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Cronaca

Crescono in Africa emancipazione e autodeterminazione, nonostante l’imperial-terrorismo

Sabato 15 Febbraio 2025 si è svolta a Bamako (Mali) la prima presentazione ufficiale del nuovo e quarantesimo libro dello scrittore panafricanista franco-camerunese Franklin Nyamsi intitolato “Imperial-Terrorismo”.
https://shorturl.at/t2unE

L’evento si è svolto alla presenza di un numeroso pubblico nella sala congressi del memoriale Modibo Keita di Bamako con la partecipazione dei media nazionali e di quelli della Confederazione del Sahel AES.

La conferenza è stata presieduta dal Prof. Bouréma Kansaye, Ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica del Mali, che ha scritto la prefazione del libro.

La tesi principale dell’opera esprime dice che: “Le organizzazioni terroristiche come Al Qaida, Stato Islamico, Boko Haram e altre, che oggi tentano di destabilizzare i paesi africani, non hanno come movente motivi religiosi, in quanto numerosi paesi in cui operano sono già musulmani. Il compito di questi gruppi terroristici è piuttosto di destabilizzare sistemicamente i paesi africani e indebolirli, per poter ottenere più facilmente le loro ricchezze naturali a basso costo da parte di multinazionali esterne al continente africano.”

Questo libro non cerca di imporre a priori interpretazioni tendenziose, si limita a presentare le prove raccolte durante anni, corroborate da dichiarazioni di personaggi politici occidentali di spicco come per esempio l’ex presidente Jaques Chirac, che in un intervento ufficiale aveva ammesso: “una parte delle risorse contenute nei nostri portamonete, proviene dalle ricchezze ottenute dai paesi africani”.

Le prove menzionate nel libro sono numerose e ben elencate. Una delle più recenti è quella fornita dalla nuova direttrice dei servizi di intelligence USA Tulsi Gabbard. Nell’intervista previa alla sua nomina davanti al Senato ha criticato l’appoggio dei precedenti governi del suo paese alla formazione terroristica Al Qaida a cavallo tra Asia e Africa.

Un’altra connessione comprovata di paesi NATO con formazioni terroristiche risulta dalle email di Hillary Clinton pubblicate da Wikileaks riguardanti l’aggresione militare della NATO contro la Libia nel 2011.

https://www.wikileaks.org/clinton-emails/?q=Libya

Numerosi osservatori e intellettuali nei 54 paesi d’Africa sono consapevoli dei progetti infrastrutturali, idrici e finanziari di carattere panafricano che la Libia aveva intrapreso e che avrebbero portato a una crescente sovranità del continente più ricco di risorse naturali al mondo. Molti di essi ritengono che l’attacco della NATO contro la Libia abbia ritardato l’emancipazione dell’Africa di 10/15 anni.

https://www.pressenza.com/it/2024/06/africa-nel-mirino-della-nato/

L’evento di Bamako è il primo di una tournée, che in questi giorni porterà il professor Nyamsi a presentare il suo libro anche a Ouagadougou (Burkina Faso) e a Niamey (Niger).

Lo scrittore Franklin Nyamsi, da circa 25 anni insegnante di filosofia, è noto per il suo instancabile lavoro a favore della emancipazione dei popoli d’Africa in ambito di sovranità e autodeterminazione.

https://www.facebook.com/FranklinNyamsi

Fondatore dell’”Istituto Africa delle Libertà”, Nyamsi è oggi uno dei pensatori panafricanisti più seguiti in Africa, nelle diaspore africane di tutto il mondo e da un vasto pubblico che va dall’Europa fino a numerosi paesi del sud globale. L’istituto avanza quattro proposte fondamentali:

  • la fine dell’occupazione militare straniera del suolo africano
  • la fine della dominazione economica neocoloniale e imperialista in Africa
  • la fine dei regimi dispotici in Africa
  • il rinascimento culturale africano

https://www.afriquedeslibertes.org/

Il libro Imperial-terrorismo non suscita un vittimismo sterile. Da un lato esso fornisce prove scientifiche su certi procedimenti impiegati dalle elites, per impedire il libero sviluppo dell’Umanità e per mantenere il potere nelle proprie mani.

Dìaltra parte questa opera stimola lo studio, la riflessione e l’azione rivoluzionaria nonviolenta, per cambiare il decandente paradigma attuale con valori di verità, giustizia e solidarietà. L’autore considera che tali tradizioni umaniste fossero già presenti nelle antiche civiltà d’Africa, tra cui quella negro-egiziana e che oggi costituiscano un nuovo orizzonte che ispira la gioventù africana.

Traduzioni tangibili di queste proposte prendono forma per esempio nella confederazione del Sahel AES:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/burkina-faso-mali-e-niger-creano-la-confederazione-degli-stati-del-sahel-aes/

La giovane Africa desidera riprendere in mano il proprio destino e orientare il continente verso nuovi cammini, affermando l’Africa dei Popoli e non delle multinazionali.

Toni Antonucci

Turchia: finalmente assolta l’esperta di medicina legale Şebnem Korur Fincancı

Il 20 febbraio Şebnem Korur Fincancı, una delle massime autorità turche in materia di medicina legale e assai nota nella comunità scientifica internazionale, è stata finalmente assolta dall’accusa di aver “denigrato lo stato turco”, reato punito dall’articolo 301 del codice penale.

Dopo un primo periodo di carcere trascorso durante lo scorso decennio per “propaganda terrorista” solo per aver espresso solidarietà nei confronti di un organo di stampa che aveva una linea editoriale critica nei confronti del governo, era stata arrestata il 26 ottobre 2022 dopo che in un’intervista all’estero aveva sollecitato un’indagine indipendente sul possibile uso, da parte dell’esercito turco, di armi chimiche durante un’offensiva in Iraq contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan, noto con l’acronimo Pkk.

Sebnem Korur Fincancı, presidente fino al giugno 2024 dell’Associazione dei medici della Turchia, è nel Comitato esecutivo della Fondazione per i diritti umani della Turchia, fa parte del Gruppo di esperti in medicina legale dell’International Rehabilitation Council for Victims of Torture ed è consulente di Physicians for Human Rights.

Nel corso della sua esperienza, ha esumato fosse comuni in Bosnia per conto delle Nazioni Unite e ha condotto indagini di medicina legale in Turchia e all’estero. Ha inoltre contribuito al Protocollo di Istanbul, lo standard internazionale di riferimento per le indagini di medicina legale sulla tortura.

Per il suo impegno ha ricevuto il premio Hrant Dink nel 2014, il premio di Physicians for Human Rights nel 2017 e il premio Hessian per la pace nel 2018.

Riccardo Noury

La guerra dei bambini, disagi e traumi che aumentano la conflittualità

Si è svolto il 19 febbraio presso la Sala Capitale di Palazzo Vecchio, l’interessante incontro La guerra dei bambini, disagi e traumi che aumentano la conflittualità” organizzato in collaborazione fra il Comune di Firenze (Commissioni Consiliari 7 e 9), il Laboratorio Permanente per la Pace del Quartiere 5 e Auser.

Dopo l’introduzione della Presidente Commissione 7 Stefania Collesei, sono seguiti gli interventi del Prof. Mario Matteini, professore di didattica della storia, curatore del video “Testimonianze di vita attraverso sogni e disegni di bambini israeliani e palestinesi“, della  Presidente Commissione 9 Beatrice Barbieri,  dell’Insegnante Elisabetta Cavalero con i suoi alunni della Scuola Montagnola, della Dott.ssa Eleonora Boscolo e la  Dott.ssa Sandra Caciagli del Laboratorio Permanente per la Pace e della Dott.ssa Elisabetta Innocenti, neuropsichiatra infantile Ospedale Meyer. Presente l’Assessora alla Educazione, Formazione professionale, Cultura della memoria e della legalità, Pari opportunità Benedetta Albanese che ha portato il suo saluto istituzionale.

Stefania Collesei ha rimarcato che lavorare con i bambini è importante, è la strada per dimostrare che un’altra strada è possibile, a partire proprio dai bambini. E’ per questo che il consiglio comunale ha preso diverse iniziative per incontrare realtà di gruppi e associazioni che insieme vogliono lavorare per abbattere il muro della guerra. Mentre in Italia da 80 anni abbiamo avuto la fortuna di non vivere direttamente l’esperienza della guerra, un periodo in cui i bambini sono nati e potuti crescere in tempo di pace, nel video sono stati presentati i momenti dei conflitti vissuti dai bambini palestinesi e israeliani, bambini che non hanno mai conosciuto la pace nella loro vita. Per questo sono importanti le iniziative di associazioni e gruppi informali che a Firenze hanno sviluppato in modo costante iniziative, anche in collaborazione con la commissione, per difendere il valore della pace e la difesa della vita a partire dai bambini, gridando l’orrore dei 17.000 bambini morti solo in Palestina a partire dal 7 ottobre dove sono morti bambini israeliani.

Beatrice Barbieri ha ricordato la sua presenza e rapporto con i ragazzi della scuola e la loro importanza in questo percorso in un momento in cui si è sempre di più sentito parlare della guerra, fino, alla paura di essere coinvolti anche da noi dalla guerra e, in certi momenti, ad assuefarsi a questa stessa parola. In un colloquio un alunno ha fatto la constatazione che “se non ci fosse la guerra non si parlerebbe nemmeno della pace”! Concludendo lui stesso che “una volta assaporata la bellezza della pace non ha senso andare a ricercare la guerra”! Per questo è necessario arricchirsi di cose belle! 

L’assessora Albanese ha ringraziato per l’organizzazione di questa iniziativa con i bambini, dei piccoli cittadini, ma i più importanti che possano abitare queste stanza, perché loro saranno gli adulti di domani, parte integrante di questo percorso di “costruttori di pace”, per il quale non esiste una ricetta, se non l’impegno attraverso le azioni, il pensiero, le parole.  Albanese ha sottolineato che In questo sogno, in questo percorso da fare assieme, il punto di vista e il contributo dei bambini è importante! 

Il Prof. Matteini ha presentato il video che fa parte del progetto “La vita e la storia” con l’obiettivo di favorire la conoscenza della storia a partire da testimonianze di vita. Il video rappresenta i sogni ed i disegni dei bambini israeliani e palestinesi, bambini che non hanno mai conosciuto la pace nella loro vita e ci aiuta a comprendere i conflitti vissuti da loro, ma anche da tutti quelli che vivono in situazioni di conflitto e di guerra. La prospettiva cerca di andare al di là delle ragioni e dei torti, non perché non ci siano responsabilità e si debba rinunciare ai propri giudizi e le proprie valutazioni, ma significa cercare quel terreno comune che eviti di cadere nelle tifoserie contrapposte che impediscono la conoscenza e la capacità di ascolto dell’altro.

Il focus del video è l’infanzia traumatizzata dalla guerra, un aspetto che è vissuta su tutti i fronti, ma che in certi casi non è tenuta nella giusta considerazione e viene quasi considerata un effetto collaterale al servizio di scopi politici. Così in questa disumanizzazione le prime vittime sono proprio i bambini. Per questo vanno considerati tutti i bambini, non solo per il numero dei morti, ma anche per l’impatto psicologico, la paura degli attentati e degli attacchi, le ferite e amputazioni subite, la perdita dei genitori o dei propri cari, la percezione della insicurezza degli adulti e della impossibilità di offrire loro protezione: tutti aspetti e traumi diretti e indiretti che incidono pesantemente sulla loro formazione e crescita. Questo non riguarda solo i bambini Palestinesi, Israeliani, ucraini: secondo un rapporto dell’Unicef i bambini che si trovano in aree di conflitto sono 473 milioni, quasi uno su cinque! Una percentuale quasi raddoppiata rispetto al 1990. I bambini siriani vissuti sotto i bombardamenti sono circa 6 milioni e per molti di loro il sogno era morire per poter andare in paradiso, per poter vivere una vita in pace e ritrovare i propri amici morti prima. Nel video è stato possibile vedere e ascoltare altri fattori che incidono pesante mente sulla vita e la crescita dei bambini, fattori che fanno parte della loro quotidianità. Uno di questi è il richiamo costante alla guerra che si presenta nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, questi richiami li vediamo nelle immagini dei bambini palestinesi dei campi profughi che per andare a scuola camminano attraverso i muri tappezzati con disegni dei martiri e dei morti, in altre foto bambini israeliani che si esercitano con le armi, a difendersi dall’arrivo dei missili, anche con l’utilizzo dei rifugi all’interno degli stessi campi giochi, oppure accompagnati da maestri e genitori armati.

Un ultimo fattore che incide pesantemente sulla crescita e formazione dei bambini è ovviamente l’istruzione su cui sia israeliani che palestinesi dedicano una grande attenzione e fanno scelte simili, a partire dai testi scolastici, negando l’esistenza dell’altro, attraverso meccanismi di distorsione della verità storica, con la sua cancellazione dalle mappe e dalle cartine aumentando ancora l’alimentazione dell’odio e della violenza. Così ai danni individuali causati dall’esperienza della guerra, si sommano questi effetti a lungo termine sulla coscienza e il modo di pensare dei bambini. Questa esperienza del passato e del presente influirà per decenni su intere generazioni che verranno spinti a immaginare così’ un futuro con la guerra al centro, facendo sì che sia più facile pensare alla guerra come soluzione che non la pace. Il radicamento di questo pensiero tenderà a entrare nella mentalità collettiva tanto da farci diventare incapaci di pensare e attivare la soluzione della pace. David Grossman già nel 2021 diceva “Un’intera generazione di bambini, a Gaza e a Ashkelon, presumibilmente crescerà e vivrà con il trauma dei missili, dei bombardamenti e delle sirene. A voi bambini, sulle cui coscienze questo conflitto ha inciso davvero, io sento il bisogno di chiedere scusa, perché non siamo stati capaci di creare per voi la realtà migliore e più sana a cui ogni bambino di questo mondo ha diritto.

Dopo gli interventi delle rappresentanti del Laboratorio permanente per la pace del Q5, Sandra Caciagli e Eleonora Boscolo e gli interessanti spunti e informazioni della Dott.ssa Elisabetta Innocenti, neuropsichiatra infantile dell’Ospedale Meyer, l’incontro si è poi concluso con il laboratorio dei bambini della Scuola primaria Montagnola che hanno disegnato le emozioni, le riflessioni e le proposte su quanto è loro arrivato dalle immagini e dalle parole del video ed alcuni di questi sono stati presentati da loro stessi alla fine.

Video che è stato proiettato all’incontro

Paolo Mazzinghi

Canada e USA: le relazioni commerciali devono cambiare

Nonostante la sospensione dei dazi commerciali sui beni canadesi da parte degli americani, per alcune settimane, durante diversi eventi sportivi canadesi, i tifosi hanno espresso il loro disappunto fischiando l’inno americano ai tornei di hockey.

Secondo il Primo Ministro Justin Trudeau, i canadesi non vogliono impegnarsi in una guerra commerciale con gli Stati Uniti, ma saranno “altrettanto inequivocabili” nella loro risposta se nelle prossime settimane gli Stati Uniti metteranno in atto le loro minacce sui dazi commerciali.

Per questo motivo il governo canadese aveva deciso di imporre un dazio del 25% su 30 miliardi di dollari di beni importati dagli Stati Uniti nei primi giorni di febbraio. Ma il 3 febbraio i funzionari statunitensi e canadesi si sono incontrati e gli Stati Uniti hanno accettato di ritardare l’accordo di 30 giorni. In seguito a questo ritardo, il Canada ha attuato un piano di frontiera da 1,3 miliardi di dollari per rafforzare il confine e coordinarsi con i partner statunitensi per fermare il flusso di fentanyl.

Comunque, la minaccia incombente dei dazi è ancora molto concreta per l’economia canadese e in tutto il Canada migliaia di posti di lavoro sono a rischio.

«Dobbiamo rimanere vigili e prepararci all’impatto. Abbiamo già sentito dai membri di tutto il Canada come la minaccia dei dazi stia sconvolgendo le imprese e le economie locali. Questi nuovi dati (guerra commerciale) sottolineano ulteriormente che questo non è un gioco che vogliamo giocare quando così tanti mezzi di sostentamento dipendono da una relazione stabile con gli Stati Uniti», ha dichiarato Candace Laing, Presidente e CEO della Camera di Commercio canadese.

Per determinare il livello di rischio delle 41 città più grandi del Canada, la Camera di Commercio canadese ha sviluppato, in collaborazione con il Business Data Lab, un indice di esposizione ai dazi agli Stati Uniti che riflette sia l’intensità delle esportazioni statunitensi di una città, sia la sua dipendenza dagli Stati Uniti come destinazione chiave delle esportazioni. L’indice di esposizione ai dazi esamina le prime 10 economie più esposte, da cui emergono alcuni temi e impatti chiave:

  • Esportatori di energia determinanti, come Calgary, in Alberta, e Saint John, nel New Brunswick
  • Diverse città dell’Ontario sud-occidentale, poli automobilistici e manifatturieri, sono situate lungo la Highway 401
  • Il più grande produttore di acciaio del Canada a Hamilton, in Ontario
  • I produttori di alluminio e di silvicoltura del Quebec, Saguenay e Trois-Rivières

«I dazi proposti dal Presidente Trump avranno conseguenze significative per l’economia globale, ma per alcune città canadesi la minaccia è molto più locale e personale. Grazie a questa analisi, i canadesi, le imprese e i politici hanno maggiori elementi da incorporare alle discussioni in corso su come il Canada possa rispondere al meglio alla sfida monumentale portata da dazi statunitensi inutili e ingiustificati», ha dichiarato Stephen Tapp, Chief Economist della Camera di Commercio canadese.

In Canada, nessuno sa ancora se Trump procederà con i suoi dazi punitivi nei confronti del Canada. Ma tutti sanno che questa mossa rischia di scatenare una guerra commerciale a livello continentale. Sembra che i canadesi non abbiano più trattamento favorevole a Washington e che la relazione reciprocamente vantaggiosa tra Canada e Stati Uniti, risalente al 1850, sia ora in pericolo.

David J. Bercuson, senior fellow della Aristotle Foundation for Public Policy, che ha recentemente pubblicato l’articolo “Il Canada deve prepararsi a un futuro senza gli Stati Uniti”, spiega al National Post:

«Il popolo degli Stati Uniti ha scelto Trump e i canadesi devono rispettare la loro decisione. A questo punto non sappiamo se presto saremo coinvolti in una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Ma sappiamo che la nostra fiducia è stata infranta. Dobbiamo accettare questa cruda verità e procedere da qui».

Traduzione dall’inglese di Martina D’amico. Revisione di Mariasole Cailotto.

Rédaction Montréal

Storia e memoria: incontro a Pistoia per il Giorno del Ricordo

Nell’ambito delle celebrazioni del Giorno del Ricordo, organizzate dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPT), insieme all’Anpi, lunedì 17 febbraio, presso la libreria Feltrinelli di Pistoia, si è tenuto un interessante incontro dal titolo “Violenze e traumi del dopoguerra del Novecento nella regione Alto Adriatica”.

L’incontro originariamente doveva essere condotto da Stefano Bartolini, direttore dell’Istituto Storico pistoiese, in dialogo con Marta Verginella, docente di Storia all’Università di Lubiana. Per motivi di salute purtroppo la Professoressa non ha potuto essere presente ed il dialogo si è svolto allora tra Stefano Bartolini e Francesco Cutolo, ricercato in storia e collaboratore dell’ISRPT, che ha introdotto il tema. E’ subito emersa la necessità di storicizzare gli avvenimenti verificatisi nel periodo indicato lungo il confine orientale, una regione mistilingue e multietnica di notevole complessità per le relazioni tra i vari gruppi, che per secoli avevano convissuto sotto l’Impero Asburgico, ove la costruzione di uno stato nazionale, per definizione monoetnico, incontra grosse difficoltà. Con le conquiste seguite alla Grande Guerra, l’Italia occupa nuove porzioni di questo territorio, ritenuto erroneamente italiano da sempre, scontrandosi con una realtà in cui la popolazione, si parla di circa 400.000 persone di etnia slovena o croata, ha invece grande diffidenza verso i nuovi arrivati. Tale atteggiamento sarà interpretato come apertamente ostile dall’esercito italiano, che inizia ad agire molto duramente, anche attraverso fucilazioni, accusando molti civili di essere sabotatori o spie del nemico. Dalla trattazione è emerso poi l’atteggiamento subito apertamente anti slavo e razzista del fascismo, che si è manifestato fino dal discorso che Mussolini tenne a Trieste il 2 settembre 1920, ove definì gli slavi “tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili” e che poi sfociò, il 13 luglio del 1920, nell’incendio del Narodni Dom, la “casa della cultura” slovena di Trieste, nel corso di quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato“. Con la salita al potere del fascismo si assiste inoltre alla sistematica eliminazione di ogni riferimento alla lingua e alla cultura slovena. L’unica lingua ammessa, ovunque e comunque, è l’italiano. Tutti i nomi, sia di persone, che di località vengono italianizzati e tutte le organizzazioni slave, economiche, politiche o culturali, vengono cancellate, in ciò che è stato definito un vero e proprio etnocidio.

Nel maggio del 1941 l’Italia, con la Germania, invade la Slovenia e ne annette la parte meridionale, che diventa la Provincia Italiana di Lubiana. Nell’area, dove vivevano circa 320.000 persone, sorge subito un movimento di resistenza, guidato dai comunisti sloveni, per contrastare il quale l’Italia fascista invia un esercito di circa 60.000 uomini, che mette in atto una feroce repressione e una vera e propria guerra ai civili, durante la quale, in appena due anni, circa 50.000 sloveni o persero la vita o subirono gravissime offese. Esemplari sono le parole del Generale Roatta, comandante le truppe italiane, che nel marzo del ’42, all’interno della famigerata circolare 3C, stabiliva che “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula «dente per dente», ma bensì da quella «testa per dente»”. Gli farà eco il suo sottoposto, generale Robotti, che in una nota ai suoi soldati osserva che “si ammazza troppo poco!”. Oltre a uccisioni, incendio di villaggi e altre violenze di vario tipo, l’esercito italiano colpisce la popolazione slovena con deportazioni di massa, tra cui donne e bambini, nel tentativo di creare terra bruciata intorno ai resistenti. I deportati sloveni, assieme ad altri croati, montenegrini, greci ed ebrei, per un totale di circa 100.000 persone, vengono internati in una serie di campi di concentramento, sparsi per Slovenia, Croazia e Italia, dove circa 5.000 di loro moriranno a causa di fame, freddo e malattie legate alle terribili condizioni di detenzione, intenzionalmente applicate dagli italiani. Illuminanti sono le affermazioni del generale Gambara che nel ’43, riferendosi al campo sull’isola di Arbe (Rab), scrisse “Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo”. Ad Arbe, su un totale di circa 10.000 civili deportati, compresi donne, vecchi e bambini, circa 1500 morirono per le condizioni di detenzione. Il più piccolo aveva meno di un anno, il più vecchio oltre novanta.

Tutto ciò terminerà l’8 settembre 1943, con l’armistizio e lo sfascio totale dell’esercito italiano. Nelle regioni di confine parte a questo punto la vendetta delle popolazioni slave che, con una sorta di rivolta contadina non organizzata, aggrediscono, in vendette personali e regolamenti di conti, i simboli e i rappresentanti dello stato occupante. E’ questa la prima parte della vicende delle cosiddette foibe, cavità carsiche, dove vengono gettate alcune delle persone uccise, al fine di occultarne i corpi. Questa fase si conclude rapidamente con l’arrivo dell’esercito tedesco, che riprese subito il controllo del territorio, poi direttamente annesso al Reich, e continuò l’occupazione e la guerra con la consueta catena di crimini e stragi di civili. Nella primavera del 1945 la guerra termina con la vittoria dell’armata titina, che arriva a Trieste, assieme agli Alleati e ai partigiani italiani. E’ in questo periodo che, nelle zone controllate dall’esercito jugoslavo, si svolge la seconda e più vasta fase della sanguinosa vicenda delle foibe, anche se in questo caso la maggior parte delle vittime non moriranno nelle foibe, ma nei campi di prigionia jugoslavi, non per fucilazioni, bensì ancora per le pessime condizioni di detenzione. In questa fase, alla fine della guerra, la Jugoslavia è un vero e proprio Stato comunista, che vuole imporre il proprio controllo su tutti i territori liberati, sia punendo coloro che sono considerati criminali di guerra, collaborazionisti o comunque nemici della Resistenza, sia colpendo tutti quelli ritenuti pericolosi, perché contrari al comunismo, o, nel caso del confine, perché contrari all’instaurazione del potere jugoslavo.

E’ sempre nell’ambito di queste violente vicende belliche e post belliche che si inseriscono anche gli altrettanto dolorosi avvenimenti dell’esodo da Dalmazia, Istria e Venezia Giulia, sia delle popolazione italiane che là vivevano da tempo immemore, sia di quelle immigrate dopo le conquiste territoriali della prima guerra mondiale o a seguito dei tentativi dell’Italia fascista di italianizzare i territori originariamente slavi o multietnici. L’esodo di circa 250.000 italiani e 50.000 tra sloveni e croati, si svolgerà in più fasi, che corrispondono alla stabilizzazione del quadro statuale e dei confini, con l’allargamento progressivo delle zone amministrate dalla Stato Jugoslavo il quale, pur non emanando mai alcuna norma che obbligasse nessuno ad andarsene, fece in vario modo pressioni per favorire la partenza degli italiani. Le partenze si concentrarono infatti soprattutto in occasione dei trattati del 1947 e del 1954, quando apparve chiaro che gli jugoslavi non se ne sarebbero andati dai territori loro assegnati.

Dalla lunga disamina dei relatori è emerso quindi che le tragiche vicende di foibe ed esodo vadano comprese, anche se non giustificate, all’interno di un contesto storico, che spesso non coincide con la memoria dei singoli.

Enrico Campolmi

“Valerio vive, un’idea non muore”: manifestazione in ricordo di Valerio Verbano

Come ogni anno a partire dal 1980, terribilis annus, oltre 4.000 si sono radunate sotto la casa di Valerio Verbano, liceale impegnato nel quartiere e in una indagine sui gruppi eversivi di estrema destra, ucciso sotto gli occhi dei genitori legati ad una sedia. E’ utile ricordare che il dossier cui Valerio stava lavorando è sparito come pure la pistola di ‘ordinanza’ con la quale è stato freddato. Valerio è diventato cosi il simbolo di una generazione in lotta contro la grigia cappa clerico/fascista che opprimeva e opprime Roma dove i centri sociali sono sempre minacciati di sgombero mentre Casapound ha persino le utenze gratis.

Dopo l’omaggio floreale alla targa posta all’ingresso dell’abitazione di Valerio, un corteo di giovani è poi sfilato per le vie dei quartieri del Tufello e Montesacro. Gli studenti delle scuole hanno preparato con cura la manifestazione con riunioni, assemblee e con una settimana di trasmissioni a Radio Onda Rossa. Hanno persino rinfrescato la scritta sui muri del liceo Archimede che Valerio frequentava. Alla domanda: “siete qui per Valerio o contro il DDL sicurezza del governo?” uno studente del liceo Augusto risponde: “c’è differenza?”. Insieme agli studenti hanno sfilato curdi e palestinesi con le loro bandiere, giovani donne a ricordarci con i loro slogan che non c’è antifascismo senza lotta contro il patriarcato ed infine i compagni, ormai anziani, di Valerio molti dei quali tornati apposta a Roma. Ha praticamente sfilato tutto il III municipio

Terribilis annus il 1980 apertosi con l’omicidio di Mattarella seguito da Ustica e poi la stazione di Bologna per concludersi con la sconfitta operaia alla Fiat (61 licenziamenti e un mese di occupazione). Come e con un terremoto (Irpinia) si chiude il ventennio iniziato a Genova con la mobilitazione per impedire il comizio di Almirante. Si chiude un ventennio di conquiste sociali: diritto di famiglia, scala mobile, statuto dei lavoratori, divorzio e via discorrendo. Ma <il vento soffia ancora> si legge su una grande bandiera bianca che al centro reca l’immagine di un coloratissimo uccello. <Sarà un caso che a partire da allora sono nati circa 2500 Valerio e Valeria? > fa notare un compagno di lotta di Valerio.

Il corteo si è concluso con un concerto perché l’antifascismo si pratica anche con la socialità e la cultura.

Rachele Colella

Redazione Roma

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

“Il Messico ti abbraccia” ha già accolto 14.470 deportati dagli Stati Uniti

L’iniziativa denominata “Il Messico ti abbraccia”, lanciata dal nuovo governo di Claudia Sheinbaum, ha installato 10 centri di assistenza negli Stati confinanti con gli Stati Uniti, facilitando l’accesso a programmi sociali, servizi sanitari, offerte di lavoro e fornendo una carta contenente duemila pesos messicani (equivalenti a circa 100 dollari).

La presidente Sheinbaum ha riferito oggi che circa 14.470 persone espulse dagli Stati Uniti sono già arrivate in Messico da quando l’amministrazione di Donald Trump si è insediata alla Casa Bianca il 20 gennaio.

Di fronte alle annunciate espulsioni di massa che gli Stati Uniti avrebbero effettuato, il Messico ha rafforzato i suoi consolati nel Paese vicino, così come il risoluto supporto legale ai migranti, mettendo in atto un piano per accoglierli in caso di deportazione.

“Dal 20 gennaio sono tornate 14.470 persone, 11.379 messicani e 3.091 stranieri”, ha detto la presidente rispondendo a una domanda durante il suo incontro quotidiano con i giornalisti al Palazzo Nazionale.

“I nostri concittadini hanno lasciato la loro patria per cercare migliori opportunità di vita negli Stati Uniti”, ha dichiarato qualche settimana fa il Segretario degli Interni, Rosa Icela Rodríguez, sottolineando che queste persone non sono criminali e contribuiscono tanto all’economia del Messico quanto a quella del Paese vicino.

Redacción México

Stati Uniti, decine di proteste contro le politiche di Trump e Musk

In seguito al licenziamento di migliaia di dipendenti pubblici predisposto dal nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE), guidato dal miliardario Elon Musk e voluto da Trump, in alcune zone degli Stati Uniti si sono registrate proteste contro le politiche del fondatore di Tesla e del presidente della Casa Bianca. In particolare, centinaia di persone si sono radunate davanti alle concessionarie Tesla a New York, Kansas City e in tutta la California per protestare contro i tagli del DOGE. Gli organizzatori hanno riferito di almeno 37 dimostrazioni in uno sforzo coordinato attraverso gli hashtag social TeslaTakedown e TeslaTakover, con i manifestanti che hanno agitato cartelli con le scritte “Detronizzate Musk”, “Nessuno ha votato Elon Musk” e “Fermate il colpo di Stato”. In alcuni Stati democratici, inoltre, sono partite le rivendicazioni contro le politiche riguardanti i diritti all’aborto e delle persone transgender.

Attraverso il DOGE, istituito per ridurre la burocrazia statunitense, Musk ha finora licenziato più di 9.500 dipendenti federali che si occupavano di tutto, dalla gestione dei terreni federali all’assistenza dei veterani militari. I licenziamenti si aggiungono ai circa 75.000 lavoratori che hanno accettato una buonuscita offerta da Musk e Trump. Il presidente statunitense ha affermato che il governo federale è saturo e che troppi soldi vengono persi a causa di sprechi e frodi. Il governo ha circa 36 trilioni di dollari di debito e ha avuto un deficit di 1,8 trilioni di dollari l’anno scorso: c’è un accordo bipartisan sulla necessità di riforme. Tuttavia, l’ondata di licenziamenti ha causato proteste sia tra i dipendenti licenziati che tra i cittadini: molti lavoratori pubblici hanno affermato di sentirsi traditi dallo Stato che hanno servito per anni.

Trump e Musk hanno chiuso quasi completamente alcune agenzie governative come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Quest’ultimo era uno dei pochi uffici rimasti dalla crisi del 2008 con lo scopo di aiutare finanziariamente i cittadini comuni, ma è accusato dai repubblicani di abuso di potere. In risposta alla chiusura di queste Agenzie, è nata una nuova rete di dipendenti federali organizzata per contrastare i tagli nel settore pubblico, chiamata Federal Unionists Network (FUN).

Chris Dols, uno dei membri fondatori, ritiene che l’attacco al CFPB abbia chiarito qual è il vero obiettivo di Musk e Trump. «[Il CFPB] è la protezione dei consumatori contro le frodi», ha affermato, aggiungendo che «I truffatori se la sono presa con l’agenzia anti-truffa». In altre parole, secondo Dols, se Trump e Musk si preoccupassero davvero di ridurre gli sprechi e le frodi e di migliorare la vita dei lavoratori rafforzerebbero ed espanderebbero la portata del CFPB, anziché tagliarla.

Alcuni manifestanti, soprattutto negli Stati di stampo più “progressista” come la California, hanno messo in dubbio la legittimità di Elon Musk, sostenendo che nessuno lo ha votato e radunandosi fuori dalle concessionarie Tesla per protesta. Più di una trentina di eventi contro l’oligarca sudafricano naturalizzato statunitense sono andati in scena in varie parti degli USA, come riportato sul sito Action Network, dove si invitano le persone che possiedono delle Tesla o azioni della società a disinvestire, vendere il proprio veicolo e unirsi alle proteste. Le dimostrazioni seguono le notizie di incendi dolosi e danneggiamenti dei saloni Tesla in Oregon e Colorado. Alcuni investitori temono che il sostegno di Musk a Trump possa influenzare le vendite e sottrarre tempo allo sviluppo del marchio automobilistico: a gennaio le azioni Tesla hanno intrapreso una rapida discesa e anche le vendite risultano in calo.

La Casa Bianca ha affermato che Musk opera come dipendente governativo speciale non retribuito. Tale qualifica è riservata ufficialmente a coloro che lavorano per il governo per 130 giorni o meno in un anno. Fino ad ora, il DOGE ha chiuso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e sta cercando di chiudere il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Inoltre, come parte di una lotta alle politiche “woke“, Musk ha affermato che il suo team ha «risparmiato ai contribuenti oltre 1 miliardo di dollari in folli contratti DEI (diversità, equità e inclusione)».

L'Indipendente

I centri per migranti in Albania: un fallimento senza vergogna

I lavoratori, assunti a seguito dell’accordo tra Italia e Albania, sono stati licenziati nei giorni scorsi per “manifesta inutilità”. Assistiamo all’ennesimo fallimento delle politiche migratorie, peraltro in questo caso sbandierato come un grande successo da parte del nostro governo.

Gli accordi tra Italia e Albania per la creazione dei centri di trattenimento dei migranti si sono rivelati un completo insuccesso. Questo è evidente poiché tutti i migranti trasferiti dall’Italia a questi centri sono stati rapidamente rimandati indietro. Il fallimento è ulteriormente confermato dal licenziamento del personale impiegato per la gestione dei centri.

Il primo a riportare il licenziamento è stato il quotidiano “Domani“, che ha ottenuto la comunicazione con cui la cooperativa Medihospes ha terminato il contratto con i lavoratori impiegati nei centri in Albania.

La Medihospes è una cooperativa italiana specializzata in assistenza sociale e sanitaria, con sede a Roma. Opera in diverse strutture nel Lazio, in Puglia e in Basilicata. Dallo scorso ottobre, Medihospes è attiva anche in Albania dove, dopo aver vinto un bando di 134 milioni di euro indetto dal Ministero dell’Interno, gestisce i centri di Shengjin e Gjader, sebbene queste strutture non siano indicate sul loro sito.

Per questo progetto, la cooperativa ha reclutato mediatori culturali, autisti, medici, consulenti legali, addetti alle pulizie, psicologi, personale amministrativo, esperti informatici e altre figure professionali.

Il licenziamento, in vigore dal 15 febbraio, coinvolge la maggior parte dei dipendenti. Soltanto il personale essenziale resterà in servizio, tra cui alcuni medici, addetti alle pulizie e agenti di sicurezza.

L’accordo tra Italia e Albania

Il progetto stabilito dall’accordo tra Italia e Albania prevede la realizzazione di due centri: il primo a Shengjin, lungo la costa, dove attraccano le navi italiane che trasportano i migranti dall’Italia all’Albania. A Shengjin si svolge lo sbarco e l’identificazione dei migranti, un processo che è stato ripetuto più volte, incluso al momento dell’imbarco in Italia. Dopo lo sbarco e l’identificazione, i migranti vengono trasferiti al secondo centro, situato a Gjader, nell’entroterra albanese.

Nei centri vengono trasferite persone che, dopo una valutazione preliminare e senza garanzie, sembrano non soddisfare i criteri per ricevere asilo. In base all’accordo, i migranti rimangono in questi centri in attesa della decisione finale, che può essere di due tipi: l’accoglimento della richiesta di asilo, che consentirebbe loro di tornare in Italia, o il rigetto della richiesta, con conseguente espulsione. I migranti portati in Albania sono quelli soccorsi in mare dalla Guardia Costiera o dalla Guardia di Finanza Italiana, escludendo quelli salvati dalle ONG, evidenziando una discriminazione ulteriore.

I trasferimenti, secondo quanto stabilito dall’accordo, sono gestiti dalle autorità albanesi. Invece, l’Italia è responsabile della gestione interna dei centri, inclusa la cura delle persone durante la loro permanenza. Questo accordo comporta un trasferimento non solo di persone, ma anche di responsabilità e competenze, presentando numerose criticità logistiche e potenziali conflitti con le norme costituzionali.

Un progetto fallimentare ha portato al licenziamento del personale, poiché, dopo circa cinque mesi dall’apertura, nessuno è presente nelle strutture. Ogni volta che i migranti sono stati trasferiti in Albania, i giudici italiani non hanno mai convalidato la loro detenzione in questi centri, ordinandone il ritorno in Italia. Le convalide non sono avvenute perché in alcuni casi si trattava di minorenni o persone vulnerabili, con problemi di salute mentale o fisica. In generale, i giudici non hanno convalidato i fermi perché questo tipo di gestione viola le norme europee sulla gestione dei migranti.

L’accordo tra i due Paesi prevede l’invio di migranti provenienti da nazioni considerate sicure. Tuttavia, la questione dei Paesi sicuri è complessa, poiché l’Italia ritiene sicuri alcuni Stati che l’Unione Europea non considera tali, come la Tunisia, nota per la tratta di esseri umani, o la Nigeria. Inoltre, in Albania sono state trasferite persone provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, dove l’omosessualità è illegale e punibile con il carcere.

Questo elemento dell’omosessualità non dovrebbe essere trascurato nell’interpretazione giuridica, poiché per l’Unione Europea ogni individuo deve sentirsi completamente al sicuro nel proprio Paese di origine, senza dover rivelare le proprie preferenze sessuali o altri dettagli personali. Il prossimo 25 febbraio la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dovrebbe chiarire l’interpretazione delle norme sui “Paesi di origine sicuri”.

Il fallimento del progetto dei centri in Albania è evidente, tanto che il governo sta considerando un cambio di destinazione d’uso. Tra le possibilità c’è quella di trasformare queste strutture in CPR, centri permanenti per il rimpatrio, simili a quelli già esistenti in Italia. Tuttavia, i CPR sono anche criticati per la cattiva gestione e le condizioni disumane in cui si trovano.

Tutto ciò evidenzia la determinazione politica italiana, principalmente di questo governo ma non esclusivamente, nel proseguire su una gestione inumana dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente stringendo accordi con Paesi come Libia e Tunisia, noti per violazioni sistematiche dei diritti umani, complicità in violenze, torture e tratta di esseri umani. Gestione disumana che ha dato origine a luoghi crudeli come i CPR, noti per le comprovate violazioni dei diritti umani, culminando infine nella creazione di questi centri in Albania.

Un gioco politico e di potere svolto a scapito di persone trattate come merce da trasferire da uno Stato all’altro, rinchiuse in centri di vario tipo, spesso senza giustificazione e considerate come se fossero sacrificabili. Figure di potere che sembrano ignorare l’impatto delle loro decisioni sugli esseri umani, indifferenti alle conseguenze che tale disumanità può avere sul cuore, sulla mente e sull’anima di queste persone.

 

Heraldo