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I Miserabili, ovvero dell’inevitabile tracollo dell’UE

E così ci siamo finalmente arrivati. Dopo tanto vociare sul ruolo “centrale” dell’Europa nel confronto scontro con l’Oriente, dopo l’autoesaltazione per aver sostenuto e affiancato l’Ucraina contro la “vile aggressione”, dopo i miliardi spesi in armi e aiuti vari all’Ucraina per costruire  l’illusione di una possibile vittoria contro la Russia perché “…oggi l’Ucraina e domani i cavalli dei Cosacchi che si abbeverano a piazza S.Pietro”, dopo la genuflessione totale sia dei “centrodestri” che dei “centrosinistri” di fronte agli affari USA nella speranza di un posticino al tavolo delle ricostruzioni/speculazioni, ecco che arriva Trump a sconvolgere le aspettative e a sparigliare le carte di un mazzo al quale già dall’inizio mancavano le figure più importanti.

Eppure i segnali di una fine ingloriosa della politica imperiale della globalizzazione c’erano tutti, dal protagonismo sempre più forte della Cina al ruolo sempre più centrale dei BRICS, dalla fine del monopolio USA delle tecnologie più avanzate alle possibilità sempre più concrete di dedollarizzare gli scambi economici e finanziari di una parte consistente del mondo, dalla rinnovata importanza delle materie prime, dal grano alle terre rare, e degli stati che le detengono al rafforzamento di imperialismi che tendono ad autonomizzarsi dagli USA in particolare nel Medio Oriente come Turchia , Israele, Arabia Saudita ed Emirati.

Insomma uno scenario da fine Impero che domina lo scacchiere internazionale da una decina d’anni e nel quale gli USA di Biden hanno cercato di forzare la mano spostando il confine della Nato sempre più ad est, distribuendo sanzioni economiche a Russia, già da prima della guerra, Cina, Iran, Venezuela e chiunque non facesse riferimento a quel complesso quadro ideologico politico economico e militare chiamato ”Occidente”.

Di tutto questo si è invece reso perfettamente conto il nuovo inquilino della casa bianca che con la praticità del palazzinaro tirchio di fronte alle pareti del palazzo UE che scricchiolano ha chiesto l’aumento dell’affitto (arrivare al 5% di spese militari comprando armi ovviamente dagli USA) e al concorrente forte preferisce offrire un accordo piuttosto che una guerra. Anche con Ucraina e Palestina l’atteggiamento è uguale: ”Ti ho dato miliardi adesso mi prendo da uno le terre rare e dall’altro la costa di Gaza per farne la Saint Tropez del Medio Oriente”. E così mentre i bimbiminkia (per usare il linguaggio istituzionale italiano) si dividono tra chi piagnucola e chi cerca di arruffianarsi Papi mollando gli altri, i Grandi si preparano ad una nuova Yalta.

Era possibile un’altra e meno ingloriosa fine? Assolutamente si, come per tre anni abbiamo urlato nei pochissimi spazi di comunicazione mainstream che ci hanno concesso chiamandoci comunque traditori, Putiniani, filo Hamas, sciocchi pacifisti senza senso pratico, zecche rosse (compreso sua Santità il Papa) o neonazi. Gli spazi per un intervento diplomatico importante c’erano tutti tant’è che l’Inghilterra, primo vassallo di Biden, ha dovuto mettersi di traverso per impedirlo (i servizi UK sono fortemente sospettati di essere gli autori del sabotaggio che ha distrutto il gasdotto che dalla Russia forniva la Germania), ma si è preferito sacrificare la vita di centinaia di migliaia di Ucraini, nonché le condizioni delle fasce di popolazione economicamente più deboli di tutta Europa in nome dell’ ennesima guerra contro il male assoluto.

Non voglio qui assolvere Putin dalle sue indiscutibili colpe bensì sottolineare ancora una volta che la guerra non può mai essere la soluzione neanche per la Russia che dovrà comunque rendere conto al suo popolo delle centinaia di migliaia di giovani soldati mandati a morire nonché di un continuo irrigidimento di un regime che lascia sempre meno spazi alla possibilità di opporsi. E adesso? Direi che siamo alla frutta, poiché mentre oggi a Riad si riuniscono gli inviati di Trump e Putin per stendere un’ipotesi di accordo peraltro senza Zelenski, alcuni leader europei si sono riuniti ieri a Parigi su invito di Macron, presidente in bilico, per stilare una posizione comune per partecipare ai negoziati. Risultato? Assolutamente nessuno, zero totale poiché è ormai chiara la frattura tra chi, Meloni in testa, preferisca accreditarsi nel modo migliore, cioè supinamente, al nuovo imperatore e chi vorrebbe  che la guerra continuasse ma non può permetterselo.

Saremo quindi costretti ancora una volta ad una sudditanza senza scampo?

Forse è troppo presto per dirlo, l’unica cosa certa è che un campo avverso alla pace è andato irrimediabilmente in crisi mostrando tutte le sue fragilità e questo apre sicuramente scenari che potrebbero rivelarsi importanti ma soprattutto proficui per il ruolo che potrebbero assumere i movimenti pacifisti e non solo. I 150 miliardi di euro bruciati dalla UE in aiuti militari all’Ucraina sono fondi tolti alla sanità, alla scuola pubblica, alla previdenza, agli investimenti pubblici e devono diventare una leva per rilanciare piattaforme sindacali e sociali in tutta Europa che mobilitino il mondo dei lavori e i movimenti per impedire questa volta ulteriori aumenti delle spese militari volte a rilanciare velleità imperiali della UE a scapito delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di cittadini.

I sondaggi sul favore che incontravano le politiche guerrafondaie in Italia e non solo, nonostante gli sforzi dei miseri “giornalistoni” che li proponevano, non riuscivano a nascondere maggioranze contrarie all’invio di armi, così come le recenti elezioni europee hanno mostrato una distanza sempre più abissale tra i partiti presenti e il popolo che per metà non ha votato sottolineando in questo modo la non rappresentatività di un quadro politico istituzionale quasi completamente allineato sulla guerra e sulle scelte economico-politiche che ne conseguono. Questa maggioranza pacifista deve oggi riprendere la parola e tornare protagonista della scena ed ha un solo modo per farlo: creare lotta, comunicazione, comunità.

Redazione Italia

Leonard Peltier è libero

Finalmente Leonard Peltier è libero e a casa sua.

Questa una delle prime foto  arrivate dove è insieme alla sua famiglia e agli amici del Comitato che sempre l’ha difeso e ne ha chiesto la liberazione.

Peltier è stato liberato grazie a un provvedimento delle ultime ore del Presidente Biden poco prima di cedere il suo incarico. Non è stata la grazia che tutti chiedevano dopo 49 anni di incarcerazione in base a prove inesistenti ma gli ha dato  la possibilità di essere vicino ai suoi cari e amici e di curarsi.

Questo grazie al grande movimento di solidarietà internazionale di cui Pressenza è lieta di essere parte, dimostrando che l’azione umana, della società civile, non è un’azione inutile e senza speranza, come a volte sembra.

Tutti gli articoli sul caso Peltier su Pressenza

Redazione Italia

In Italia sempre più spesa sanitaria privata

Secondo i dati ISTAT del sistema dei conti della sanità (ISTAT-SHA), nel 2023 la spesa sanitaria totale in Italia è stata pari a € 176,1 miliardi. Una cifra che comprende la spesa pubblica (€ 130,3 miliardi) e quella privata, suddivisa nelle sue due componenti: la spesa out-of-pocket (€ 40,6 miliardi), sostenuta direttamente dalle famiglie, e la spesa intermediata da fondi sanitari e assicurazioni (€ 5,2 miliardi). Le corrispondenti distribuzioni percentuali riflettono tre realtà di fatto: il sottofinanziamento pubblico, il carico economico sulle famiglie e l’ipotrofia del sistema di intermediazione. Infatti, il 74% della spesa sanitaria è pubblica, mentre della spesa privata l’88,6% è a carico delle famiglie e solo l’11,4% è intermediata. Sono alcuni dei dati del Report della Fondazione GIMBE sulla spesa sanitaria privata, commissionato dall’Osservatorio Nazionale Welfare & Salute (ONWS) e presentato al CNEL.

La spesa out-of-pocket, che nel 2023 ha raggiunto il 23% della spesa sanitaria totale (ben oltre il limite ideale del 15% indicato dall’OMS), si legge nel Report della Fondazione GIMBE, non può essere semplicemente ridotta attraverso un aumento della spesa intermediata. Per raggiungere questo obiettivo tre sono le principali azioni necessarie: potenziare il finanziamento pubblico, migliorare l’appropriatezza delle prestazioni e rimodulare i LEA per renderli sostenibili. In questo contesto, il secondo pilastro deve integrare il sistema pubblico, anziché tentare di sostituirlo, concentrandosi sulle prestazioni extra-LEA.”

Infatti, la Fondazione GIMBE lancia un allarme anche a proposito dei fondi sanitari, sottolineando come l’incapacità del SSN di garantire prestazioni in tempi adeguati aumenti il numero di iscritti ai fondi sanitari, mentre la crisi economica e l’inflazione continuano a limitare la possibilità di incrementare i contributi. Uno scenario che porterà ad un aumento della spesa out-of-pocket (che già oggi pone l’Italia al di sopra della media UE) per chi può permetterselo e a una crescente rinuncia alle cure da parte delle fasce più svantaggiate della popolazione, con un inevitabile peggioramento degli esiti di salute. In sostanza il secondo pilastro può essere sostenibile solo se integrato in un SSN “in salute”. Diversamente, sottolinea GIMBE, rischia di crollare insieme al sistema pubblico, spianando la strada alla privatizzazione della sanità, aggravando diseguaglianze e iniquità e tradendo l’articolo 32 della Costituzione e i princìpi fondanti del SSN.

Dal lavoro della Fondazione GIMBE emerge una situazione che spinge sempre di più verso la rinuncia alle cure. Infatti, la spesa sanitaria delle famiglie è sempre più “arginata” da fenomeni che incidono negativamente sulla salute delle persone: limitazione delle spese sanitarie, che nel 2023 ha coinvolto il 15,7% delle famiglie, indisponibilità economica temporanea per far fronte alle spese mediche (5,1% delle famiglie nel 2023) e rinuncia alle cure. In particolare, nel 2023 circa 4,5 milioni di persone hanno dovuto rinunciare a visite o esami diagnostici, di cui 2,5 milioni per motivi economici, con un incremento di quasi 600.000 persone rispetto al 2022. Le differenze regionali sono marcate: 9 Regioni superano la media nazionale (7,6%), con la Sardegna (13,7%) e il Lazio (10,5%) oltre il 10%. Al contrario, 12 Regioni si collocano sotto la media, con la Provincia autonoma di Bolzano e il Friuli Venezia Giulia che registrano il valore più basso (5,1%).

Differenze tra Regioni che appaiono sempre più marcate: parametrando la spesa sanitaria trasmessa al Sistema Tessera Sanitaria alla popolazione residente ISTAT al 1° gennaio 2023, il valore nazionale è di € 730 pro-capite, con un range che va dai € 1.023 della Lombardia ai € 377 della Basilicata. Questa distribuzione evidenzia che le Regioni con migliori performance nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) registrano una spesa pro-capite superiore alla media nazionale, mentre quelle del Mezzogiorno e/o in Piano di rientro si collocano al di sotto. Ma per cosa spendono le famiglie? Secondo i dati ISTAT-SHA, le principali voci di spesa sanitaria delle famiglie includono l’assistenza sanitaria per cura (comprese le prestazioni odontoiatriche) e riabilitazione, che rappresenta il 44,6% del totale (€ 18,1 miliardi). Seguono i prodotti farmaceutici e apparecchi terapeutici (36,9%, pari a € 15 miliardi) e l’assistenza a lungo termine (LTC), che assorbe il 10,9% della spesa complessiva, per un totale di € 4,4 miliardi. “Tuttavia – spiega il Presidente della Fondazione GIMBEle stime effettuate nel report indicano che circa il 40% della spesa delle famiglie è a basso valore, ovvero non apporta reali benefici alla salute. Si tratta di prodotti e servizi il cui acquisto è indotto dal consumismo sanitario o da preferenze individuali quali ad esempio esami diagnostici e visite specialistiche inappropriati o terapie inefficaci o inappropriate”.

Qui per scaricare il Rapporto: https://salviamo-ssn.it/attivita/osservatorio/spesa-sanitaria-privata-2023.

Giovanni Caprio

Il liceo Rosa sciopera e scende in piazza

Partecipata la manifestazione sotto l’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte contro il dimensionamento del Liceo Rosa con sedi a Susa e Bussoleno

CGIL e CUB hanno indetto al Rosa uno sciopero con una piattaforma che non lascia dubbi:
– L’esclusione, anche per gli anni futuri al 2025/2026, di ogni ipotesi di dimensionamento riguardanti l’Istituto
– La nomina di un Dirigente scolastico titolare dal 1° settembre 2025
– La tempestiva sostituzione del Dirigente reggente con l’affidamento della reggenza ad altro Dirigente scolastico

Massimiliano Rebuffo, segretario provinciale della CGIL-FLC, ha dichiarato che l’adesione allo sciopero è stata dell’80%.

La Dirigente reggente alla quale si fa riferimento nelle rivendicazioni è la Giaccone, Dirigente dell’Istituto Ferrari di Susa che nel 2022 è stata nominata reggente del Rosa. Nel comunicato stampa la CGIL-FLC spiega chiaramente la motivazione: “si è incrinato il rapporto con la comunità educante”.

Piattaforma pienamente condivisa con il comitato di cittadini “Insieme per il Rosa” i cui esponenti ci hanno ribadito con forza le rivendicazioni espresse in questo loro comunicato, anch’esso estremamente esplicito.

Alla manifestazione hanno partecipato i lavoratori (docenti e non docenti) del Rosa, genitori, studenti, molti esponenti del comitato “Insieme per il Rosa”. Una delegazione ha chiesto di parlare con Stefano Suraniti, dirigente dell’USR, il quale ha risposto – secondo quanto dichiarato al microfono da Rebuffo – rendendosi disponibile a ricevere solo genitori, studenti e lavoratori non sindacalizzati, in sostanza si è rifiutato di ricevere i rappresentanti sindacali.

Il “divide et impera” non ha tuttavia funzionato (a meno che lo scopo non fosse in realtà quello di non confrontarsi): non è salito nessuno, il patto tra lavoratori, studenti, cittadini e sindacati ha tenuto.

I manifestanti hanno scandito alcuni slogan: “Fateci Fateci Fateci salire”, “Non chiude la bocca, il Norby (Norberto Rosa n.d.r.) non si tocca”, “Tout le monde déteste la Giaccone”, e sono stati apposti dei post-it sul portone della sede dell’USR con le richieste scritte dai ragazzi.

Fabrizio Maffioletti

Ad Acquappesa oltraggiata la targa del Samudaripen

Lunedì 29 luglio 2024, presso la sala stampa della Camera dei deputati, si svolse la conferenza stampa, per presentare la proposta di legge per far riconoscere all’Italia il Samudaripen il genocidio dei rom e sinti nel corso della seconda guerra mondiale, alla quale parteciparono: l’Onorevole Devis Dori, AVS, primo firmatario e promotore proposta di legge; Onorevole Luana Zanella capogruppo AVS; Andrea Vitello storico, scrittore che ha conseguito un diploma di perfezionamento allo Yad Vashem sulla Shoah, ha scritto vari libri e collabora con varie testate; Moni Ovadia attore, regista e scrittore; comm. dott Carla Osella presidente nazionale A.i.z.o. rom sinti direttore responsabile della rivista “Rom e sinti oggi” scrittrice di oltre 50 pubblicazioni è stata nominata presso il Parlamento di Belgrado World Roma Organization commissario internazionale del Porrajmos; Commendatore Santino Spinelli (musicista, docente universitario, scrittore). Gennaro Spinelli presidente nazionale UCRI-Unione Comunità Romanès Italia. Il Parlamento Europeo lo aveva già riconosciuto nel 2015, invitando tutti i paesi membri dell’Unione Europea a fare altrettanto. 

La proposta di legge prevede che in occasione della Giornata nazionale tutti gli enti nazionali e locali e le scuole promuovano cerimonie, convegni e altre attività volte a ricordare il genocidio dei rom e dei sinti. Il testo della proposta di legge è consultabile a questo link: https://www.camera.it/leg19/126?leg=19&idDocumento=1914 

Proprio questo 27 gennaio, in occasione del giorno della Memoria ad Acquappesa, in provincia di Cosenza, era stata posta una targa commemorativa del Samudaripen. Tuttavia  in questi giorni, come si vede nella foto, è stata vandalizzata e oltraggiata. In merito a quanto successo, l’UCRI ha diramato questo comunicato stampa:

«Egregio Comune,

Viste le recenti polemiche sfociate in vili atti di vandalismo, che hanno visto la rottura e la rimozione della targa al Samudaripen, chiediamo formalmente non solo il ripristino e la cura della targa alla Memoria ma anche che l’Amministrazione prenda una posizione di ferma condanna contro questi atti di antiziganismo.

La Comunità Romanès è profondamente addolorata per quanto accaduto. Non c’è cosa peggiore di provare a distruggere la Memoria.

Sicuri di trovare nella Vostra Amministrazione un fermo alleato, 

Vi porgiamo,

Cordiali saluti.

UCRI – Unione Comunità Romanès d’Italia».

Tutte le persone che volessero protestare per l’accaduto possono inviare una mail a protocollo.acquappesa@asmepec.it

Quanto successo dimostra ancora di più, la grande importanza di riconoscere il Samudaripen in Italia, proprio per questo la proposta di legge dovrà essere approvata ai fini di fare i conti con la storia.

 

Andrea Vitello

Storie dall’Albania: Volersi Bene, Restare o Partire

Il fotoreporter Giovanni Simone ha trascorso l’intero mese di dicembre 2024 esplorando l’Albania, un paese affascinante e vicino all’Italia, ma che per troppo tempo è rimasto ai margini dell’attenzione collettiva. In questo angolo dei Balcani, dove il passato e il presente si intrecciano armoniosamente, gli albanesi cercano un legame forte con luoghi visti come porti sicuri e opportunità per un futuro migliore.

Questo è il secondo di una serie di fotoreportage dedicati all’Albania, con un focus particolare sulla vita nel paese e sulle contraddizioni di Tirana.

L’Albania, una terra di contrasti, intreccia la ricchezza della sua storia millenaria con le sfide della modernità. Se da un lato la sua posizione nei Balcani la rende un crocevia culturale e geografico affascinante, dall’altro le disuguaglianze economiche e sociali segnano profondamente la quotidianità dei suoi abitanti.

Con oltre il 51% della popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale, il paese si colloca tra i più vulnerabili del continente europeo, con un tasso nettamente superiore alla media UE del 21%. Nelle aree rurali, questa percentuale raggiunge quasi il 60%. A Tirana, il cuore economico dell’Albania, gli stipendi variano significativamente: un impiegato in una grande impresa può guadagnare fino a 900 euro al mese, mentre chi lavora in una microimpresa fatica ad arrivare a 400 euro. Nelle campagne, dove l’agricoltura è la principale fonte di reddito, gli stipendi sono ancora più bassi. I pensionati, con assegni medi di soli 150-200 euro al mese, vivono in condizioni di estrema vulnerabilità, spesso dipendendo dal supporto familiare, prolungando la loro vita lavorativa o affiancando piccoli lavoretti per arrotondare il reddito.

Le minoranze etniche, come la comunità Rom e gli Ashkali, affrontano sfide ancora più ardue. Circa il 90% dei Rom è disoccupato e il 40% delle loro famiglie vive in condizioni di precarietà abitativa. Anche gli Ashkali, una comunità di origine balcanica, si trovano spesso ai margini della società. La povertà costringe molti bambini a lavorare anziché frequentare la scuola, perpetuando un ciclo di esclusione difficile da interrompere.

Il costo della vita in Albania riflette una realtà complessa. Sebbene gli affitti e il cibo possano risultare più economici rispetto all’Italia, i bassi salari rendono la sopravvivenza una sfida quotidiana. A Tirana, l’affitto di un appartamento varia tra i 400 e gli 800 euro al mese, mentre acquistare una casa è un privilegio per pochi: il prezzo medio si aggira intorno ai 1.600 euro al metro quadro, con mutui difficili da ottenere per le elevate garanzie richieste. L’Albania, un paese importatore netto, dipende fortemente dall’estero per i beni di consumo, inclusi quelli di prima necessità. Il pollo si aggira intorno ai 7 euro al kg, il latte a 1,70 euro al litro e una dozzina di uova costa circa 3 euro. Il pane, alimento essenziale nella dieta albanese, ha un prezzo medio di 1,50 euro al kg. L’accesso all’acqua potabile rimane una delle sfide più critiche. Nonostante le abbondanti risorse idriche, la fornitura di acqua sicura e costante è problematica in molte zone, inclusa la capitale. Di conseguenza, gran parte della popolazione acquista acqua in bottiglia per il consumo quotidiano, con un costo medio di circa 60 centesimi di euro a bottiglia.

Tirana incarna le più evidenti contraddizioni, un luogo dove la fragilità economica si scontra con un’apparente vivacità sociale. La città è costellata di bar e caffè, con una densità sorprendente di un locale ogni 152 abitanti, facendone una delle capitali con il maggior numero di punti di ritrovo per persona. Ma dietro a questa vitalità si cela una realtà più complessa: nei mesi invernali, chi non può permettersi il riscaldamento domestico cerca rifugio in questi spazi per sfuggire al freddo pungente. Le infrastrutture cittadine mostrano gravi carenze: come nel resto dell’Albania, a Tirana manca una rete di gas cittadino, costringendo molti abitanti a fare affidamento su vecchie e costose pompe di calore, spesso inefficienti. Nei parchi cittadini, il sole diventa una risorsa preziosa, un rifugio naturale dove le persone si riuniscono per godere del calore e dedicarsi ad attività all’aria aperta.

Per molti albanesi, il proprio paese è solo una tappa temporanea, un luogo in cui vivere in attesa di emigrare. La loro sopravvivenza dipende dalla capacità di adattarsi a una realtà complessa, mentre l’Unione Europea rappresenta una speranza, un porto sicuro dove costruire un futuro dignitoso. Questa riflessione sulla vita in Albania invita a guardare oltre le statistiche, a comprendere la quotidianità di un paese che oscilla tra la resistenza e la fuga, tra il desiderio di costruire un domani migliore e la necessità di cercarlo altrove. Eppure, spesso, gli albanesi, immersi nella lotta per la sopravvivenza, dimenticano il significato più profondo di “Volersi bene”. Il concetto di benessere personale e collettivo viene relegato in secondo piano di fronte alla necessità di garantire il minimo indispensabile.

In Albania, “Volersi Bene” è uno stato d’animo da riscoprire, non solo come aspirazione individuale, ma come valore collettivo, capace di dare significato a un futuro costruito su fondamenta più stabili.

 

su Flickr https://flic.kr/s/aHBqjC35b1

 

“Nei pressi del Castello di Argirocastro, un’anziana venditrice offre erbe essiccate e tè di montagna (Sideritis), un infuso tradizionale noto per le sue proprietà antinfiammatorie, digestive e rilassanti. Ricco di antiossidanti, aiuta a rafforzare il sistema immunitario e alleviare raffreddore e problemi digestivi, tramandando antichi rimedi naturali della tradizione albanese.”

“Nel parco centrale di Berat, due anziani si sfidano a scacchi, approfittando del sole per riscaldarsi all’aria aperta. Questo gioco, profondamente radicato nella cultura albanese, è una passione diffusa nei caffè e nei parchi, simbolo di strategia e socialità, tramandato di generazione in generazione nelle città storiche del paese.”

“Nel quartiere delle case popolari di Coriza, una donna Ashkali stende il bucato sulla ringhiera della scuola dopo averlo lavato a mano nel giardino. Un tempo la sua casa ospitava tre famiglie in tre stanze con bagno esterno senza acqua corrente, ma oggi è rimasta solo lei con due dei figli, mentre gli altri sono emigrati all’estero in cerca di un futuro migliore.”

 

“All’ingresso di Moscopoli, pittoresca località montana rinomata per le sue antiche chiese ortodosse e il pregiato miele di fiori selvatici, una donna gestisce la vendita di prodotti tipici locali, offrendo ai visitatori un assaggio delle tradizioni e dei sapori autentici di questo affascinante villaggio.”

“In Albania, il tacchino è il piatto simbolo del cenone di Capodanno. Nei giorni precedenti, le strade si riempiono di improvvisati allevatori che guidano gruppi di tacchini con lunghi bastoni, conducendoli verso mercati improvvisati lungo le strade, dove vengono venduti ai passanti in una tradizione che si ripete ogni anno.”

“Nel bar del quartiere delle case popolari di Coriza, uomini del posto si sfidano a Tavëll, la versione albanese del backgammon. Nei mesi freddi, i bar diventano rifugi dal gelo montano, luoghi di socialità dove tra una partita e un caffè turco si scambiano storie e si rafforzano legami, mantenendo viva una tradizione radicata nella cultura locale.”

“Tra le case popolari di Tirana, recentemente assegnate a famiglie rom, un rappresentante del Movimento Bashkë mi accompagna in un viaggio tra storie di resilienza e speranza. Mentre la comunità affronta sfide quotidiane, il movimento si batte per l’inclusione e i diritti sociali, in un’Albania che cambia tra difficoltà e nuove opportunità.”

“La sussistenza delle minoranze etniche in Albania, come i rom, è spesso legata al recupero di rifiuti urbani. Materiali come la plastica vengono raccolti e portati nei centri di raccolta, dove vengono scambiati per pochi lek al chilo. Questa attività rappresenta una fonte di reddito essenziale, nonostante le difficili condizioni di lavoro e la mancanza di regolamentazione.”

“Chi si nasconde sotto questo topolino? In uno dei parchi di Tirana, un anziano signore lavora come figurante per foto con i passanti. Tra sorrisi e scatti ricordo, il costume diventa il suo mezzo di sostentamento, trasformando un angolo verde della capitale in un piccolo teatro quotidiano di incontri e fantasia.”

“Nel mercato di Scutari, un venditore siede con eleganza davanti alla sua bancarella di tessuti. Con giacca di pelle, sciarpa e coppola, incarna la tradizione albanese di vestire con cura, tipica degli anziani, per cui l’eleganza è segno di rispetto, disciplina e dignità. Un codice non scritto che ancora resiste tra le generazioni più mature.”

“Lungo le strade di Tirana, piccoli banchi colmano i marciapiedi di colori vivaci, vendendo frutta e verdura anche nel cuore dell’inverno. Sebbene l’Albania abbia una forte tradizione agricola, gran parte di questi prodotti proviene dall’estero, importati per soddisfare la domanda stagionale. Tra le cassette di peperoni e pomodori, il commercio resiste al freddo, mantenendo viva l’anima dei mercati di strada.”

Nel cuore del vecchio Bazar di Argirocastro, una signora attende pazientemente i clienti seduta davanti alla sua bottega. Con mani esperte si dedica all’uncinetto, un’antica arte albanese tramandata da generazioni. Tra fili e punti, crea con passione nuovi prodotti da vendere, mantenendo vive le tradizioni artigianali di questo affascinante angolo storico.”

“In Piazza Skënderbej a Tirana, un anziano signore si traveste da Babbo Natale per i festeggiamenti di Natale e Capodanno, cercando di arrotondare la sua pensione. Seduto tra le luci scintillanti e le decorazioni natalizie, osserva il via vai della città, regalando ai passanti un sorriso e un momento di magia in cambio di qualche moneta.”

“Nel pittoresco villaggio di Moscopoli, un’anziana signora annaffia con cura il suo orto, indossando abiti tradizionali scuri. In Albania, il nero è spesso scelto dalle donne anziane come simbolo di modestia, rispetto e lutto per le perdite subite nel corso della vita. Questa pratica riflette una profonda connessione con le tradizioni culturali e un forte senso di appartenenza alla comunità locale.”

“Sul lungomare di Durazzo, due ragazzi della nuova generazione albanese passeggiano mentre il sole si riflette sulle onde. Un tempo, da qui partivano migliaia di emigranti in cerca di un futuro migliore. Oggi, i giovani hanno il compito di costruire un’Albania che guarda al domani, tra il ricordo delle partenze e la speranza di una crescita nel proprio paese.”

 

 

 

 

 

Giovanni Simone

Crescono in Africa emancipazione e autodeterminazione, nonostante l’imperial-terrorismo

Sabato 15 Febbraio 2025 si è svolta a Bamako (Mali) la prima presentazione ufficiale del nuovo e quarantesimo libro dello scrittore panafricanista franco-camerunese Franklin Nyamsi intitolato “Imperial-Terrorismo”.
https://shorturl.at/t2unE

L’evento si è svolto alla presenza di un numeroso pubblico nella sala congressi del memoriale Modibo Keita di Bamako con la partecipazione dei media nazionali e di quelli della Confederazione del Sahel AES.

La conferenza è stata presieduta dal Prof. Bouréma Kansaye, Ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica del Mali, che ha scritto la prefazione del libro.

La tesi principale dell’opera esprime dice che: “Le organizzazioni terroristiche come Al Qaida, Stato Islamico, Boko Haram e altre, che oggi tentano di destabilizzare i paesi africani, non hanno come movente motivi religiosi, in quanto numerosi paesi in cui operano sono già musulmani. Il compito di questi gruppi terroristici è piuttosto di destabilizzare sistemicamente i paesi africani e indebolirli, per poter ottenere più facilmente le loro ricchezze naturali a basso costo da parte di multinazionali esterne al continente africano.”

Questo libro non cerca di imporre a priori interpretazioni tendenziose, si limita a presentare le prove raccolte durante anni, corroborate da dichiarazioni di personaggi politici occidentali di spicco come per esempio l’ex presidente Jaques Chirac, che in un intervento ufficiale aveva ammesso: “una parte delle risorse contenute nei nostri portamonete, proviene dalle ricchezze ottenute dai paesi africani”.

Le prove menzionate nel libro sono numerose e ben elencate. Una delle più recenti è quella fornita dalla nuova direttrice dei servizi di intelligence USA Tulsi Gabbard. Nell’intervista previa alla sua nomina davanti al Senato ha criticato l’appoggio dei precedenti governi del suo paese alla formazione terroristica Al Qaida a cavallo tra Asia e Africa.

Un’altra connessione comprovata di paesi NATO con formazioni terroristiche risulta dalle email di Hillary Clinton pubblicate da Wikileaks riguardanti l’aggresione militare della NATO contro la Libia nel 2011.

https://www.wikileaks.org/clinton-emails/?q=Libya

Numerosi osservatori e intellettuali nei 54 paesi d’Africa sono consapevoli dei progetti infrastrutturali, idrici e finanziari di carattere panafricano che la Libia aveva intrapreso e che avrebbero portato a una crescente sovranità del continente più ricco di risorse naturali al mondo. Molti di essi ritengono che l’attacco della NATO contro la Libia abbia ritardato l’emancipazione dell’Africa di 10/15 anni.

https://www.pressenza.com/it/2024/06/africa-nel-mirino-della-nato/

L’evento di Bamako è il primo di una tournée, che in questi giorni porterà il professor Nyamsi a presentare il suo libro anche a Ouagadougou (Burkina Faso) e a Niamey (Niger).

Lo scrittore Franklin Nyamsi, da circa 25 anni insegnante di filosofia, è noto per il suo instancabile lavoro a favore della emancipazione dei popoli d’Africa in ambito di sovranità e autodeterminazione.

https://www.facebook.com/FranklinNyamsi

Fondatore dell’”Istituto Africa delle Libertà”, Nyamsi è oggi uno dei pensatori panafricanisti più seguiti in Africa, nelle diaspore africane di tutto il mondo e da un vasto pubblico che va dall’Europa fino a numerosi paesi del sud globale. L’istituto avanza quattro proposte fondamentali:

  • la fine dell’occupazione militare straniera del suolo africano
  • la fine della dominazione economica neocoloniale e imperialista in Africa
  • la fine dei regimi dispotici in Africa
  • il rinascimento culturale africano

https://www.afriquedeslibertes.org/

Il libro Imperial-terrorismo non suscita un vittimismo sterile. Da un lato esso fornisce prove scientifiche su certi procedimenti impiegati dalle elites, per impedire il libero sviluppo dell’Umanità e per mantenere il potere nelle proprie mani.

Dìaltra parte questa opera stimola lo studio, la riflessione e l’azione rivoluzionaria nonviolenta, per cambiare il decandente paradigma attuale con valori di verità, giustizia e solidarietà. L’autore considera che tali tradizioni umaniste fossero già presenti nelle antiche civiltà d’Africa, tra cui quella negro-egiziana e che oggi costituiscano un nuovo orizzonte che ispira la gioventù africana.

Traduzioni tangibili di queste proposte prendono forma per esempio nella confederazione del Sahel AES:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/burkina-faso-mali-e-niger-creano-la-confederazione-degli-stati-del-sahel-aes/

La giovane Africa desidera riprendere in mano il proprio destino e orientare il continente verso nuovi cammini, affermando l’Africa dei Popoli e non delle multinazionali.

Toni Antonucci

Più sicurezza? Solo fuori dal capitalismo

Oramai al centro dell’attenzione internazionale c’è solo una parola: sicurezza. Un termine coniugato in modo davvero malsano.

Sicurezza è dotarsi di sempre più armi e eserciti, difendere i confini dai poveracci che bussano all’Europa o agli USA, difendere la purezza della razza bianca, difendere identità nazionali che a volte sono pura invenzione, difendersi dall’avanzare della cosiddetta teoria gender.

In realtà l’esigenza di sicurezza è realmente sentita ma non è con le armi che ci si difende da attacchi esterni, dalla guerra. E ci sono ben altre minacce che dovrebbero essere avvertiti come veri attentati alla sicurezza dei cittadini e della nazione. Sentirsi insicuri perché la sanità pubblica non funziona più e chi non ha soldi non si può curare e invece di morire sotto un improbabile bombardamento ci lascia la pelle prima di arrivare a un pronto soccorso. Sentirsi insicuri perché la casa sta diventando un lusso soprattutto nelle grandi città come Milano svendute alle immobiliari, agli speculatori e all’overtourism che gentrifica i centri urbani. Sentirsi insicuri se si tratta di giovani perché non c’è lavoro e non c’è futuro. Sentirsi insicuri perché la scuola è ritenuta non un investimento fondamentale ma una voce di costo da ridurre. Sentirsi insicuri perché lo sconvolgimento climatico presenta uno scenario cupo e sono sempre di più le vittime e le distruzioni di alluvioni, incendi e dissesti idro-geologici. E si potrebbe continuare.

Questa è la vera mancanza di sicurezza di cui ci dovremmo occupare. Queste sono le autentiche minacce da cui dovremmo difendere. Invece la parola d’ordine è una sola: più armi! E poi è un’illusione pensare che più armi, più eserciti, mettano al riparo da eventuali attacchi esterni. E’ esattamente il contrario. Il potenziale nemico risponderà in modo simmetrico. Gli Stati che possono sentirsi più sicuri sono proprio quelli che investono meno in spese militari, pacifici, dialoganti, che presentano meno un volto aggressivo all’esterno.

Mi ricordo un’analisi degli anni 80. I due Stati più sicuri erano due piccole nazioni non allineate molto diverse tra loro: Svizzera e Albania. Per non parlare del Costarica, uno dei pochi Stati al mondo che abbia rinunciato all’esercito. La sicurezza in questo senso si costruisce, come affermava Pertini, in un modo molto semplice e solo apparentemente ingenuo: riempiendo i granai e svuotando gli arsenali. La più grave minaccia reale non solo per l’Europa ma per il mondo intero si chiama comunque crisi ambientale e climatica. Ma i padroni del mondo, quelli che detengono le leve della politica e dell’economia si muovono in direzione contraria.

Trump e Musk affogheranno nei loro miliardi e nella loro supponenza è chiaro ma come è possibile che non trascinino anche noi, anche quelli che verranno nella catastrofe? Le teorie economiste che tendono a salvare capre e cavoli (ambiente e crescita) hanno fallito. Soluzioni come i certificati verdi o le speranze messianiche riposte nella tecnologia non porteranno da nessuna parte. Se vogliano davvero salvarci il capitalismo non si modifica, si abbatte, perché è causa prima del disastro. Purtroppo sono esigue minoranze quelle sullo scenario politico che abbiano il coraggio di abbandonare l’idiozia della crescita infinita in un modo finito. Anche al centro e pure a sinistra la parolina magica crescita è prima o poi sulla bocca di tutti. Senza crescita non esiste capitalismo, ma senza uscita dal mito della crescita e dal modello capitalista non esisterà più…il mondo. E oltre a quelle economiciste che tendono a migliorare il capitalismo occorre diffidare anche dell’approccio individualista che vede nella semplice modifica dei comportamenti individuali la via d’uscita. Mantenere coerenza tra il dire e il fare, fare proprio l’invito di Gandhi “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, adottare stili di vita frugali, ecc. è importante ma non deve far perdere di vista il fatto che il problema è politico e strutturale e che il vero obiettivo non può che essere il superamento del capitalismo. Magari tenendo presente come stella polare il comunismo dei beni comuni e non delle nazionalizzazioni in stile sovietico del filosofo giapponese Kohei Saito.

Ci sono interi settori, quelli che contribuiscono a concentrare la ricchezza e le leve del potere mediatico e economico nelle mani di pochi che dovrebbero essere invece di esclusivo possesso da parte dello Stato, della comunità: energia in primis.
E poi ovviamente sanità, scuola, servizi pubblici essenziali, acqua. Il potere capitalista dei soliti noti al servizio di Trump si può scardinare poi anche in modi che vedano i cittadini protagonisti diretti di scelte alternative nel campo dei social media, della messaggistica, di tutto ciò che riguarda il web. Capitalismo, riarmo e distruzione ambientale vanno a braccetto. Pace, disarmo e salvaguardia ambientale pure. Sta a noi scegliere per cosa impegnarci.

Giuseppe Paschetto

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 2° parte

Riprendiamo l’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i terribili fatti avvenuti in Sud America, con il rapimento e il successivo omicidio del marito, la sua storia continua in Europa.

Arrivi in Svezia, come continua la tua storia?

La Svezia era allora l’unico Paese europeo che ci accoglieva. A Buenos Aires, durante la ricerca dei ragazzi, ero andata all’ambasciata italiana dove mi avevano trattato molto male, nonostante avessi detto loro che sia io che Daniel eravamo di origine italiana. Mi risposero: “Di terroristi in Italia abbiamo già i nostri.” Dopo due giorni a Stoccolma (dove governava Olof Palme) ci spostarono in un villaggio, una grande area con una serie di casette completamente arredate nella località di Alvesta. Trovammo soprattutto compagni cileni… Sei mesi dopo, ci diedero un appartamento in una cittadina nel Sud della Svezia, Malmö. Io cominciai a studiare lo svedese, le bimbe andavano alla scuola per l’infanzia.

In quel momento non ne volevi più sapere di politica?

In quel momento non volevo sapere più nulla dei partiti politici. Personalmente credo che molta della responsabilità sia stata dei dirigenti, sia del movimento guerrigliero che dei partiti. Ho comunque capito che bisognava iniziare con le denunce, attivare e mettere in pratica la solidarietà dell’Europa, visto che avevamo migliaia di prigionieri politici, non solo in Uruguay, che vivevano una repressione durissima nei lager e nelle carceri dei nostri Paesi. Non credevo più nella guerriglia, ma continuavo a credere nella politica, nella Democrazia e soprattutto nella Libertà.

C’era un rapporto tra il Frente Amplio e la guerriglia dei Tupamaros?

Formalmente no, ma di fatto si, e ogni volta che i guerriglieri denunciavano sequestri, torture e uccisioni, erano spalleggiati dai partiti del Frente Amplio. L’esempio più chiaro è stato Zelmar Michelini, che ho citato prima. Una delle figlie di Michelini, Elisa, era militante dei Tupamaros. Lui fu minacciato in questi termini: “Se fai ancora qualcosa di simile a quando andasti al tribunale Russell in Europa a parlare di noi… tua figlia inizierà ad essere torturata.” Elisa in quel tempo era in galera, ma non l’avevano ancora toccata. Ho visto Zelmar piangere quando è arrivato in Argentina, perché avevano iniziato a torturarla. Lui non poteva stare fermo e zitto, nessuno di quei politici poteva farlo, con quello che stava accadendo. La tortura era sistematica, le persone in Uruguay venivano fatte a pezzi. Poi c’era il dramma degli scomparsi che esplose dopo il golpe in Argentina nel 1976.

Quindi sia in Uruguay che in Argentina il golpe non fu un passaggio netto, “dal bianco al nero”, ma iniziò ben prima

Sì, soprattutto in Uruguay. Già alla fine degli anni ’60 un governo eletto aveva iniziato a dar vita alle “medidas de seguridad” per le quali si vietava la propaganda politica, e la stessa parola Tupamaros (la stampa doveva dire “sovversivi”, “innominabili”). Se dicevi “Tupamaros”, andavi in galera. Avevano chiuso tutta la stampa di opposizione. Nelle elezioni del 1971 ci furono brogli, al Frente Amplio furono rubati molti voti. Nel 1972 il governo dichiarò lo “stato di guerra interna”.

Quindi tutti noi ricordiamo l’11 settembre del ’73 in Cile perché quello fu davvero un salto radicale dal “bianco al nero”. I golpe in Uruguay e in Argentina furono solo il consolidamento di una situazione che era già in atto?

Senza dubbio. Arrivammo in Italia nel ’76 perché io in Svezia non ce la facevo più…avevo un papà italiano, di Borgotaro (Parma) e volevo venire in Italia, la terra di mio padre. In Italia sentivo parlare SOLO del golpe in Cile che, comprendo bene, aveva colpito profondamente sia il sistema politico che i cittadini. Con altri compagni uruguaiani ci demmo proprio il compito di far sapere in Italia e in Europa che in Uruguay c’era stato un colpo di stato. Il caso dell’Argentina è stato diverso, con i desaparecidos, a migliaia, con le madri di Plaza de Mayo che si organizzarono per la ricerca e la denuncia e che oggi sono il simbolo dalla lotta per la Memoria, la Verità e la Giustizia. L’Argentina poi era un Paese grande e importante.

Ricordo che poco dopo il mio arrivo andai alla questura col mio passaporto di ACNUR, l’unico che ancora avevo. Dissi loro che volevo i miei documenti italiani. Tieni conto che di immigrazione in Italia, a quel tempo, non se ne parlava proprio (c’era solo popolazione somala ed eritrea, qualche cittadino greco, qualche portoghese e qualche spagnolo). L’agente mi disse: “Ma se lei è figlia di italiani è italiana, basta, mica ha bisogno di un documento come rifugiato politico!” Quando ritornai all’ufficio immigrazione, un altro agente che mi aveva fermato e a cui dissi che ero uruguayana, mi lasciò andare sorridendo dopo aver nominato alcuni tra i giocatori di calcio dell’allora famosa nazionale uruguayana. Così feci i documenti.

Come andò avanti la storia della dittatura in Uruguay?

Furono anni di repressione tremenda, solo verso il 1983 le forze politiche, di fronte ad un fallimento totale della dittatura (avevano rubato tutto quello che c’era da rubare), cominciarono a guadagnare terreno. La situazione generale era cambiata, l’Africa si era liberata (almeno formalmente) dai colonizzatori. Spagna, Grecia e Portogallo erano diventati delle democrazie. Nell’84 ci fu un accordo tra alcuni partiti (di centro e di destra) e i militari,, che cercavano di resistere in tutti i modi. Nell’84 si fecero le elezioni e noi tornammo per votare. Vinse il partito Colorado che da più di un secolo aveva quasi sempre governato ed era composto dalla buona borghesia metropolitana del Paese. L’altro partito, il Blanco, rappresentava la parte agraria, ma erano comunque due partiti di centro-destra, e in quel momento erano gli unici “legali”. Il primo presidente, Julio Maria Sanguineti, fece subito un’amnistia che liberò tutti i prigionieri politici (compreso Pepe Mujica), ma anche i militari che non vennero quindi giudicati. Fu fatto anche un referendum per stabilire se i militari potevano essere processati, ma perdemmo, la gente aveva paura e aveva buoni motivi per averne. Poi il Frente Amplio è cresciuto, si è presentato alle elezioni locali e ha conquistato la città di Montevideo. Poi fino al 2020 ha governato il Frente Amplio. Questo governo stabilì che quell’amnistia per i militari era incostituzionale e che i militari colpevoli di crimini di lesa umanità, potessero essere processati. Ora, dopo 50 anni, stanno ancora arrivando denunce.

E Pepe Mujica?

È malato, ha dichiarato in una conferenza stampa che ha un cancro all’esofago, è un vecchio saggio. Dice parole importantissime ai giovani, trasmette carica, coraggio, speranza, per l’ambiente e contro la rassegnazione.

Quando andai a votare in Uruguay dopo tanti anni, ero convinta di rimanere lì, ma fu il padre di Daniel, il mio primo suocero, a dirmi: “Ma di cosa vivi se vieni qui?”. Il Paese era rovinato, così tornai in Italia.

 

Fine seconda parte

 

Qui il link alla terza e ultima parte

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

Verso la Giornata Nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta

Dal 1986 il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani promuove l’impegno dei Comuni, delle Province e delle Regioni italiane per la pace, i diritti umani, la solidarietà e la cooperazione internazionale, attraverso: la promozione dell’educazione permanente alla pace e ai diritti umani nella scuola, l’organizzazione della Marcia per la pace Perugia-Assisi e delle Assemblee dell’Onu dei Popoli, la promozione della diplomazia delle città per la pace, il dialogo e la fratellanza tra i popoli, lo sviluppo della solidarietà internazionale e della cooperazione decentrata contro la miseria e la guerra, la promozione di un’informazione e comunicazione di pace, la campagna per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, l’impegno per la pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo, la costruzione di un’Europa delle città e dei cittadini, strumento di pace e di giustizia nel mondo.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani anche quest’anno promuove la Giornata nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta, che è arrivata alla sua quarta edizione. Sabato 1° marzo sarà dedicato alla riscoperta e alla promozione del valore alla cura di noi e degli altri, della città e del pianeta in cui viviamo. “In un mondo in guerra, si legge nell’appello del Coordinamento, mentre siamo costretti a soffrire le conseguenze di decenni di  individualismo e incuria, come dice Papa Francesco, dobbiamo sviluppare una mentalità e una cultura del prendersi cura capace di sconfiggere l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono.  Nell’ora della crisi più grande, la cura è la risposta più efficace. La cura reciproca è il modo più concreto che abbiamo per fronteggiare i problemi, ridurre le violenze e le sofferenze e cambiare le cose, qui e ora, senza aspettare che lo facciano altri, senza aspettare domani. Per questo la dobbiamo riscoprire, studiare e imparare, organizzare e promuovere.” Pensiamo alla cura degli ammalati e della salute di tutte e di tutti, alla cura dei più piccoli e delle giovani generazioni, alla cura dei più fragili e vulnerabili, degli anziani e delle persone e famiglie in difficoltà economiche, alla cura delle donne vittime di tante violenze e discriminazioni, alla cura del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici,   alla cura della nostra economia, delle nostre città e quartieri, dell’ambiente e dei beni comuni che non sono solo nostri. Pensiamo ai popoli in guerra, a Gaza e nel resto della Palestina e del Medio Oriente, in Ucraina e nel resto del mondo, ai migranti, alle persone perseguitate dalle guerre, dall’oppressione, dalla miseria e dalle catastrofi ambientali.

Il 1 marzo, migliaia di studenti e insegnanti, di ogni parte d’Italia, usciranno dalle loro scuole per andare a conoscere e ringraziare le persone che si prendono cura di noi e degli altri nei loro luoghi di lavoro e volontariato: pronto soccorso, ospedali, case per anziani, centri specializzati di cura, mense, empori Caritas, centri di accoglienza dei migranti, centri antiviolenza e case delle donne ma anche sedi della rai, comuni, province, tribunali, librerie, canili. Alcuni studenti e insegnanti faranno esperienza diretta di cura degli altri o dell’ambiente (ad esempio: servire ad una mensa per i poveri e senzatetto, ripulire, riordinare e abbellire uno spazio pubblico segnato dall’incuria, dall’abbandono o dall’inverno). Altri ancora costruiranno la mappa della città della cura andando a scoprire e “illuminare” le persone, le pratiche e i luoghi di cura del territorio che contribuiscono al nostro ben-essere personale e collettivo. I partecipanti alla Giornata promuoveranno la cultura della cura raccontando in tempo reale, sui social network, gli incontri e le cose viste e sentite, amplificando così le voci e le storie delle persone incontrate, le loro attività e le loro idee sulla cura #iohocura.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani invita tutti i Sindaci e i Presidenti degli Enti Locali e delle Regioni ad aderire formalmente alla Giornata Nazionale della Cura delle persone e del pianeta, a registrare e diffondere  video-messaggi per dare valore alla cura e promuovere la cura della comunità e del territorio; a consegnare agli alunni/studenti della propria città il “Quaderno degli esercizi di cura”: un originale strumento di educazione civica per sviluppare l’attenzione, il rispetto, la responsabilità, la presenza, l’ascolto, la comprensione, l’empatia, l’uso delle parole, il dono, la generosità e il coraggio (https://www.cittaperlapace.it/doc.php?tipo=percorsi&id=47). 

Qui per approfondire: https://www.cittaperlapace.it/index.php#

Giovanni Caprio