento. Quando con quest’uomo ci vedemmo presso un’università romana per un incontro, piangemmo insieme.

Quanto poi è stato reso pubblico il risultato di questo processo, in Italia?

Un po’ di risonanza ci fu. Durante il processo entrammo in contatto con diversi giornalisti, io intervenni in diversi servizi di RaiNews e Radio1, oltre ai contatti con i tanti amici in Italia e a numerosi blog che ci hanno dato spazio. Se cerchi su internet la vicenda del processo Condor, trovi moltissimo materiale. In America Latina si parla ancora dell’esito di questo processo e del plan Condor.

Chi si fece carico delle spese di questo lungo processo?

Soprattutto lo Stato italiano. Alcune regioni italiane, alle quali la vittima apparteneva, hanno aiutato. La chiesa valdese partecipò alle spese.

Cosa pensi di coloro che al giorno d’oggi hanno nostalgia di quelle dittature o sono negazionisti rispetto ai fatti che voi avete denunciato?

Noi dobbiamo continuare a raccontare la nostra storia e a spiegare che non si può negare quello che è avvenuto. Io mi sono ancora emozionata quando, pochi giorni fa, ho visto le immagini dell’estremo saluto ai resti della compagna di cui parlavo prima, fatto nell’enorme atrio dell’università di Montevideo. Ho visto un popolo che piangeva e che diceva: “la tua lotta continua ad essere la nostra”, e tra loro moltissimi giovani. Sono pochi resti, in un’urna, ma emozionano ancora moltissimo. A noi rimane l’ultima madre di quel periodo, che tra poco compirà cento anni, lucidissima. Ogni volta che posso vado a parlare, a raccontare, nelle scuole, soprattutto intorno al Giorno della Memoria. Pur se è difficile con i tempi che corrono, dobbiamo insistere perché sia davvero “nunca mas”.

Per chiudere, cosa pensi dell’essere umano e della sua capacità di compiere violenze?

Che non ha limiti. Che è ancora incredibile, nonostante la storia, pensare che un essere umano possa essere così crudele, malvagio, spietato…ma poi ci guardiamo intorno e vediamo le guerre in atto: di cosa ci stupiamo?. E non solo le guerre. Che dire: che il sopravvento è stato preso dal potere e dal denaro, come continua a ripetere Francesco.  Io credo che la forza per combattere tutto ciò si possa trovare nella lotta. Sempre. Perché credere nella vita, nell’amore e nell’essere umano è lo stimolo, e anche l’esempio che mi sento di trasmettere ai miei nipoti.

Anche in questa lotta, lunga, faticosa, dura, foste quasi esclusivamente donne, perché?

Forse perché noi diamo la vita, quindi siamo molto attaccate ad essa. Non voglio dire che gli uomini non abbiano forza, abbiamo avuto al nostro fianco uomini bravissimi, ma la nostra è particolare.

Um’ultima nota, un po’ sciocca: hai un cognome impegnativo adesso…

(Aurora ride) Non c’entro niente.

 

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

“Valerio vive, un’idea non muore”: manifestazione in ricordo di Valerio Verbano

Come ogni anno a partire dal 1980, terribilis annus, oltre 4.000 si sono radunate sotto la casa di Valerio Verbano, liceale impegnato nel quartiere e in una indagine sui gruppi eversivi di estrema destra, ucciso sotto gli occhi dei genitori legati ad una sedia. E’ utile ricordare che il dossier cui Valerio stava lavorando è sparito come pure la pistola di ‘ordinanza’ con la quale è stato freddato. Valerio è diventato cosi il simbolo di una generazione in lotta contro la grigia cappa clerico/fascista che opprimeva e opprime Roma dove i centri sociali sono sempre minacciati di sgombero mentre Casapound ha persino le utenze gratis.

Dopo l’omaggio floreale alla targa posta all’ingresso dell’abitazione di Valerio, un corteo di giovani è poi sfilato per le vie dei quartieri del Tufello e Montesacro. Gli studenti delle scuole hanno preparato con cura la manifestazione con riunioni, assemblee e con una settimana di trasmissioni a Radio Onda Rossa. Hanno persino rinfrescato la scritta sui muri del liceo Archimede che Valerio frequentava. Alla domanda: “siete qui per Valerio o contro il DDL sicurezza del governo?” uno studente del liceo Augusto risponde: “c’è differenza?”. Insieme agli studenti hanno sfilato curdi e palestinesi con le loro bandiere, giovani donne a ricordarci con i loro slogan che non c’è antifascismo senza lotta contro il patriarcato ed infine i compagni, ormai anziani, di Valerio molti dei quali tornati apposta a Roma. Ha praticamente sfilato tutto il III municipio

Terribilis annus il 1980 apertosi con l’omicidio di Mattarella seguito da Ustica e poi la stazione di Bologna per concludersi con la sconfitta operaia alla Fiat (61 licenziamenti e un mese di occupazione). Come e con un terremoto (Irpinia) si chiude il ventennio iniziato a Genova con la mobilitazione per impedire il comizio di Almirante. Si chiude un ventennio di conquiste sociali: diritto di famiglia, scala mobile, statuto dei lavoratori, divorzio e via discorrendo. Ma <il vento soffia ancora> si legge su una grande bandiera bianca che al centro reca l’immagine di un coloratissimo uccello. <Sarà un caso che a partire da allora sono nati circa 2500 Valerio e Valeria? > fa notare un compagno di lotta di Valerio.

Il corteo si è concluso con un concerto perché l’antifascismo si pratica anche con la socialità e la cultura.

Rachele Colella

Redazione Roma

L’irresistibile attrazione delle banche verso l’industria delle armi

L’aggressione russa all’Ucraina ha spinto, anche in Italia, a una corsa globale agli armamenti. Nel 2024 la spesa militare globale ha raggiunto i 2.443 miliardi di dollari, segnando un nuovo record in un contesto di crescente instabilità geopolitica. Dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio 2022, l’Ue e i suoi Stati membri hanno mobilitato 124 miliardi di euro a sostegno dell’Ucraina, una cifra significativa rispetto agli investimenti previsti per il Green New Deal. Per quanto riguarda il nostro Paese, utilizzando il Database SIPRI si nota che nell’arco temporale 2015-2023 la spesa militare italiana passa da 23,83 miliardi a 32,63 miliardi di dollari (+36,9%). In termini di incidenza sul PIL, siamo passati dall’1,2% all’1,6%. Ciò implica una spesa pro-capite che è lievitata da 368,35 dollari nel 2015 ai 603,50 dollari del 2023. Anche per quanto riguarda l’esportazione di materiale d’armamento l’Italia ha una posizione di tutto rispetto: si trova al 6° posto come Paese esportatore di armi nel mondo. Il database aggiornato annualmente del SIPRI colloca l’Italia subito dietro la Germania, ma prima del Regno Unito. Con il 4,3% dell’ammontare delle esportazioni mondiali nel quinquennio 2019-2023 l’Italia ha visto crescere dell’86% quest’attività rispetto al quinquennio precedente (2014-2018). Il 71% delle sue esportazioni, l’Italia le dirige verso il Medio Oriente, una delle aree a maggior densità di conflitti endemici del pianeta. In quest’area si collocano tre dei maggiori 10 importatori di armi: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. Gli Stati Uniti, sempre secondo SIPRI, coprono il 52% delle esportazioni totali verso il Medio Oriente. A seguire la Francia (12%), l’Italia (10%) e la Germania (7,1%).

Siamo di fronte ad un preoccupante trend di crescita delle spese militari, che tutto fa pensare che sarà purtroppo destinato a continuare anche nel prossimo futuro. Spese militari verso le quali, come ha evidenziato “ZeroArmi”, alcune banche italiane subiscono un’irresistibile attrazione. Il progetto ZeroArmi rappresenta il primo strumento di valutazione dell’esposizione bancaria italiana verso l’industria delle armi. L’iniziativa è frutto della collaborazione tra Fondazione Finanza Etica e Rete Italiana Pace e Disarmo, con il coinvolgimento delle principali banche italiane. ZeroArmi analizza il grado di coinvolgimento del sistema bancario nel settore militare, ponendo l’accento sulla trasparenza e sul dialogo critico con gli istituti bancari. La valutazione copre le seguenti banche: Banca Mediolanum, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare Etica, Banco BPM, BPER Banca, Cassa Centrale Banca, Cassa Depositi e Prestiti, Crédit Agricole Italia, ICCREA, Intesa Sanpaolo. Mediobanca e Unicredit.

Stando ai risultati 2024 di ZeroArmi presentati alla fine dello scorso gennaio, Banca Etica si conferma l’unico istituto con un coinvolgimento nullo nel settore militare. Cassa Centrale Banca, BPER, Banco BPM e Cassa Depositi e Prestiti mostrano un coinvolgimento minimo, con punteggi tra 10 e 20, attribuibili alla loro storia, a scelte strategiche recenti e alla disponibilità a confrontarsi con ZeroArmi. La seconda fascia di coinvolgimento moderato (20-40 punti) è leggermente più numerosa: Banca Mediolanum, Crédit Agricole, Mediobanca e ICCREA si posizionano tra 20 e 25 punti, mentre Banca Popolare di Sondrio si trova nella parte alta di questa fascia. Infine, le due banche tradizionali con il maggiore flusso di cassa, Intesa Sanpaolo e Unicredit, si posizionano all’interno della terza fascia (40-60) a conferma del loro storico ruolo di protagoniste strutturali nel settore, con un coinvolgimento significativo. 

Scrive Simone Siliani nel Report ZeroArmi: “Dove finiscono i soldi delle persone risparmiatrici quando vengono depositati in banca? Esiste un diritto a essere informati su come vengono impiegati? Considerando che quei fondi restano di proprietà di chi li ha affidati alle banche con l’obbligo di tutelarli e utilizzarli per muovere l’economia, questo diritto assume una importanza ancora maggiore quando i risparmi vengono impiegati per finanziare settori dell’economia eticamente sensibili, come quello degli armamenti.” Per affrontare il crescente coinvolgimento delle banche italiane nell’industria bellica, ZeroArmi propone azioni concrete: 1. Promuovere la trasparenza, rendendo pubblici i dati relativi ai finanziamenti al settore militare. 2. Definire policy restrittive per escludere effettivamente il supporto a industrie produttrici di armamenti controversi. 3. Favorire il disinvestimento, sostenendo la riallocazione di capitali verso settori a elevato impatto sociale e ambientale positivo. 4. Coinvolgere chi risparmia, informando i cittadini e le cittadine sull’impatto delle loro scelte finanziarie per favorire decisioni consapevoli.

Qui per scaricare il Report: https://finanzadisarmata.it/risorse/zero-armi/

 

Giovanni Caprio

Grazie, Letizia!

Nel pubblicare il comunicato stampa della Biblioteca delle Donne – Udipalermo, la Redazione locale di Pressenza si associa nel ricordo di Maria Letizia Colajanni, figura intellettuale storica dell’antifascismo palermitano e militante femminista e comunista impegnata nelle tante battaglie della sinistra contro tutte le forme di sfruttamento e le diseguaglianze, che ha sempre saputo coniugare pensiero critico e capacità d’azione [RedPA]

M.Letizia Colajanni non è più con noi. Da giugno stava male e temevamo questo momento. Un altro pezzo di storia di questa città va via lasciando un segno indelebile. Letizia aveva un cognome importante, impegnativo, di cui andava fiera. Una famiglia storica di democratici, comunisti, antifascisti impegnati fin da inizio ‘900 per la libertà, la giustizia sociale e il riscatto della Sicilia.

Ricordava quando bambina aiutava la madre che con Anna Nicolosi Grasso e Lina Caffaratto Colajanni, le formidabili donne dell’UDI di Palermo, confezionava i pacchi per le famiglie povere con i prodotti forniti da un’organizzazione delle Nazioni unite istituita per aiutare le popolazioni colpite dalla guerra.

É cresciuta nutrendosi di rigore intellettuale e di impegno, consapevole di essere parte di un noi, la società, che esige attenzione, partecipazione attiva, soprattutto se vogliamo lottare contro ingiustizie, soprusi, sfruttamento. Era convinta che si debba fare tutto ciò che sta nelle nostre possibilità per affermare la dignità di ogni essere umano e migliorare la società.

Essere al mondo implica assumersene senza alibi la responsabilità. La sua instancabile attività politica si caratterizzava per una pratica che coniugava sapientemente pensare e fare. Era la prima ad arrivare e l’ultima ad andare.

Pensare a M.Letizia fa venire in mente “Comporre una vita”, il bel libro di Mary Catherine Bateson. Lei riusciva, senza mai perdersi d’animo, con destrezza e armonia, come solo le donne sanno fare, a mettere insieme tante cose, differenti ma tutte egualmente importanti per lei. Molto legata al marito, Saverio Madonia, madre di tre figli, docente, preside, per anni impegnata nel PCI e nella CGIL, consigliera provinciale, dopo la pensione attiva militante e dirigente nell’ANPI Sicilia e nazionale.

E ancora brava tessitrice di relazioni, ospite affabile, ottima cuoca, pronta a dare le sue ricette e a suggerire consigli. Per questo ricordata da più parti. Una donna generosa, solidale, di grande intelligenza e di rigore morale che aveva una qualità oggi rara: sapere ascoltare.

Una donna che inseriamo con orgoglio nella tradizione di donne siciliane forti e coraggiose che hanno segnato positivamente la nostra storia e che noi donne di Udipalermo ci impegniamo a fare conoscere alle più giovani perché possano trarne nutrimento morale e intellettuale.

Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale – Udipalermo ETS

Redazione Palermo

Stati Uniti, decine di proteste contro le politiche di Trump e Musk

In seguito al licenziamento di migliaia di dipendenti pubblici predisposto dal nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE), guidato dal miliardario Elon Musk e voluto da Trump, in alcune zone degli Stati Uniti si sono registrate proteste contro le politiche del fondatore di Tesla e del presidente della Casa Bianca. In particolare, centinaia di persone si sono radunate davanti alle concessionarie Tesla a New York, Kansas City e in tutta la California per protestare contro i tagli del DOGE. Gli organizzatori hanno riferito di almeno 37 dimostrazioni in uno sforzo coordinato attraverso gli hashtag social TeslaTakedown e TeslaTakover, con i manifestanti che hanno agitato cartelli con le scritte “Detronizzate Musk”, “Nessuno ha votato Elon Musk” e “Fermate il colpo di Stato”. In alcuni Stati democratici, inoltre, sono partite le rivendicazioni contro le politiche riguardanti i diritti all’aborto e delle persone transgender.

Attraverso il DOGE, istituito per ridurre la burocrazia statunitense, Musk ha finora licenziato più di 9.500 dipendenti federali che si occupavano di tutto, dalla gestione dei terreni federali all’assistenza dei veterani militari. I licenziamenti si aggiungono ai circa 75.000 lavoratori che hanno accettato una buonuscita offerta da Musk e Trump. Il presidente statunitense ha affermato che il governo federale è saturo e che troppi soldi vengono persi a causa di sprechi e frodi. Il governo ha circa 36 trilioni di dollari di debito e ha avuto un deficit di 1,8 trilioni di dollari l’anno scorso: c’è un accordo bipartisan sulla necessità di riforme. Tuttavia, l’ondata di licenziamenti ha causato proteste sia tra i dipendenti licenziati che tra i cittadini: molti lavoratori pubblici hanno affermato di sentirsi traditi dallo Stato che hanno servito per anni.

Trump e Musk hanno chiuso quasi completamente alcune agenzie governative come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Quest’ultimo era uno dei pochi uffici rimasti dalla crisi del 2008 con lo scopo di aiutare finanziariamente i cittadini comuni, ma è accusato dai repubblicani di abuso di potere. In risposta alla chiusura di queste Agenzie, è nata una nuova rete di dipendenti federali organizzata per contrastare i tagli nel settore pubblico, chiamata Federal Unionists Network (FUN).

Chris Dols, uno dei membri fondatori, ritiene che l’attacco al CFPB abbia chiarito qual è il vero obiettivo di Musk e Trump. «[Il CFPB] è la protezione dei consumatori contro le frodi», ha affermato, aggiungendo che «I truffatori se la sono presa con l’agenzia anti-truffa». In altre parole, secondo Dols, se Trump e Musk si preoccupassero davvero di ridurre gli sprechi e le frodi e di migliorare la vita dei lavoratori rafforzerebbero ed espanderebbero la portata del CFPB, anziché tagliarla.

Alcuni manifestanti, soprattutto negli Stati di stampo più “progressista” come la California, hanno messo in dubbio la legittimità di Elon Musk, sostenendo che nessuno lo ha votato e radunandosi fuori dalle concessionarie Tesla per protesta. Più di una trentina di eventi contro l’oligarca sudafricano naturalizzato statunitense sono andati in scena in varie parti degli USA, come riportato sul sito Action Network, dove si invitano le persone che possiedono delle Tesla o azioni della società a disinvestire, vendere il proprio veicolo e unirsi alle proteste. Le dimostrazioni seguono le notizie di incendi dolosi e danneggiamenti dei saloni Tesla in Oregon e Colorado. Alcuni investitori temono che il sostegno di Musk a Trump possa influenzare le vendite e sottrarre tempo allo sviluppo del marchio automobilistico: a gennaio le azioni Tesla hanno intrapreso una rapida discesa e anche le vendite risultano in calo.

La Casa Bianca ha affermato che Musk opera come dipendente governativo speciale non retribuito. Tale qualifica è riservata ufficialmente a coloro che lavorano per il governo per 130 giorni o meno in un anno. Fino ad ora, il DOGE ha chiuso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e sta cercando di chiudere il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Inoltre, come parte di una lotta alle politiche “woke“, Musk ha affermato che il suo team ha «risparmiato ai contribuenti oltre 1 miliardo di dollari in folli contratti DEI (diversità, equità e inclusione)».

L'Indipendente

I centri per migranti in Albania: un fallimento senza vergogna

I lavoratori, assunti a seguito dell’accordo tra Italia e Albania, sono stati licenziati nei giorni scorsi per “manifesta inutilità”. Assistiamo all’ennesimo fallimento delle politiche migratorie, peraltro in questo caso sbandierato come un grande successo da parte del nostro governo.

Gli accordi tra Italia e Albania per la creazione dei centri di trattenimento dei migranti si sono rivelati un completo insuccesso. Questo è evidente poiché tutti i migranti trasferiti dall’Italia a questi centri sono stati rapidamente rimandati indietro. Il fallimento è ulteriormente confermato dal licenziamento del personale impiegato per la gestione dei centri.

Il primo a riportare il licenziamento è stato il quotidiano “Domani“, che ha ottenuto la comunicazione con cui la cooperativa Medihospes ha terminato il contratto con i lavoratori impiegati nei centri in Albania.

La Medihospes è una cooperativa italiana specializzata in assistenza sociale e sanitaria, con sede a Roma. Opera in diverse strutture nel Lazio, in Puglia e in Basilicata. Dallo scorso ottobre, Medihospes è attiva anche in Albania dove, dopo aver vinto un bando di 134 milioni di euro indetto dal Ministero dell’Interno, gestisce i centri di Shengjin e Gjader, sebbene queste strutture non siano indicate sul loro sito.

Per questo progetto, la cooperativa ha reclutato mediatori culturali, autisti, medici, consulenti legali, addetti alle pulizie, psicologi, personale amministrativo, esperti informatici e altre figure professionali.

Il licenziamento, in vigore dal 15 febbraio, coinvolge la maggior parte dei dipendenti. Soltanto il personale essenziale resterà in servizio, tra cui alcuni medici, addetti alle pulizie e agenti di sicurezza.

L’accordo tra Italia e Albania

Il progetto stabilito dall’accordo tra Italia e Albania prevede la realizzazione di due centri: il primo a Shengjin, lungo la costa, dove attraccano le navi italiane che trasportano i migranti dall’Italia all’Albania. A Shengjin si svolge lo sbarco e l’identificazione dei migranti, un processo che è stato ripetuto più volte, incluso al momento dell’imbarco in Italia. Dopo lo sbarco e l’identificazione, i migranti vengono trasferiti al secondo centro, situato a Gjader, nell’entroterra albanese.

Nei centri vengono trasferite persone che, dopo una valutazione preliminare e senza garanzie, sembrano non soddisfare i criteri per ricevere asilo. In base all’accordo, i migranti rimangono in questi centri in attesa della decisione finale, che può essere di due tipi: l’accoglimento della richiesta di asilo, che consentirebbe loro di tornare in Italia, o il rigetto della richiesta, con conseguente espulsione. I migranti portati in Albania sono quelli soccorsi in mare dalla Guardia Costiera o dalla Guardia di Finanza Italiana, escludendo quelli salvati dalle ONG, evidenziando una discriminazione ulteriore.

I trasferimenti, secondo quanto stabilito dall’accordo, sono gestiti dalle autorità albanesi. Invece, l’Italia è responsabile della gestione interna dei centri, inclusa la cura delle persone durante la loro permanenza. Questo accordo comporta un trasferimento non solo di persone, ma anche di responsabilità e competenze, presentando numerose criticità logistiche e potenziali conflitti con le norme costituzionali.

Un progetto fallimentare ha portato al licenziamento del personale, poiché, dopo circa cinque mesi dall’apertura, nessuno è presente nelle strutture. Ogni volta che i migranti sono stati trasferiti in Albania, i giudici italiani non hanno mai convalidato la loro detenzione in questi centri, ordinandone il ritorno in Italia. Le convalide non sono avvenute perché in alcuni casi si trattava di minorenni o persone vulnerabili, con problemi di salute mentale o fisica. In generale, i giudici non hanno convalidato i fermi perché questo tipo di gestione viola le norme europee sulla gestione dei migranti.

L’accordo tra i due Paesi prevede l’invio di migranti provenienti da nazioni considerate sicure. Tuttavia, la questione dei Paesi sicuri è complessa, poiché l’Italia ritiene sicuri alcuni Stati che l’Unione Europea non considera tali, come la Tunisia, nota per la tratta di esseri umani, o la Nigeria. Inoltre, in Albania sono state trasferite persone provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, dove l’omosessualità è illegale e punibile con il carcere.

Questo elemento dell’omosessualità non dovrebbe essere trascurato nell’interpretazione giuridica, poiché per l’Unione Europea ogni individuo deve sentirsi completamente al sicuro nel proprio Paese di origine, senza dover rivelare le proprie preferenze sessuali o altri dettagli personali. Il prossimo 25 febbraio la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dovrebbe chiarire l’interpretazione delle norme sui “Paesi di origine sicuri”.

Il fallimento del progetto dei centri in Albania è evidente, tanto che il governo sta considerando un cambio di destinazione d’uso. Tra le possibilità c’è quella di trasformare queste strutture in CPR, centri permanenti per il rimpatrio, simili a quelli già esistenti in Italia. Tuttavia, i CPR sono anche criticati per la cattiva gestione e le condizioni disumane in cui si trovano.

Tutto ciò evidenzia la determinazione politica italiana, principalmente di questo governo ma non esclusivamente, nel proseguire su una gestione inumana dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente stringendo accordi con Paesi come Libia e Tunisia, noti per violazioni sistematiche dei diritti umani, complicità in violenze, torture e tratta di esseri umani. Gestione disumana che ha dato origine a luoghi crudeli come i CPR, noti per le comprovate violazioni dei diritti umani, culminando infine nella creazione di questi centri in Albania.

Un gioco politico e di potere svolto a scapito di persone trattate come merce da trasferire da uno Stato all’altro, rinchiuse in centri di vario tipo, spesso senza giustificazione e considerate come se fossero sacrificabili. Figure di potere che sembrano ignorare l’impatto delle loro decisioni sugli esseri umani, indifferenti alle conseguenze che tale disumanità può avere sul cuore, sulla mente e sull’anima di queste persone.

 

Heraldo