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Cacciato per il cartello sulla pace: presentato esposto alla Procura della Repubblica

Quale componente del Comitato di coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento ho presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Sulmona su quanto avvenuto lo scorso 29 gennaio in occasione della premiazione del concorso letterario, per studenti degli Istituti superiori di istruzione della Valle Peligna e dell’Alto Sangro, promosso dall’Unuci (Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia). Per aver mostrato in silenzio, in un incontro pubblico, un cartello con la scritta “Educare i giovani alla pace non alla guerra”, funzionari di Carabinieri e Polizia presenti nella sala mi hanno dapprima circondato e poi sospinto a forza verso l’uscita.

Con l’esposto ho chiesto alla Procura di accertare se il comportamento tenuto dai rappresentanti delle forze dell’ordine, lesivo di fondamentali principi costituzionali, configuri il reato di abuso dei poteri loro assegnati dalle leggi e dai regolamenti vigenti, minando in tal modo la fiducia della comunità nelle istituzioni democratiche del nostro Stato.

La libera manifestazione del pensiero è un diritto tutelato dalla nostra Costituzione (art.21) e il “ripudio” della guerra è anch’esso sancito dalla Costituzione (art.11). Non solo, ma lo stesso ordinamento del nostro sistema nazionale di istruzione ha tra i suoi fondamenti l’educazione alla pace. Infatti, la Legge n. 107 del 2015, all’articolo 1, include tra gli obiettivi formativi considerati prioritari lo “sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva e democratica attraverso la valorizzazione dell’educazione interculturale e alla pace”.

Nell’esposto si richiama l’insegnamento della grande pedagogista Maria Montessori, il cui metodo educativo è stato adottato in molti Paesi del mondo e che ha pubblicato un libro intitolato proprio “Educazione e pace”. In esso la Montessori ha scritto, tra l’altro: “Occorre organizzare la pace, preparandola scientificamente attraverso l’educazione”; e ancora: “Due sono i mezzi che conducono a questa unione pacificatrice: uno è lo sforzo immediato di risolvere senza violenza i conflitti, vale a dire di eludere le guerre; l’altro è lo sforzo prolungato di costruire stabilmente la pace tra gli uomini. Ora, evitare i conflitti è opera della politica; costruire la pace è opera dell’educazione”.

Si richiamano anche le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, nel discorso di fine anno del 31 dicembre 2023, ha detto tra l’altro: “La guerra, ogni guerra, genera odio. L’odio durerà moltiplicato per molto tempo dopo la fine dei conflitti (…). La guerra non nasce da sola. Non basterebbe neppure la spinta di tante armi, che ne sono lo strumento di morte. Così diffuse. Così letali. Fonte di enormi guadagni. E’ indispensabile dare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità della pace”.

E quelle di Papa Francesco che, nell’Angelus di domenica 14 gennaio 2024, ha tra l’altro affermato: “non dimentichiamo questo: la guerra è in sé stessa un crimine contro l’umanità. I popoli hanno bisogno di pace! Il mondo ha bisogno di pace! (…). Dobbiamo educare alla pace. Si vede che non siamo ancora – l’umanità intera – con un’educazione tale da fermare ogni guerra. Preghiamo sempre per questa grazia: educare alla pace”.

Alla luce dei principi della nostra Carta costituzionale, degli obiettivi dell’ordinamento scolastico nazionale, nonché delle esortazioni delle massime autorità in campo pedagogico, istituzionale e religioso, cosa può giustificare l’intervento delle forze dell’ordine? Quale norma autorizza ad usare la forza ed espellere da un consesso pubblico un pensiero, non solo non offensivo, ma largamente condiviso nella nostra società? E’ mai possibile che, in uno Stato democratico, una semplice frase, che ricorda la necessità inderogabile di educare le nuove generazioni alla pace e non alla guerra, possa essere considerata “disturbante” se non addirittura “eversiva”?

Mario Pizzola

Le proposte di Legambiente a misura di gatto

La violenza contro gli animali non si ferma. Secondo i dati dell’ultimo rapporto Ecomafia, le forze di polizia hanno registrato in tema di abbandono, maltrattamento e uccisione a danno degli animali domestici (in particolare cani e gatti) ben 1.400 reati, 3.708 illeciti amministrativi e 815 persone denunciate. I gatti, in particolare, come ha denunciato Legambiente in occasione della recente Giornata nazionale del gatto (17 febbraio) “sono ancora alla ricerca di identità e tutela.” E proprio ai gatti Legambiente ha dedicato un focus, A-Mici in città, che rivela un quadro poco confortante, evidenziando come l’amore degli italiani per i felini sia messo a dura prova dalla permanente insufficienza dei servizi di gestione e assistenza promossi dai Comuni e dalle Asl e come gli oltre 96 mila volontari che curano più di 1 milione di gatti nelle colonie feline e gli oltre 10 milioni di felini che sono stati censiti nelle case degli italiani (XVII rapporto Assalco-Zoomark: https://www.assalco.it/archivio10_documento-generico_0_1570_29_5.html) siano costretti a far fronte a grandi lacune.

Nel 2023, su un campione di 771 Comuni, solo il 39% dichiara di avere colonie feline presenti sul proprio territorio e il 33,5% di sapere quanti gatti le popolino. Rispetto alle sterilizzazioni, l’8,3% dei Comuni sostiene di averle effettuate su più del 90% dei gatti presenti nelle colonie di competenza, il 7,1% dice di aver fatto almeno una campagna di microchippatura, il 16,1% di sterilizzazione e il 12,7% di aver realizzato progetti informativi per l’adozione di gatti in cerca di casa. Appena l’8,8% dei Comuni dichiara poi di avere gattili sanitari e solo il 4,1% di possedere oasi feline. Delle 46 aziende sanitarie parte del campione di A-Mici in Città il 93,5% dichiara invece di avere colonie feline presenti sul proprio territorio e l’80,4% conosce il numero di gatti che ne fanno parte. Il 71,7% ha incaricato cittadini per la gestione delle colonie urbane, solo il 10,9% sostiene di aver anagrafato i gatti presenti in esse e il 23,9% di aver sterilizzato più del 90% dei piccoli felini che le popolano. Solo il 17,4% ha realizzato almeno una campagna di microchippatura, il 47,8% di sterilizzazione e il 56,5% di aver organizzato iniziative per l’adozione di gatti. Infine, il 60,9% dichiara la presenza di gattili sanitari e il 41,3% di avere oasi feline. (anno di riferimento 2023).

Non mancano, per fortuna, città che – come evidenziano i dati di “A-Mici in Città 2025” – nel 2023 si sono distinte per la gestione e cura degli amici felini. Con la presenza di due gattili sanitari ciascuna, Modena, Sassari, Latina e Alba (CN) figurano tra le città più virtuose in tema di accoglienza. Per quanto riguarda il numero di adozioni emergono Vicenza (680 adozioni nel 2023), Ivrea – TO (277), Modena e Mantova con 251 gatti ciascuna che hanno trovato casa. Ben 17 oasi feline sorgono ad Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, otto a Bologna e tre a Verona. Mentre Napoli (2.459), Milano (1.400) e Padova (1.028) si distinguono per il maggior numero di colonie feline registrate sul proprio territorio. Napoli e Milano, inoltre, rispettivamente con 2.095 e 1.400 volontari incaricati nelle colonie feline, spiccano insieme a Torino (1.000) per essere le città con il più alto numero di cittadini dediti alla cura e assistenza dei gatti presenti nelle colonie territoriali registrate. Infine, sul versante delle sterilizzazioni, ritroviamo Napoli con 2.510 gatti sterilizzati al 2023, preceduta da Verona (3.236) e, in ultimo, Modena con 2.392 interventi di sterilizzazione felina effettuati.

Legambiente formula alcune precise proposte: piena operatività del Sistema Informativo Nazionale degli Animali da Compagnia per conoscere le effettive presenze e i bisogni degli animali d’affezione; patti di comunità tra amministrazioni pubbliche e soggetti privati per gestire insieme la tutela e la cura degli animali da compagnia e selvatici nei contesti urbani; una sanità di prossimità più capillare attraverso la presenza in servizio di 6.000 veterinari pubblici e l’attivazione di 1.000 strutture veterinarie pubbliche, quali canili e gattili (uno ogni 50-100 mila cittadini) e ospedali veterinari (uno ogni 300-400 mila cittadini); formazione di 10.000 guardie ambientali e zoofile volontarie per rafforzare il sistema di controlli pubblico-privato per il rispetto delle norme a tutela degli animali da compagnia; e infine l’inasprimento nel Codice penale della reclusione da tre a sei anni per i reati contro gli animali non solo come misura repressiva ma soprattutto come strumento di prevenzione grazie all’attivazione degli strumenti investigativi adeguati.

Qui il focus: https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/11/A-Mici-2025.pdf.

Giovanni Caprio

Petizione Novara-Pellai: “Stop smartphone e social sotto i 16 e 14 anni: ogni tecnologia ha il suo giusto tempo”.

Il pedagogista Daniele Novara e lo psicoterapeuta Alberto Pellai, il 10 settembre 2024, hanno lanciato nei sulla piattaforma Change.org una raccolta firme molto importante dal titolo “Stop smartphone e social sotto i 16 e 14 anni: ogni tecnologia ha il suo giusto tempo”. La motivazione, secondo i promotori, è che la popolazione si sta avviando sempre più verso un uso precoce se non precocissimo all’uso dello smartphone e dei social. “Essere sempre connessi – secondo i promotori – danneggia il sonno, i rapporti sociali, l’attenzione, e può dare dipendenza”. Come ha dichiarato Pellai (che sull’argomento ha scritto più di un libro, l’ultimo è “Allenare alla vita”) in un’intervista a La Repubblica :«Non possiamo più rimanere in silenzio. Nessuno ha niente contro la tecnologia, il tema è l’autogestione del minore. I dati ci dicono che non ha l’abilità per difendersi dalla tecnologia, torniamo ai vecchi cellulari usati solo per comunicare» – aggiungendo «Tra gli 11 e i 14 anni, il funzionamento della parte emotiva del cervello di un adolescente è potentissimo. Si vede bene nel film Inside out 2: si schiaccia il bottone della pubertà e il cervello emotivo diventa esplosivo. È affamato di divertimento, di eccitazione, di dopamina. Tra i dieci e i 14 anni si ha la massima vulnerabilità nei confronti dell’ingaggio dopaminergico, che è tanto presente nell’online. Il cervello cognitivo matura più tardi». Sui social «Non vengono proposti soltanto documentari, ma una serie di esperienze. E da un’architettura che non parla al cervello che pensa, ma a quello che sente» – incalcava Pellai – «A partire dal 2012, gli indicatori di salute mentale in età evolutiva sono sempre andati peggiorando proprio quando i cellulari sono diventati smartphone. Prima avevamo uno strumento di comunicazione», mentre ora abbiamo avuto in mano strumenti di connessione che ci tengono attivi tutto il giorno. Nella vita online vengono fortemente sviluppati quattro aspetti: la deprivazione di sonno, la deprivazione sociale, la frammentazione dell’attenzione, la stimolazione a fare sempre più cose nella vita virtuale senza riuscire a smettere. Questo è un male nell’età evolutiva perché il cervello per svilupparsi e strutturarsi ha bisogno di stare di più nella vita reale.
Nella petizione si chiede di proibire i social media prima dei 16 anni poiché, prima di questa età, sviluppa un’ansia performativa, una riduzione dell’autostima e un senso di inadeguatezza rispetto alla propria immagine. Affermava Pellai: «Non possiamo più non dire che i social media non rappresentano un fattore di rischio per la salute degli adolescenti. Non è un’opinione». Per questi motivi, vista la poca risonanza mediatica che continua ad avere questa petizione, ci sembra giusto rilanciarla affinchè raggiunga più adesioni possibile. Riportiamo qui di seguito il testo:

Se è vero che spesso le tecnologie migliorano la qualità della vita, questo non accade quando si parla di educazione nella prima infanzia e nella scuola primaria. I bambini e le bambine che utilizzano strumenti tecnologici e interagiscono con gli schermi subiscono due danni:
– Uno diretto, legato alla dipendenza.
– Uno indiretto, perché l’interazione con gli schermi impedisce di vivere nella vita reale le esperienze fondamentali per un corretto allenamento alla vita.
È ormai chiaro che prima dei 14 anni avere uno smartphone personale possa essere molto dannoso così come aprire, prima dei 16 anni, un proprio profilo personale sui social media.
La nostra non è una presa di posizione anti-tecnologica ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale.
Simili comportamenti in età prescolare portano ad alterazioni della materia bianca in quelle aree cerebrali fondamentali per sostenere l’apprendimento della letto-scrittura.
I fatti lo dimostrano: nelle scuole dove lo smartphone non è ammesso, gli studenti socializzano e apprendono meglio. Prima dei 14-15 anni, il cervello emotivo dei minori è molto vulnerabile all’ingaggio dopaminergico dei social media e dei videogiochi.
Anche nelle scuole bisogna essere coerenti con quello che ci dicono le neuroscienze. Smartphone e tablet devono essere usati solo dai docenti per arricchire le proposte didattiche senza prevedere, in classe o a casa e almeno fino ai 15 anni, alcun uso autonomo degli studenti.

APPELLO
Chiediamo quindi al Governo italiano di impegnarsi per far sì che nessuno dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possa possedere uno smartphone personale prima dei 14 anni e che non si possa avere un profilo sui social media prima dei 16. Aiutiamo le nuove generazioni.

Possibilità di sottoscrivere il testo al seguente link: https://www.change.org/p/stop-smartphone-e-social-sotto-i-14-e-16-anni-ogni-tecnologia-ha-il-suo-giusto-tempo

Primi Firmatari
Daniele Novara, pedagogista e counselor – direttore del CPPP
Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta
Manuela Andretta, magistrato Corte d’Appello di Milano
Laura Beltrami, pedagogista, formatrice e counselor
Lorella Boccalini, pedagogista, formatrice e counselor
Anna Boeri, formatrice, counselor, psicodrammatista
Silvia Bonino, psicologa e psicoterapeuta
Francesco Cappa, pedagogista, università Bicocca-Milano
Lorenza Comi, pedagogista, formatrice e counselor
Emanuela Cusimano, pedagogista e counselor
Cristina Dell’Acqua Grecista, grecista e insegnante
Teresa De Pascale, magistrato della Corte d’appello di Milano
Idor De Simone, medico optometrista
Roberto Farnè, pedagogista, università Bologna
Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell’età evolutiva , università La Sapienza, Roma
Brunella Fiore, Università Bicocca-Milano
Michele Gagliano, educatore e formatore
Secondo Giacobbi, psicoanalista
Antonella Gorrino, pedagogista e formatrice
Giovanni Grandi, filosofia morale, università di Trieste
Luca Grion, filosofia morale, università di Udine
Ivano Giuseppe Gamelli, pedagogista, università Bicocca-Milano
Natalia Imarisio, magistrato della Corte d’Appello di Milano
Simone Lanza, insegnante
Fabrizio Lertora, esperto di processi organizzativi e collaborativi
Ivo Lizzola, pedagogista, università Bicocca-Milano
Federica Lucchesini, direttrice rivista “Gli Asini”
Massimo Lussignoli, pedagogista, formatore e counselor
Luigi Luzi, magistrato della Procura della Repubblica di Milano
Raffaele Mantegazza, pedagogista università Bicocca-Milano
Luca Milani, magistrato del Tribunale di Milano
Monica Minciu, università di Torino
Diego Miscioscia, psicologo e psicoterapeuta
Pietro Moscianese, magistrato della Procura della Repubblica per i minori di Milano
Paola Nicolini, psicologa dello sviluppo e dell’educazione, università di Macerata
Alberto Oliverio, neurobiologo, università La Sapienza, Roma
Paolo Orio, Associazione italiana elettrosensibili
Vanja Paltrinieri, pedagogista, formatrice e counselor
Francesca Parola, magistrato della Procura della Repubblica di Busto Arsizio
Elena Passerini, formatrice e psicogrammista
Eva Pattis, analista junghiana
Elisabetta Romoli, insegnante
Maria Teresa Pepe, pedagogista, formatrice e counselor
Laura Petrini, formatrice e consulente educativa
Filippo Sani, formatore, sociologo, pedagogista e counselor
Donatella Savio, pedagogista
Barbara Tamborini, psicopedagogista
Bruno Tognolini, scrittore
Sergio Tramma, pedagogista, università Bicocca-Milano
Silvia Vegetti Finzi, psicologa e scrittrice, università di Pavia
Marta Versiglia, pedagogista
Michele Zappella, neuropsichiatra infantile
Luigi Zoja, psicoanalista

UNITA – Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.

Stefano Accorsi, attore *
Silvia Avallone, scrittrice e poetessa
Marco Bonini, attore *
Valeria Bruni Tedeschi, attrice e regista *
Francesca De Martino, attrice *
Paolo Calabresi, attore e conduttore *
Maria Pia Calzone, attrice *
Paola Cortellesi, attrice e regista *
Pierfrancesco Favino, attore *
Anna Foglietta, attrice *
Claudia Gerini, attrice *
Valeria Golino, attrice e regista *
Edoardo Leo, attore e regista *
Valentina Lodovini, attrice *
Giorgio Marchesi, attore *
Vinicio Marchioni, attore *
Paola Minaccioni, attrice e conduttrice radiofonica *
Carlotta Natoli, attrice *
Claudia Pandolfi, attrice *
Vittoria Puccini, attrice *
Luisa Ranieri, attrice e conduttrice televisiva *
Alba Rohrwacher, attrice *
Francesco Bolo Rossini, attore e regista *
Fabrizia Sacchi, attrice *
Vanessa Scalerà, attrice *
Greta Scarano, attrice *
Stefano Scherini, attore *
Francesco Scianna, attore *
Pietro Sermonti, attore *
Tiberio Timperi, giornalista e conduttore
Thomas Trabacchi, attore *
Luca Zingaretti, attore *

(*) Fanno parte di UNITA – Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.

Presentazione dell’appello dei pedagogisti – smartphone fuori legge prima dei 14 anni https://www.youtube.com/live/P2n6bTcR6mA
Presentazione in Senato della petizione “Stop smartphone e social sotto i 16 e 14 anni” https://www.youtube.com/watch?v=K59SYPgS5Fg

Ulteriori approfondimenti
https://www.orizzontescuola.it/stop-ai-cellulari-in-classe-mercoledi-al-senato-la-presentazione-della-petizione-con-novara-e-pellai/
https://www.agensir.it/italia/2024/09/13/no-smartphone-agli-under-14-alberto-pellai-puo-diventare-una-trappola-che-crea-dipendenza/

 

Redazione Italia

Contro il Pelecidio, Luca Sciacchitano: “Israele da decenni ingloba porzioni sempre più vaste di territorio”

Benvenuti alla quarta parte della rubrica “Contro il Pelecidio” che consiste nella pubblicazione, una volta a settimana, di una mini-intervista allo scrittore Luca Sciacchitano sui temi del suo ultimo interessantissimo saggio intitolato “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”  – edito da Multimage La casa editrice dei diritti umani – che senza filtri, con cognizione di causa ed una certa parresia, mette sotto accusa quello che è il colonialismo israeliano, il sionismo, l’occupazione belligerante di Israele in terre palestinese, i crimini di guerra, il terrificante sistema d’apartheid razzista e il “genocidio incrementale” messo in atto da ormai più di 70 anni, svelando apertamente le strategie colpevolizzanti della hasbara israeliana e della strumentalizzazione sionista della Shoah.

Cosa è la Palestina oggi? Da cosa viene soffocata e come sopravvive?

La domanda può essere approcciata da diverse angolazioni.
Da un lato potremmo dire che la Palestina, o meglio, tutto il quadro degli eventi a cui stiamo assistendo oggi in Palestina, rappresenta il tragico paradigma della contemporaneità: l’avidità senza freno dei potenti da un lato, la nostra assuefazione all’ingiustizia, dall’altro.
Ogni giorno tutti noi siamo vittime di piccole e grandi arroganze da parte dei poteri. Talmente abituati a essere bombardati dalle prevaricazioni che spesso neanche più ci ribelliamo, accettando ogni volta la nuova asticella, il nuovo limite, la nuova legge, la nuova tassa, il nuovo divieto come parte integrante dell’essere ingranaggi di una società incentrata sul potere di pochi.

L’altra faccia della medaglia però è che, non ribellandoci, noi accettiamo (centimetro dopo centimetro) che i governi, le multinazionali, le lobby ci tolgano ancora maggiori fette di libertà, diritti, indipendenza, stritolandoci sempre più tra le spire della loro pantagruelica avidità. Le democrazie sono in crisi, le ideologie sono scomparse, il lavoro ha perso la sua componente nobilitativa. Tutta la società contemporanea risulta oggi impostata in funzione delle necessità dei potenti: farci produrre, farci consumare, arricchirsi sulle nostre fatiche.

Diventa dunque imperativo iniziare a domandarci quale limite noi, il popolo, siamo disposti a sopportare prima di ribellarci. All’interno di questo quesito rivoluzionario, si innesta ciò che vediamo succedere in Palestina: siamo noi disposti ad accettare che il potere arrivi perfino a genocidare un intero popolo per 365 miseri chilometri quadrati di terra?

Dunque, una prima risposta alla tua domanda potrebbe essere che la Palestina è un simbolo: il paradigma della ferocia di un potere avido, inumano e violento che pensa di possedere tutto, finanche le anime delle persone. Ma è anche una sollecitazione alla nostra capacità di fissarci dei limiti oltre i quali la nostra umanità deve gridare “BASTA”.

Un’altra prospettiva su cui riflettere, nel rispondere alla tua domanda, è quella di inquadrare la Palestina come una creatura in via di estinzione. E come tutto ciò che rischia di evaporare nell’oblio, provare a tutelarla. Mi spiego meglio: la voracità dello Stato di Israele da decenni ingloba porzioni sempre più vaste di territorio. Colonia dopo colonia, l’estensione di ciò che oggi si può chiamare “Palestina” sulla mappa geografica si è tragicamente assottigliata.

La cosa risulta ancora più inquietante se si pensa che una manciata di decadi fa, il giorno prima del 14 maggio 1948, quando Ben Gurion autoproclamò la nascita dello stato di Israele, tutta la regione geografica compresa tra il Mediterraneo e il fiume Giordano era marcata nelle mappe geografiche come “Palestina”; non un nome coniato dai nemici del sionismo, ma risalente addirittura al XII secolo a. C. su volontà degli antichi egiziani (da Peleset, il nome dato ai Filistei), oppure quel Palaistine (Παλαιστινοί) utilizzato nel V secolo a.C. da Erodoto o, ancora, “Syria Palestina” secondo Adriano (135 d.C.).

E fa impressione, in questo grottesco teatro dell’assurdo in cui il sionismo pelecida fa a gara a spararla sempre più grossa, leggere frasi negazioniste come: “«Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un ‘popolo palestinese’ […] è una finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista” (B. Smotrich)

In questa sorta di “terrapiattismo” in chiave geopolitica, i sostenitori di questa sgangherata tesi ignorano perfino i contenuti dei documenti redatti dai sionisti per gli stessi sionisti.
La Dichiarazione Balfour, ad esempio, ovvero la lettera che l’omonimo ministro inviò a Lord Rothschild nel 1917 per auspicare “la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”.
O, ancora lo stesso Theodor Herzl, padre fondatore del sionismo, che nel suo “A Jewish State” chiedeva espressamente al suo lettore “shall we choose Palestine or Argentine?”.

Di quel vasto territorio chiamato Palestina, ed evocato come terra promessa perfino dai sionisti nel secolo scorso, cosa rimane oggi? A ovest, una striscia di terra ormai ridotta a fossa comune difficilmente abitabile. A est, una Cisgiordania ormai maculata dalla colonizzazione illegale, squassata dalla violenza, simile a una carcassa su cui si avventa ogni avvoltoio con doppio passaporto e la voglia di rubarsi un pezzo di terra a condizioni fiscali agevolate. Dunque, sì: una Palestina a rischio di estinzione.
Vengono quasi in mente gli antichi romani quando, negli spazi bianchi delle mappe, scrivevano “hic sunt leones”. I pelecidi di oggi ci scriveranno “hic non sunt amplius Palæstini”.

Sulla tua seconda domanda, ovvero da cosa viene soffocata la Palestina, la risposta sarebbe articolata ma la condenserei sul simbolo per eccellenza dell’oppressione: le mura perimetrali realizzate da Israele a partire dagli anni 2000 attorno alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania.
A mio avviso, quelle recinzioni sono le fondamenta pragmatiche sopra cui è edificata tutta l’ideologia sionista dell’apartheid.

Nel 2004, la Corte Internazionale di Giustizia ne fornì un giudizio inequivocabile: “l’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale”. Ma Israele aveva una strategia e, nonostante la sollecitazione della Corte a smantellarlo, lo mantenne in piedi.

Per capire il principio soggiacente quella strategia vanno qui riportate le parole di Michael Fakhri, relatore speciale del Consiglio per i diritti umani (ONU) quando a ottobre 2024 spiegava il report sulla denutrizione a Gaza, puntando l’indice accusatore proprio sul muro: “affamarli (i palestinesi n.d.r.) è il risultato di scelte compiute da decadi. […] bisogna andare indietro al 2000, quando Israele ha iniziato il suo blocco contro Gaza. […] Come un rubinetto che (Israele n.d.r.) può aprire o chiudere […] Contando le calorie e misurando cosa era permesso far entrare a Gaza ed essere sicuri che ciascuno rimanesse affamato, ma non così tanto da sollevare campanelli di allarme nel mondo. Così, il 6 di ottobre (il giorno prima degli attentati n.d.r.) metà della popolazione di Gaza presentava criticità alimentari e l’80% dipendeva dagli aiuti umanitari”.

Tutto quindi passa attraverso il muro: ciò che entra e ciò che esce; cose e persone.
Ad esempio, le imposte e i dazi doganali sui prodotti che varcano le mura e su cui solo Israele si arroga il diritto di commercio. Questi soldi servono, tra le altre cose, a pagare gli stipendi degli impiegati pubblici che, secondo i dati 2018 del Palestinian Central Bureau of Statistics, rappresentano un terzo dei lavoratori palestinesi. A cadenza periodica Israele decide di trattenerli: migliaia di famiglie palestinesi rimangono senza stipendio.

Oppure gli assalti ai pescherecci palestinesi per limitarne il territorio di pesca del 40% rispetto agli accordi di Oslo (fonte Euro-Med Human Rights Monitor) così da far calare il numero di pescatori registrati a Gaza da 10.000 a 4.000 unità in soli 20 anni.

Non va meglio sul fronte dell’agricoltura dove “durante tutto l’anno, gli aerei israeliani spruzzano ripetutamente erbicidi sulle terre palestinesi lungo i confini, causando danni alle colture agricole” (fonte EMHRM). A questo si aggiunga il divieto per i contadini ad avvicinarsi alla recinzione entro i 1.000 – 1.500 metri per aggiungere un’ulteriore deprivazione del 35% di territorio coltivabile.

E potremmo parlare del giacimento di Meged, il cui petrolio scorre anche sotto la Cisgiordania ma che Israele rifiuta di condividere o il Gaza Marine, un giacimento di gas a 20 miglia dalla costa di Gaza il quale, “se sfruttato adeguatamente, […] potrebbe coprire l’intero fabbisogno palestinese di gas e consentirebbe anche di effettuare esportazioni.” (fonte Geopop).

I palestinesi dunque sopravvivono in larga parte grazie agli aiuti umanitari distribuiti dall’UNRWA. Una distribuzione che non sottostando al controllo israeliano diventa disfunzionale alla politica pelecida. E così, con la scusa della manciata di lavoratori favorevoli a Hamas, su 30.000 impiegati, ecco spiegato il principale motivo della messa al bando e del susseguente tentativo di Israele di sostituirla con un’altra istituzione “rubinetto”, da poter chiudere su necessità politica.

Ma forse, alla tua domanda “cosa soffoca oggi il popolo palestinese”, la risposta più atavica e ciclica alla base dei genocidi è sempre la stessa: l’indifferenza del mondo.
L’indifferenza, complicità, propaganda, interessi economici dei potenti.
Quella stessa indifferenza che permise lo sterminio degli ebrei, nell’Europa nazista, oggi si ripresenta. E fra qualche decennio si ripresenteranno anche i ciclici memoriali, le cicliche giornate della memoria, le cicliche lacrime postume.

Chissà, forse fra venti anni ci sarà una bella stele in marmo a Gaza Riviere, luongo un Palestine Boulevard (magnanimamente concesso in terra d’Israele).
Di fronte al grattacielo edificato sopra una delle tante fosse comuni e, al largo, lo yacht dell’oligarca stipato di modelle e champagne. Nulla che la storia non abbia già visto.

Link alle prime 50 pagine in pdf del libro “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”: https://www.first-web.it/pelecidio1-50.pdf

Lorenzo Poli

Treni ad idrogeno e greenwashing, Europa Verde: «Resta un progetto insostenibile»

Rovato. «Il futuro dei trasporti su rotaia della nostra Regione e dell’intero Paese passa attraverso lo sviluppo della combustione a idrogeno. Si tratta di un progetto ambizioso che da tempo la Lega sta seguendo e che adesso diventa realtà. Il primo treno a idrogeno italiano è stato sperimentato giovedì mattina in provincia di Brescia, a Rovato». Così ha dichiarato pochi giorni fa il consigliere regionale leghista Floriano Massardi, presidente della commissione Agricoltura, montagna e foreste, aggiungendo «Grazie alla lungimiranza del ministro Salvini, che ha messo a disposizione ingenti risorse economiche del Governo, e di Regione Lombardia, da tempo impegnata in una vera e fattiva transizione ecologica verso la produzione di idrogeno verde, il nuovo treno è già realtà». «L’aspetto interessante», prosegue il consigliere del Carroccio, «è che il ricorso al combustibile elettrico presenta due grandi vantaggi: non impatta sull’ambiente ma anzi lo preserva e soprattutto non necessita di particolari infrastrutture, consentendo di mantenere operative quelle già esistenti. L’indotto economico che questa scelta produrrà sull’economia locale e nell’ambito turistico sarà consistente».

Secondo Massardi: «Questo è il vero ambientalismo, e non il discutibile e finto ecologismo di certa parte politica e dell’Unione Europea. Negli ultimi anni la nostra Regione ha investito 1,7 miliardi di euro per 214 nuovi treni che daranno forte slancio al settore ed entro il prossimo anno la Lombardia potrà contare su una flotta totalmente rinnovata. Regione Lombardia a guida Fontana e la Lega al Governo ancora una volta si muovono con fatti concreti, esclusivamente nella tutela dell’ambiente, dei nostri territori e dei nostri cittadini», conclude Massardi.

Eppure i dati dicono ben altro e non si capisce con quale cognizione di causa si possa definire “sostenibile” il treno ad idrogeno. Secondo l’ex sindaco di Brescia Emilio Del Bono – ora vicepresidente del Consiglio Regionale Lombardo – il progetto prevede spese da capogiro senza aumentare la frequenza dei convogli. “Un treno all’ora nella fascia di punta, i fondi andavano usati per migliorare il servizio”. La critica principale è il mancato incremento della frequenza dei treni, a fronte di un investimento di 400 milioni di euro, ma non solo: “il costo di esercizio oggi è di 3 milioni di euro all’anno, ma salirà a 24,4 milioni all’anno. Questi numeri non sono ragionevoli e soprattutto non spostano i pendolari dall’auto al trasporto pubblico”, commentano dalla sede del Pd provinciale a ridosso dell’inaugurazione. “Il treno a idrogeno è il più grande investimento effettuato dalla Regione, ma la linea resta incredibilmente sottoutilizzata”.

Vi è inoltre un problema economico e pratico. «L’arrivo dei convogli a idrogeno al deposito di Rovato è stato accolto con incomprensibile giubilo e festa da parte delle autorità locali, ma i cittadini bresciani hanno ben poco da festeggiare» – ha afferma Paola Pollini, consigliera regionale M5s: «E’ importante che si sappia che i convogli non sono arrivati perché siano messi in servizio a breve ma sono arrivati solo per essere parcheggiati per quasi un anno e mezzo, visto che la messa in funzione è prevista per giugno 2026, come da delibera regionale, e considerando le possibili quanto certe problematiche che puntualmente si verificano su appalti di questo genere, l’attesa non può far altro che aumentare». «Oggi – evidenzia Pollini – si festeggia per tenere fermi, per almeno un anno e mezzo, dei convogli che, oltre a essere costati 180 milioni di euro per la precisione, non miglioreranno in alcun modo il servizio già oggi presente. Questo è in realtà il motivo principale per il quale l’arrivo di questi treni deve essere visto come una sciagura per il lago d’Iseo e la val Camonica e non certo un vanto perché lo sperpero di denari pubblici è ormai compiuto e difficilmente arrestabile».
«E’ ormai certificato che con l’arrivo dei treni ad idrogeno non aumenterà il numero delle corse, non migliorerà la puntualità e non aumenterà il numero di utenti trasportati. – sottolinea la consigliera pentastellata  – Nulla di tutto questo è previsto a fronte di un investimento complessivo che sfonderà i 360 milioni di euro. Chi ne gioverà? Non certo i pendolari che ogni giorno sono costretti a subire disservizi e disagi per una rete ferroviaria anteguerra. La sperimentazione del treno a idrogeno in val Camonica è solo una costosissima scommessa giocata sulla pelle dei cittadini i quali ne usciranno sempre e comunque perdenti. Eppure la soluzione alternativa ai treni diesel e all’idrogeno c’era ed è la soluzione che in gergo si chiama ad “isole di catenaria” con alimentazione mista batteria/elettrico».

Vi è poi il problema ambientale. Il Progetto H2iseO è nato con il fine di rendere la Valcamonica “la prima Hydrogen Valley d’Italia”, prevedendo non solo l’introduzione dei treni a idrogeno lungo la linea non elettrificata Brescia-Iseo-Edolo, ma anche la realizzazione di tre impianti di produzione, stoccaggio e distribuzione di idrogeno a Brescia, Iseo ed Edolo. Con l’obiettivo di contribuire alla decarbonizzazione del trasporto pubblico locale, l’iniziativa – secondo i promotori – segnerebbe un passo fondamentale verso la trasformazione energetica del territorio e lo sviluppo di una filiera industriale dell’idrogeno in Lombardia. Ma a quanto pare questa è semplicemente l’ennesima operazione di marketing della “green economy” che nulla ha di sostenibile se non a parole, inaugurando l’ennesima operazione di greenwashing.

«L’ennesima presentazione del treno ad Idrogeno da parte di Regione Lombardia, di Fnm, di Trenord e di Alstom serve per gettare nuovo fumo negli occhi all’opinione pubblica. Il tentativo è quello di far apparire la “pomposa” decarbonizzazione della Valle Camonica come un miglioramento delle condizioni dell’aria».

Lo afferma Dario Balotta referente Europa Verde Brescia. «Il 4 ottobre 2023 il treno ad Idrogeno era già stato presentato in pompa magna all’interno di Expo Ferroviaria a Milano. Da allora, in più occasioni, è stato annunciato il suo arrivo ma non ne sono mai stati descritti i vantaggi perchè il costo dell’energia prodotta dall’idrogeno è quattro volte superiore a quella dell’energia idro-elettrica. Non solo l’idrogeno prodotto non sarà “verde” ma “grigio” perchè verrà prodotto con l’inquinante combustione di metano o biometano si Snam e A2A e una minore efficienza energetica. Le preoccupazioni delle popolazione di Edolo, Iseo e Brescia, vicine ai centri di produzione dell’idrogeno, non sono ancora state fugate da nessuno, visto che il tema della sicurezza non è ancora stato normato dal Ministero dei Trasporti e dell’Interno».

«Attualmente – continua Balotta – corrono le spese e i disagi e Trenord è al collasso tecnico date le soppressioni e i continui e numerosi ritardi dei treni. La linea verrà chiusa per lavori di sistemazione delle gallerie da Marone a Edolo, per 6 mesi. FNM aveva escluso la più economica e più ragionevole elettrificazione della linea, adducendo che l’intervento avrebbe comportato lunghi lavori sulla linea. Un pretesto che si sta rivelando non vero. Anzichè elettrificare la tratta, dove l’energia idro-elettrica abbonda, si preferisce produrre l’idrogeno (grigio) con il metano di Snam e A2A. Resta anche da spiegare come mai si spendano quasi 400 milioni di euro tra treni e potenziamenti della linea per avere gli stessi tempi di percorrenza e lo stesso numero di treni giornalieri e purtroppo gli stessi ritardi se non cambia il metodo di gestione».

Rovato, presentato il primo treno ad idrogeno. In funzione nel 2026

Rovato, primo treno a idrogeno italiano: parte il progetto H2iseO

Treni ad idrogeno, Massardi (Lega): «Il futuro dei trasporti su rotaia passa dalla provincia di Brescia»

Treno a idrogeno, Del Bono: “Investimento da 400 milioni, costi 8 volte più alti”

«Treni ad idrogeno a Rovato: c’è ben poco da festeggiare»

Treni ad idrogeno, Europa Verde: «Resta un progetto insostenibile»

 

 

Redazione Sebino Franciacorta

Dopo oltre tre anni il Marocco ha scarcerato un attivista uiguro ricercato dalla Cina

“Mi hanno portato in prigione, glielo hanno chiesto i cinesi. Fate presto perché vogliono mandarmi in Cina”.

Sono le uniche parole che Idris Hasan, un ingegnere informatico uiguro di 34 anni e padre di tre figli, riuscì a dire alla moglie Zaynura in una brevissima telefonata dalla prigione di Tiflet, in Marocco, dove era stato portato il 19 luglio 2021.

Hasan aveva lasciato la Repubblica autonoma uigura dello Xinjiang dieci anni prima e viveva in esilio in Turchia, dove aveva ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Per rispondere a quel grido disperato, “fate presto”, è stato necessario attendere 43 mesi. Tanti ce ne sono voluti – nonostante addirittura l’Interpol avesse già nell’agosto del 2021 annullato il mandato di cattura – prima che le organizzazioni per i diritti umani, Amnesty International in testa, riuscissero a convincere le autorità marocchine a rinunciare a estradare Hasan in Cina, dove l’equazione uiguro=terrorista avrebbe significato una persecuzione certa.

Il 14 febbraio 2025, dopo essere stato rimesso in libertà, Hasan è volato negli Usa.

Riccardo Noury

È finita la battaglia per la libertà di Maysoon Majidi, non quella del popolo Kurdo

Maysoon Majidi prima di tutto è una giovane kurda, poi attivista e regista, fuggita dal regime islamico dell’Iran, uno dei regimi occupanti del Kurdistan, che è stato sacrificato e diviso per la volontà dell’Occidente che nel primo dopoguerra ha modificato la carta geografica e i confini del Medioriente, creando alcuni paesi e sacrificandone altri. Così il Kurdistan è stato diviso tra Iraq, Iran, Turchia e Siria e in seguito il popolo kurdo è stato sempre perseguitato. Per questo ha dovuto scegliere tra rimanere sottomesso o combattere, scegliendo di combattere; da quel momento sono iniziate la resistenza e la lotta del popolo kurdo e in un secolo i Kurdi sono stati attaccati anche con armi chimiche, uccisi in massa subendo un genocidio.

Ancora oggi quando si parla di bombardamento chimico e di genocidio, l’attenzione si rivolge subito e giustamente, a Hiroshima e alla Shoah; purtroppo la storia drammatica e la sofferenza dei Kurdi, come di altri popoli che hanno subìto genocidi negli ultimi anni, sono sistematicamente dimenticate, nel silenzio assordante delle istituzioni e dell’opinione pubblica. I Kurdi hanno vissuto la crudeltà di tutti i regimi che hanno governato e governano tuttora il Kurdistan. In Turchia ci chiamano i “turchi della montagna”, in Siria non abbiamo neanche il diritto di avere i documenti di identità, in Iraq non potevamo avere posti di lavoro se non eravamo del partito del Al-Bath, ci hanno mandato via dalle nostre case e hanno trasferito al nostro posto gli arabi per cambiare la demografia delle città kurde; in Iran eravamo considerati inesistenti: chi uccide un kurdo andrà in paradiso (fatwa di Khomeyni durante la preghiera del venerdì). In nessuno di questi stati occupanti si può parlare il kurdo, a differenza della Regione del Kurdistan autonomo in Iraq, regione federale dal 1990 dopo la guerra del Golfo, quando la lingua kurda è diventata la seconda lingua ufficiale del paese, ma ciò non vuol dire che sia tutto rose e fiori.

Il popolo kurdo, circa 40 milioni di persone, ancora oggi viene definito’ minoranza’ ed è senza una nazione. I diritti dei Kurdi sono calpestati da tutti e anche da coloro che si definiscono difensori dei diritti umani e dei valori di giustizia, che siano politici, giornalisti o attivisti. Per tornare al caso di attualità di Maysoon Majidi, tutti i media parlano in nome della difesa della libertà e dei diritti, ed invece sono i primi che li calpestano, senza che se ne rendano conto; infatti generalizzano il suo caso riferendosi alla norma del velo obbligatorio e alle leggi repressive per le donne in Iran. Riporto anche come esempio la vicenda della giovane kurda Jina Amini (che è stata la scintilla per accendere la rivoluzione “Jin Jyan Azadi” in Iran), che ancora oggi spesso viene chiamata “Mahsa”, il nome che le è stato dato dal regime per obbligo, perché i kurdi non possono avere o essere registrati con il nome kurdo. Nominarla come Mahsa rappresenta la negazione dei diritti della persona “Jina” e del popolo kurdo.

Quando si parla del regime islamico dell’Iran, della politica religiosa nel dominio assoluto, sia l’Occidente che gli stessi cittadini iraniani parlano di repressione nei quaranta anni di potere, che ha reso obbligatorio l’uso del foulard e ha limitato i diritti delle donne. Questo è vero fino a certo punto, perché democrazia e giustizia non c’erano nemmeno durante i regimi precedenti: è vero che lo shah, il sovrano di Persia, l’amico dell’Occidente, non obbligava l’uso del foulard, però non c’erano la democrazia, le libertà fondamentali e il rispetto dei diritti della persona; i kurdi erano sempre perseguitati. Ricordiamo che il carcere di Evrin era stato costruito per i kurdi, per i comunisti e per altri popoli (minoranze) oppositori in Iran. Oggi ad Evrin, dove è stata detenuta Cecilia Sala, si trovano anche tanti iraniani. I Kurdi, quindi, subiscono ingiustizia e repressione sin da quando il Kurdistan è stato smembrato, operazione che ha fatto sì che fuggissero e si rifugiassero in Europa e nel mondo.

Quindi Maysoon Majidi era ed è una dei milioni di Kurdi che si sono allontanati per salvarsi la vita e per avere la libertà; anche lei è dovuta scappare in Europa perché non ha trovato la sicurezza nemmeno in quella parte del Paese che oggi viene chiamato “Regione del Kurdistan autonomo in Iraq”, dove Maysoon si era recata per poter continuare la sua lotta e dove ha subìto gravi minacce. E’ scappata da un regime criminale e finita in un carcere italiano perché considerata ingiustamente scafista; in un paese libero invece di trovare la libertà “è caduta dalla bocca del lupo e finita nella bocca del leone”, come dice un proverbio kurdo.

Però non abbiamo mai perso la fiducia nella giustizia italiana. Maysoon da donna kurda ed attivista ha resistito e ha cercato di difendersi per avere la giustizia che non ha avuto in patria, con l’aiuto di tante persone, associazioni e anche di alcuni politici che le sono stati vicini. Ed è stata finalmente assolta!
Quello che importa sottolineare è che durante tutta l’assurda vicenda, ma anche dopo, Maysoon e il popolo kurdo continuano a subire ingiustizie e negazione dei diritti senza che vi sia alcuna attenzione dei media; c’è stato chi ha cercato purtroppo di strumentalizzare la vicenda di Maysoon per motivi politici e partitici.

E’ vero, tanti hanno difeso Maysoon ma allo stesso tempo tanti continuano a non riconoscere la sua identità di persona: alcuni giornali noti, conduttori televisivi che l’hanno intervistata e politici di chiara fama ancora oggi scrivono “ Maysoon, attivista iraniana, attivista kurda iraniana”, anzichè scrivere ‘attivista kurda’, punto e basta, o ‘attivista del Kurdistan occupato dall’Iran’, oppure ‘attivista di Rojhalat’; in questo modo, anche per ignoranza, negano l’identità e i diritti del popolo kurdo.
Ecco perché, tristemente, la storia del popolo kurdo è “la storia di uno Stato mai nato”.

Gulala Salih, donna Kurda, scrittrice e presidente di UDIK “ Unione donne Italiane e kurde”

Unione Donne Italiane e Kurde (UDIK)

Storia e memoria: incontro a Pistoia per il Giorno del Ricordo

Nell’ambito delle celebrazioni del Giorno del Ricordo, organizzate dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPT), insieme all’Anpi, lunedì 17 febbraio, presso la libreria Feltrinelli di Pistoia, si è tenuto un interessante incontro dal titolo “Violenze e traumi del dopoguerra del Novecento nella regione Alto Adriatica”.

L’incontro originariamente doveva essere condotto da Stefano Bartolini, direttore dell’Istituto Storico pistoiese, in dialogo con Marta Verginella, docente di Storia all’Università di Lubiana. Per motivi di salute purtroppo la Professoressa non ha potuto essere presente ed il dialogo si è svolto allora tra Stefano Bartolini e Francesco Cutolo, ricercato in storia e collaboratore dell’ISRPT, che ha introdotto il tema. E’ subito emersa la necessità di storicizzare gli avvenimenti verificatisi nel periodo indicato lungo il confine orientale, una regione mistilingue e multietnica di notevole complessità per le relazioni tra i vari gruppi, che per secoli avevano convissuto sotto l’Impero Asburgico, ove la costruzione di uno stato nazionale, per definizione monoetnico, incontra grosse difficoltà. Con le conquiste seguite alla Grande Guerra, l’Italia occupa nuove porzioni di questo territorio, ritenuto erroneamente italiano da sempre, scontrandosi con una realtà in cui la popolazione, si parla di circa 400.000 persone di etnia slovena o croata, ha invece grande diffidenza verso i nuovi arrivati. Tale atteggiamento sarà interpretato come apertamente ostile dall’esercito italiano, che inizia ad agire molto duramente, anche attraverso fucilazioni, accusando molti civili di essere sabotatori o spie del nemico. Dalla trattazione è emerso poi l’atteggiamento subito apertamente anti slavo e razzista del fascismo, che si è manifestato fino dal discorso che Mussolini tenne a Trieste il 2 settembre 1920, ove definì gli slavi “tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili” e che poi sfociò, il 13 luglio del 1920, nell’incendio del Narodni Dom, la “casa della cultura” slovena di Trieste, nel corso di quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato“. Con la salita al potere del fascismo si assiste inoltre alla sistematica eliminazione di ogni riferimento alla lingua e alla cultura slovena. L’unica lingua ammessa, ovunque e comunque, è l’italiano. Tutti i nomi, sia di persone, che di località vengono italianizzati e tutte le organizzazioni slave, economiche, politiche o culturali, vengono cancellate, in ciò che è stato definito un vero e proprio etnocidio.

Nel maggio del 1941 l’Italia, con la Germania, invade la Slovenia e ne annette la parte meridionale, che diventa la Provincia Italiana di Lubiana. Nell’area, dove vivevano circa 320.000 persone, sorge subito un movimento di resistenza, guidato dai comunisti sloveni, per contrastare il quale l’Italia fascista invia un esercito di circa 60.000 uomini, che mette in atto una feroce repressione e una vera e propria guerra ai civili, durante la quale, in appena due anni, circa 50.000 sloveni o persero la vita o subirono gravissime offese. Esemplari sono le parole del Generale Roatta, comandante le truppe italiane, che nel marzo del ’42, all’interno della famigerata circolare 3C, stabiliva che “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula «dente per dente», ma bensì da quella «testa per dente»”. Gli farà eco il suo sottoposto, generale Robotti, che in una nota ai suoi soldati osserva che “si ammazza troppo poco!”. Oltre a uccisioni, incendio di villaggi e altre violenze di vario tipo, l’esercito italiano colpisce la popolazione slovena con deportazioni di massa, tra cui donne e bambini, nel tentativo di creare terra bruciata intorno ai resistenti. I deportati sloveni, assieme ad altri croati, montenegrini, greci ed ebrei, per un totale di circa 100.000 persone, vengono internati in una serie di campi di concentramento, sparsi per Slovenia, Croazia e Italia, dove circa 5.000 di loro moriranno a causa di fame, freddo e malattie legate alle terribili condizioni di detenzione, intenzionalmente applicate dagli italiani. Illuminanti sono le affermazioni del generale Gambara che nel ’43, riferendosi al campo sull’isola di Arbe (Rab), scrisse “Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo”. Ad Arbe, su un totale di circa 10.000 civili deportati, compresi donne, vecchi e bambini, circa 1500 morirono per le condizioni di detenzione. Il più piccolo aveva meno di un anno, il più vecchio oltre novanta.

Tutto ciò terminerà l’8 settembre 1943, con l’armistizio e lo sfascio totale dell’esercito italiano. Nelle regioni di confine parte a questo punto la vendetta delle popolazioni slave che, con una sorta di rivolta contadina non organizzata, aggrediscono, in vendette personali e regolamenti di conti, i simboli e i rappresentanti dello stato occupante. E’ questa la prima parte della vicende delle cosiddette foibe, cavità carsiche, dove vengono gettate alcune delle persone uccise, al fine di occultarne i corpi. Questa fase si conclude rapidamente con l’arrivo dell’esercito tedesco, che riprese subito il controllo del territorio, poi direttamente annesso al Reich, e continuò l’occupazione e la guerra con la consueta catena di crimini e stragi di civili. Nella primavera del 1945 la guerra termina con la vittoria dell’armata titina, che arriva a Trieste, assieme agli Alleati e ai partigiani italiani. E’ in questo periodo che, nelle zone controllate dall’esercito jugoslavo, si svolge la seconda e più vasta fase della sanguinosa vicenda delle foibe, anche se in questo caso la maggior parte delle vittime non moriranno nelle foibe, ma nei campi di prigionia jugoslavi, non per fucilazioni, bensì ancora per le pessime condizioni di detenzione. In questa fase, alla fine della guerra, la Jugoslavia è un vero e proprio Stato comunista, che vuole imporre il proprio controllo su tutti i territori liberati, sia punendo coloro che sono considerati criminali di guerra, collaborazionisti o comunque nemici della Resistenza, sia colpendo tutti quelli ritenuti pericolosi, perché contrari al comunismo, o, nel caso del confine, perché contrari all’instaurazione del potere jugoslavo.

E’ sempre nell’ambito di queste violente vicende belliche e post belliche che si inseriscono anche gli altrettanto dolorosi avvenimenti dell’esodo da Dalmazia, Istria e Venezia Giulia, sia delle popolazione italiane che là vivevano da tempo immemore, sia di quelle immigrate dopo le conquiste territoriali della prima guerra mondiale o a seguito dei tentativi dell’Italia fascista di italianizzare i territori originariamente slavi o multietnici. L’esodo di circa 250.000 italiani e 50.000 tra sloveni e croati, si svolgerà in più fasi, che corrispondono alla stabilizzazione del quadro statuale e dei confini, con l’allargamento progressivo delle zone amministrate dalla Stato Jugoslavo il quale, pur non emanando mai alcuna norma che obbligasse nessuno ad andarsene, fece in vario modo pressioni per favorire la partenza degli italiani. Le partenze si concentrarono infatti soprattutto in occasione dei trattati del 1947 e del 1954, quando apparve chiaro che gli jugoslavi non se ne sarebbero andati dai territori loro assegnati.

Dalla lunga disamina dei relatori è emerso quindi che le tragiche vicende di foibe ed esodo vadano comprese, anche se non giustificate, all’interno di un contesto storico, che spesso non coincide con la memoria dei singoli.

Enrico Campolmi

In nome e per conto di tutti i Luca Rossi

Ci sono a volte dei corto circuiti emotivi che consentono dei collegamenti, delle connessioni che offrono sprazzi di lucidità.

Ieri sera ero a una partecipatissima serata organizzata da Hope Club e da Biella antifascista nella cittadina ai piedi del Mucrone.

Ascoltavo Perla Allegri di Antigone e Gianluca Vitale, avvocato, descrivere i dispositivi contenuti nel famigerato DDL Sicurezza, in corso di approvazione in Parlamento.

Sarà stata la stessa emozione che ha portato Perla Allegri ad aprire il suo intervento dicendo che normalmente si sente sola a trattare questi temi scomodi e invece, data la folta partecipazione, “vedere questa sala piena di persone stasera mi riempie il cuore”

Vi è stata poi, certo, una ampia e fattuale spiegazione di come questo Decreto “Sicurezza”, qualora venisse approvato, ci renderà ancora più insicuri, e di quanto sia calibrato per attaccare e rendere penalmente perseguibili i giovani, i migranti e i detenuti. E di questo scriveremo ancora nei prossimi giorni e mesi.

Eppure quella che sento viva, la mattina dopo, è ancora la parte emotiva. Ieri guardavo Perla e mi veniva da piangere di rabbia. Il perché l’ho spiegato nel breve intervento che ho fatto appena conclusi quelli dei relatori.

39 anni fa, a Milano, esattamente il 23 febbraio del 1986 morì un ragazzo a cui, pur non avendolo conosciuto, sono molto legato. Si chiamava Luca Rossi.

E’ la sera del 23 Febbraio 1986. Luca ed un amico, giovani militanti e studenti universitari non ancora ventenni, stanno correndo per prendere la filovia in Piazzale Lugano, quartiere Bovisa di Milano. In un altro punto della stessa piazza, alcune persone discutono prima con calma e poi sempre più animatamente e scoppia una rissa. Una delle persone coinvolte è un agente fuori servizio in forza alla Digos. La rissa è un susseguirsi di pestaggi e discussioni e dopo oltre quindici minuti finisce senza che l’agente chiami rinforzi. Due delle persone coinvolte fuggono in auto ed il poliziotto incapace di affrontare la situazione con la ragione e l’autorità richieste, estrae la sua pistola d’ordinanza ed in posizione di tiro, facendo arbitrariamente e illegittimamente uso delle armi, spara ad altezza d’uomo per colpire i fuggitivi. Uno dei proiettili ferisce a morte Luca che si trovava a passare per caso in quel luogo e in quel momento. Ma non è un “caso” che consente al poliziotto di sparare. E’ una legge, la cosiddetta “Legge Reale” che conta al suo attivo negli anni decine e decine di vittime “per sbaglio”. La successiva sentenza definitiva, che chiude il processo voluto dai familiari per ricerca di verità e giustizia e non certo per vendetta, riconosce l’agente colpevole di omicidio colposo aggravato.

Queste le parole che descrivono la storia di Luca sul sito dei suoi amici e compagni, che poi sono anche i miei compagni e amici.

Il riconoscimento di colpevolezza dell’agente che usò impropriamente la sua arma di servizio e che colpì Luca che correva per prendere il filobus, nel quadro normativo del DDL Sicurezza, non sarebbe più possibile, o sarebbe molto più difficile; in quanto il decreto prevede la possibilità, per il personale di polizia, di avere la propria arma personale in qualunque momento e di poterla utilizzare anche non in servizio.

Ripeto quello che ho detto ieri sera: questa norma è espressione di una ideologia autoritaria che vuole negare tutto ciò che c’è di umano non solo nelle nostre Leggi, ma proprio nelle nostre vite. E’ il caso di non rimanere ulteriormente divisi e isolati. Quello che dobbiamo fare è unirci e combattere. Per restare umani

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento,
perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto,
perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi.
Ma poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente,
perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

 

Ettore Macchieraldo

Un welfare sempre meno universalistico e sempre più disuguale

È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.

Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.

“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.

Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”

Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).

I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).

La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.

Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.

Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).

Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.

Qui per scaricare il Rapporto: https://www.sussidiarieta.net/cn4351/welfare-motore-di-sviluppo-si-ma-previa-ristrutturazione.html

 

Giovanni Caprio