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Cultura e Media

La compagnia teatrale Kepler-452 porta sul palco il soccorso in mare

Prima assoluta all’Arena del Sole a Bologna il 27 febbraio.

Il soccorso in mare va in scena, a teatro, con A place of safety – Viaggio nel Mediterraneo centrale, uno spettacolo ideato dalla compagnia Kepler-452 che ha navigato con Sea-Watch 5 a luglio 2024, soccorrendo 156 persone. Quell’esperienza è diventata uno spettacolo che porta sul palco le emozioni le riflessioni e le voci della società civile in mare.

Lo spettacolo è prodotto da Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Théâtre des 13 vents CDN Montpellier e in collaborazione con Sea-Watch e EMERGENCY.

Dopo il successo nazionale e internazionale de Il Capitale, che portava in scena la lotta degli operai del Collettivo di fabbrica GKN, Kepler-452 ha scelto di raccontare l’epocale sfida del soccorso in mare e delle sue evoluzioni negli anni. Fanno parte dello spettacolo storie decine di testimonianze di ricerca e soccorso nel Mediterraneo che diventano, nella drammaturgia, le tappe di una missione: dalle paure prima di partire, alle motivazioni che spingono a imbarcarsi, a ciò che accade quando ci si avvicina alla zona delle operazioni, al soccorso, fino poi al viaggio di ritorno verso il porto sicuro di sbarco.

A place of safety debutta al Teatro Arena del Sole di Bologna il 27 febbraio e, dopo quattro repliche, quasi sold out, tornerà in scena da ottobre in Italia e in Europa. Insieme ai soccorritori e all’attore Nicola Borghesi, fa parte del cast Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch.

“Vogliamo raccontare i dieci anni di soccorsi nel Mediterraneo centrale con un linguaggio nuovo” – spiega Linardi. Il teatro ci consente di abbracciare una prospettiva intima, che pone al centro l’impegno civile in mare attraverso le persone che si imbarcano alle frontiere d’Europa, indagandone le ragioni e contraddizioni. Portare il soccorso in mare sui palchi d’Italia è una grande responsabilità e un’opportunità unica di incontro con nuove persone, mentre con le nostre navi e i nostri aerei continuiamo a presidiare il Mediterraneo. Siamo felici di farlo nelle mani della Fondazione Emilia Romagna Teatro e della compagnia Kepler-452, che da anni con i suoi spettacoli avvicina il teatro alla realtà, e questa volta ha scelto di salire a bordo con noi per sentire e vivere quello che sentiamo e viviamo ogni giorno”.

Sea Watch

Quelle brave ragazze: presentazione a Modena

“Spesso penso che si sia rubato il senso alle parole, lo si distorca , lo si pieghi per non affrontare che non è amore, non è un raptus. Il libro è un coro di voci di donne vive, seppur ferite, che permette di “ridare” senso e valore a quelle parole”. Così ha commentato la senatrice Susanna Camusso in merito al tema della violenza di genere, che sarà al centro della presentazione del libro della giornalista Stefania Catallo, Quelle brave ragazze (2024, Gemma Edizioni), in programma sabato 1 marzo dalle 10 alle 12 presso la Polisportiva San Faustino, in via Wiligelmo 72 a Modena.

L’evento, organizzato dalla Conferenza delle Donne Democratiche di Modena, vedrà la partecipazione della senatrice Camusso, che sottolinea l’urgenza di affrontare un problema sempre più attuale. I dati sul femminicidio, infatti, mostrano un trend in aumento, rendendo fondamentale non solo l’accoglienza e la protezione delle donne e dei loro figli, ma anche la creazione di percorsi di inserimento lavorativo e di sensibilizzazione culturale.

“Presentare “Quelle brave ragazze” di Stefania Catallo alla conferenza delle Democratiche è un atto di grande rilevanza politica e sociale. Questo libro, attraverso le sue potenti testimonianze, illumina le esperienze di donne che hanno subito violenze di genere, offrendo una visione chiara e commovente delle ingiustizie che ancora oggi affliggono la nostra società”, così si è espressa Patrizia Belloi, portavoce della Conferenza delle Donne Democratiche di Modena e moderatrice dell’evento. “La conferenza delle Democratiche, impegnata nella promozione dei diritti umani e dell’uguaglianza di genere, trova in quest’opera un alleato prezioso per sensibilizzare l’opinione pubblica e stimolare un dibattito costruttivo. Presentare questo libro significa dare voce a chi è stato silenziato, significa riconoscere e combattere le radici del patriarcato e della violenza.​ È un passo fondamentale per costruire una società più giusta, dove ogni donna possa vivere libera dalla paura e dalla discriminazione. La conferenza delle Democratiche, attraverso questa presentazione, riafferma il suo impegno nella lotta per i diritti delle donne e per una cultura di rispetto e dignità per tutti”.

Modena si mobilita quindi contro la violenza di genere, con un evento che intende far emergere la realtà di coloro che hanno vissuto, e purtroppo continuano a vivere, situazioni di rischio. Federica Venturelli, segretaria PD di Modena, ospite della presentazione, ha detto al riguardo: “Abbiamo scelto di presentare questo libro a Modena perché riteniamo che il tema della violenza di genere debba essere affrontato con urgenza e in modo profondo, sia in chiave preventiva che punitiva. La violenza non fa distinzioni: non colpisce solo donne di un certo tipo o di una determinata classe sociale, ma può riguardare ogni donna, da quelle che vivono in periferia a quelle che occupano posizioni di visibilità o prestigio.

“Quelle brave ragazze” è un viaggio nelle ombre di una realtà che troppo spesso viene banalizzata o ridotta a episodi sporadici. Ma la violenza di genere è qualcosa di molto più profondo e sistemico: è un meccanismo di punizione nei confronti delle donne che non si piegano, che non accettano il silenzio e la sottomissione imposti dal patriarcato.

Ma questo libro non parla solo di donne. Parla anche di uomini, non solo quelli che esercitano la violenza, ma anche quelli che decidono di mettersi in discussione. Uomini che raccontano la loro esperienza e la loro presa di coscienza, contribuendo ad aprire uno spazio di riflessione sulla cultura patriarcale che ancora permea la nostra società.

Con questa presentazione a Modena, vogliamo stimolare una riflessione collettiva, necessaria per affrontare la violenza di genere in modo serio e deciso. Non possiamo permetterci di ignorare la realtà di questo fenomeno, né di ridurlo a un fatto isolato. È fondamentale che si parli di questo tema, che si agisca per fermarlo e che insieme cerchiamo di costruire una società che sappia riconoscere e combattere ogni forma di violenza”.

All’evento sarà presente anche Giovanna Zanolini, presidente della Casa delle Donne di Modena e dell’Associazione Donne e Giustizia.

Olivier Turquet

Storie dall’Albania: Volersi Bene, Restare o Partire

Il fotoreporter Giovanni Simone ha trascorso l’intero mese di dicembre 2024 esplorando l’Albania, un paese affascinante e vicino all’Italia, ma che per troppo tempo è rimasto ai margini dell’attenzione collettiva. In questo angolo dei Balcani, dove il passato e il presente si intrecciano armoniosamente, gli albanesi cercano un legame forte con luoghi visti come porti sicuri e opportunità per un futuro migliore.

Questo è il secondo di una serie di fotoreportage dedicati all’Albania, con un focus particolare sulla vita nel paese e sulle contraddizioni di Tirana.

L’Albania, una terra di contrasti, intreccia la ricchezza della sua storia millenaria con le sfide della modernità. Se da un lato la sua posizione nei Balcani la rende un crocevia culturale e geografico affascinante, dall’altro le disuguaglianze economiche e sociali segnano profondamente la quotidianità dei suoi abitanti.

Con oltre il 51% della popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale, il paese si colloca tra i più vulnerabili del continente europeo, con un tasso nettamente superiore alla media UE del 21%. Nelle aree rurali, questa percentuale raggiunge quasi il 60%. A Tirana, il cuore economico dell’Albania, gli stipendi variano significativamente: un impiegato in una grande impresa può guadagnare fino a 900 euro al mese, mentre chi lavora in una microimpresa fatica ad arrivare a 400 euro. Nelle campagne, dove l’agricoltura è la principale fonte di reddito, gli stipendi sono ancora più bassi. I pensionati, con assegni medi di soli 150-200 euro al mese, vivono in condizioni di estrema vulnerabilità, spesso dipendendo dal supporto familiare, prolungando la loro vita lavorativa o affiancando piccoli lavoretti per arrotondare il reddito.

Le minoranze etniche, come la comunità Rom e gli Ashkali, affrontano sfide ancora più ardue. Circa il 90% dei Rom è disoccupato e il 40% delle loro famiglie vive in condizioni di precarietà abitativa. Anche gli Ashkali, una comunità di origine balcanica, si trovano spesso ai margini della società. La povertà costringe molti bambini a lavorare anziché frequentare la scuola, perpetuando un ciclo di esclusione difficile da interrompere.

Il costo della vita in Albania riflette una realtà complessa. Sebbene gli affitti e il cibo possano risultare più economici rispetto all’Italia, i bassi salari rendono la sopravvivenza una sfida quotidiana. A Tirana, l’affitto di un appartamento varia tra i 400 e gli 800 euro al mese, mentre acquistare una casa è un privilegio per pochi: il prezzo medio si aggira intorno ai 1.600 euro al metro quadro, con mutui difficili da ottenere per le elevate garanzie richieste. L’Albania, un paese importatore netto, dipende fortemente dall’estero per i beni di consumo, inclusi quelli di prima necessità. Il pollo si aggira intorno ai 7 euro al kg, il latte a 1,70 euro al litro e una dozzina di uova costa circa 3 euro. Il pane, alimento essenziale nella dieta albanese, ha un prezzo medio di 1,50 euro al kg. L’accesso all’acqua potabile rimane una delle sfide più critiche. Nonostante le abbondanti risorse idriche, la fornitura di acqua sicura e costante è problematica in molte zone, inclusa la capitale. Di conseguenza, gran parte della popolazione acquista acqua in bottiglia per il consumo quotidiano, con un costo medio di circa 60 centesimi di euro a bottiglia.

Tirana incarna le più evidenti contraddizioni, un luogo dove la fragilità economica si scontra con un’apparente vivacità sociale. La città è costellata di bar e caffè, con una densità sorprendente di un locale ogni 152 abitanti, facendone una delle capitali con il maggior numero di punti di ritrovo per persona. Ma dietro a questa vitalità si cela una realtà più complessa: nei mesi invernali, chi non può permettersi il riscaldamento domestico cerca rifugio in questi spazi per sfuggire al freddo pungente. Le infrastrutture cittadine mostrano gravi carenze: come nel resto dell’Albania, a Tirana manca una rete di gas cittadino, costringendo molti abitanti a fare affidamento su vecchie e costose pompe di calore, spesso inefficienti. Nei parchi cittadini, il sole diventa una risorsa preziosa, un rifugio naturale dove le persone si riuniscono per godere del calore e dedicarsi ad attività all’aria aperta.

Per molti albanesi, il proprio paese è solo una tappa temporanea, un luogo in cui vivere in attesa di emigrare. La loro sopravvivenza dipende dalla capacità di adattarsi a una realtà complessa, mentre l’Unione Europea rappresenta una speranza, un porto sicuro dove costruire un futuro dignitoso. Questa riflessione sulla vita in Albania invita a guardare oltre le statistiche, a comprendere la quotidianità di un paese che oscilla tra la resistenza e la fuga, tra il desiderio di costruire un domani migliore e la necessità di cercarlo altrove. Eppure, spesso, gli albanesi, immersi nella lotta per la sopravvivenza, dimenticano il significato più profondo di “Volersi bene”. Il concetto di benessere personale e collettivo viene relegato in secondo piano di fronte alla necessità di garantire il minimo indispensabile.

In Albania, “Volersi Bene” è uno stato d’animo da riscoprire, non solo come aspirazione individuale, ma come valore collettivo, capace di dare significato a un futuro costruito su fondamenta più stabili.

 

su Flickr https://flic.kr/s/aHBqjC35b1

 

“Nei pressi del Castello di Argirocastro, un’anziana venditrice offre erbe essiccate e tè di montagna (Sideritis), un infuso tradizionale noto per le sue proprietà antinfiammatorie, digestive e rilassanti. Ricco di antiossidanti, aiuta a rafforzare il sistema immunitario e alleviare raffreddore e problemi digestivi, tramandando antichi rimedi naturali della tradizione albanese.”

“Nel parco centrale di Berat, due anziani si sfidano a scacchi, approfittando del sole per riscaldarsi all’aria aperta. Questo gioco, profondamente radicato nella cultura albanese, è una passione diffusa nei caffè e nei parchi, simbolo di strategia e socialità, tramandato di generazione in generazione nelle città storiche del paese.”

“Nel quartiere delle case popolari di Coriza, una donna Ashkali stende il bucato sulla ringhiera della scuola dopo averlo lavato a mano nel giardino. Un tempo la sua casa ospitava tre famiglie in tre stanze con bagno esterno senza acqua corrente, ma oggi è rimasta solo lei con due dei figli, mentre gli altri sono emigrati all’estero in cerca di un futuro migliore.”

 

“All’ingresso di Moscopoli, pittoresca località montana rinomata per le sue antiche chiese ortodosse e il pregiato miele di fiori selvatici, una donna gestisce la vendita di prodotti tipici locali, offrendo ai visitatori un assaggio delle tradizioni e dei sapori autentici di questo affascinante villaggio.”

“In Albania, il tacchino è il piatto simbolo del cenone di Capodanno. Nei giorni precedenti, le strade si riempiono di improvvisati allevatori che guidano gruppi di tacchini con lunghi bastoni, conducendoli verso mercati improvvisati lungo le strade, dove vengono venduti ai passanti in una tradizione che si ripete ogni anno.”

“Nel bar del quartiere delle case popolari di Coriza, uomini del posto si sfidano a Tavëll, la versione albanese del backgammon. Nei mesi freddi, i bar diventano rifugi dal gelo montano, luoghi di socialità dove tra una partita e un caffè turco si scambiano storie e si rafforzano legami, mantenendo viva una tradizione radicata nella cultura locale.”

“Tra le case popolari di Tirana, recentemente assegnate a famiglie rom, un rappresentante del Movimento Bashkë mi accompagna in un viaggio tra storie di resilienza e speranza. Mentre la comunità affronta sfide quotidiane, il movimento si batte per l’inclusione e i diritti sociali, in un’Albania che cambia tra difficoltà e nuove opportunità.”

“La sussistenza delle minoranze etniche in Albania, come i rom, è spesso legata al recupero di rifiuti urbani. Materiali come la plastica vengono raccolti e portati nei centri di raccolta, dove vengono scambiati per pochi lek al chilo. Questa attività rappresenta una fonte di reddito essenziale, nonostante le difficili condizioni di lavoro e la mancanza di regolamentazione.”

“Chi si nasconde sotto questo topolino? In uno dei parchi di Tirana, un anziano signore lavora come figurante per foto con i passanti. Tra sorrisi e scatti ricordo, il costume diventa il suo mezzo di sostentamento, trasformando un angolo verde della capitale in un piccolo teatro quotidiano di incontri e fantasia.”

“Nel mercato di Scutari, un venditore siede con eleganza davanti alla sua bancarella di tessuti. Con giacca di pelle, sciarpa e coppola, incarna la tradizione albanese di vestire con cura, tipica degli anziani, per cui l’eleganza è segno di rispetto, disciplina e dignità. Un codice non scritto che ancora resiste tra le generazioni più mature.”

“Lungo le strade di Tirana, piccoli banchi colmano i marciapiedi di colori vivaci, vendendo frutta e verdura anche nel cuore dell’inverno. Sebbene l’Albania abbia una forte tradizione agricola, gran parte di questi prodotti proviene dall’estero, importati per soddisfare la domanda stagionale. Tra le cassette di peperoni e pomodori, il commercio resiste al freddo, mantenendo viva l’anima dei mercati di strada.”

Nel cuore del vecchio Bazar di Argirocastro, una signora attende pazientemente i clienti seduta davanti alla sua bottega. Con mani esperte si dedica all’uncinetto, un’antica arte albanese tramandata da generazioni. Tra fili e punti, crea con passione nuovi prodotti da vendere, mantenendo vive le tradizioni artigianali di questo affascinante angolo storico.”

“In Piazza Skënderbej a Tirana, un anziano signore si traveste da Babbo Natale per i festeggiamenti di Natale e Capodanno, cercando di arrotondare la sua pensione. Seduto tra le luci scintillanti e le decorazioni natalizie, osserva il via vai della città, regalando ai passanti un sorriso e un momento di magia in cambio di qualche moneta.”

“Nel pittoresco villaggio di Moscopoli, un’anziana signora annaffia con cura il suo orto, indossando abiti tradizionali scuri. In Albania, il nero è spesso scelto dalle donne anziane come simbolo di modestia, rispetto e lutto per le perdite subite nel corso della vita. Questa pratica riflette una profonda connessione con le tradizioni culturali e un forte senso di appartenenza alla comunità locale.”

“Sul lungomare di Durazzo, due ragazzi della nuova generazione albanese passeggiano mentre il sole si riflette sulle onde. Un tempo, da qui partivano migliaia di emigranti in cerca di un futuro migliore. Oggi, i giovani hanno il compito di costruire un’Albania che guarda al domani, tra il ricordo delle partenze e la speranza di una crescita nel proprio paese.”

 

 

 

 

 

Giovanni Simone

Haidi Gaggio Giuliani: “non sono i nostri figli che si devono vergognare, ma chi li persegue”

Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle, soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati statali, direttamente o indirettamente responsabili.

Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e “Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.

La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si processa.

Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.

Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.

Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla vita di tutte e tutti i giovani del mondo…

Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.

Non sono i nostri figli che si devono vergognareSono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo, per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”  (Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di dirlo a voce alta.

Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.

Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.

Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere. Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può avvelenare l’anima.

È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente, ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per noi”?!

In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo.

Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo, delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).

Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” – prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese (affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta, agli industriali.

Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava, ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si devono vergognare ma chi li persegue!

Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole, suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.

Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che, prima o poi, li spazzerà via.

Haidi Gaggio Giuliani

 

“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it – https://www.facebook.com/mammeinpiazza

Centro Sereno Regis

Contro il Pelecidio, Luca Sciacchitano: “Israele da decenni ingloba porzioni sempre più vaste di territorio”

Benvenuti alla quarta parte della rubrica “Contro il Pelecidio” che consiste nella pubblicazione, una volta a settimana, di una mini-intervista allo scrittore Luca Sciacchitano sui temi del suo ultimo interessantissimo saggio intitolato “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”  – edito da Multimage La casa editrice dei diritti umani – che senza filtri, con cognizione di causa ed una certa parresia, mette sotto accusa quello che è il colonialismo israeliano, il sionismo, l’occupazione belligerante di Israele in terre palestinese, i crimini di guerra, il terrificante sistema d’apartheid razzista e il “genocidio incrementale” messo in atto da ormai più di 70 anni, svelando apertamente le strategie colpevolizzanti della hasbara israeliana e della strumentalizzazione sionista della Shoah.

Cosa è la Palestina oggi? Da cosa viene soffocata e come sopravvive?

La domanda può essere approcciata da diverse angolazioni.
Da un lato potremmo dire che la Palestina, o meglio, tutto il quadro degli eventi a cui stiamo assistendo oggi in Palestina, rappresenta il tragico paradigma della contemporaneità: l’avidità senza freno dei potenti da un lato, la nostra assuefazione all’ingiustizia, dall’altro.
Ogni giorno tutti noi siamo vittime di piccole e grandi arroganze da parte dei poteri. Talmente abituati a essere bombardati dalle prevaricazioni che spesso neanche più ci ribelliamo, accettando ogni volta la nuova asticella, il nuovo limite, la nuova legge, la nuova tassa, il nuovo divieto come parte integrante dell’essere ingranaggi di una società incentrata sul potere di pochi.

L’altra faccia della medaglia però è che, non ribellandoci, noi accettiamo (centimetro dopo centimetro) che i governi, le multinazionali, le lobby ci tolgano ancora maggiori fette di libertà, diritti, indipendenza, stritolandoci sempre più tra le spire della loro pantagruelica avidità. Le democrazie sono in crisi, le ideologie sono scomparse, il lavoro ha perso la sua componente nobilitativa. Tutta la società contemporanea risulta oggi impostata in funzione delle necessità dei potenti: farci produrre, farci consumare, arricchirsi sulle nostre fatiche.

Diventa dunque imperativo iniziare a domandarci quale limite noi, il popolo, siamo disposti a sopportare prima di ribellarci. All’interno di questo quesito rivoluzionario, si innesta ciò che vediamo succedere in Palestina: siamo noi disposti ad accettare che il potere arrivi perfino a genocidare un intero popolo per 365 miseri chilometri quadrati di terra?

Dunque, una prima risposta alla tua domanda potrebbe essere che la Palestina è un simbolo: il paradigma della ferocia di un potere avido, inumano e violento che pensa di possedere tutto, finanche le anime delle persone. Ma è anche una sollecitazione alla nostra capacità di fissarci dei limiti oltre i quali la nostra umanità deve gridare “BASTA”.

Un’altra prospettiva su cui riflettere, nel rispondere alla tua domanda, è quella di inquadrare la Palestina come una creatura in via di estinzione. E come tutto ciò che rischia di evaporare nell’oblio, provare a tutelarla. Mi spiego meglio: la voracità dello Stato di Israele da decenni ingloba porzioni sempre più vaste di territorio. Colonia dopo colonia, l’estensione di ciò che oggi si può chiamare “Palestina” sulla mappa geografica si è tragicamente assottigliata.

La cosa risulta ancora più inquietante se si pensa che una manciata di decadi fa, il giorno prima del 14 maggio 1948, quando Ben Gurion autoproclamò la nascita dello stato di Israele, tutta la regione geografica compresa tra il Mediterraneo e il fiume Giordano era marcata nelle mappe geografiche come “Palestina”; non un nome coniato dai nemici del sionismo, ma risalente addirittura al XII secolo a. C. su volontà degli antichi egiziani (da Peleset, il nome dato ai Filistei), oppure quel Palaistine (Παλαιστινοί) utilizzato nel V secolo a.C. da Erodoto o, ancora, “Syria Palestina” secondo Adriano (135 d.C.).

E fa impressione, in questo grottesco teatro dell’assurdo in cui il sionismo pelecida fa a gara a spararla sempre più grossa, leggere frasi negazioniste come: “«Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un ‘popolo palestinese’ […] è una finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista” (B. Smotrich)

In questa sorta di “terrapiattismo” in chiave geopolitica, i sostenitori di questa sgangherata tesi ignorano perfino i contenuti dei documenti redatti dai sionisti per gli stessi sionisti.
La Dichiarazione Balfour, ad esempio, ovvero la lettera che l’omonimo ministro inviò a Lord Rothschild nel 1917 per auspicare “la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”.
O, ancora lo stesso Theodor Herzl, padre fondatore del sionismo, che nel suo “A Jewish State” chiedeva espressamente al suo lettore “shall we choose Palestine or Argentine?”.

Di quel vasto territorio chiamato Palestina, ed evocato come terra promessa perfino dai sionisti nel secolo scorso, cosa rimane oggi? A ovest, una striscia di terra ormai ridotta a fossa comune difficilmente abitabile. A est, una Cisgiordania ormai maculata dalla colonizzazione illegale, squassata dalla violenza, simile a una carcassa su cui si avventa ogni avvoltoio con doppio passaporto e la voglia di rubarsi un pezzo di terra a condizioni fiscali agevolate. Dunque, sì: una Palestina a rischio di estinzione.
Vengono quasi in mente gli antichi romani quando, negli spazi bianchi delle mappe, scrivevano “hic sunt leones”. I pelecidi di oggi ci scriveranno “hic non sunt amplius Palæstini”.

Sulla tua seconda domanda, ovvero da cosa viene soffocata la Palestina, la risposta sarebbe articolata ma la condenserei sul simbolo per eccellenza dell’oppressione: le mura perimetrali realizzate da Israele a partire dagli anni 2000 attorno alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania.
A mio avviso, quelle recinzioni sono le fondamenta pragmatiche sopra cui è edificata tutta l’ideologia sionista dell’apartheid.

Nel 2004, la Corte Internazionale di Giustizia ne fornì un giudizio inequivocabile: “l’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale”. Ma Israele aveva una strategia e, nonostante la sollecitazione della Corte a smantellarlo, lo mantenne in piedi.

Per capire il principio soggiacente quella strategia vanno qui riportate le parole di Michael Fakhri, relatore speciale del Consiglio per i diritti umani (ONU) quando a ottobre 2024 spiegava il report sulla denutrizione a Gaza, puntando l’indice accusatore proprio sul muro: “affamarli (i palestinesi n.d.r.) è il risultato di scelte compiute da decadi. […] bisogna andare indietro al 2000, quando Israele ha iniziato il suo blocco contro Gaza. […] Come un rubinetto che (Israele n.d.r.) può aprire o chiudere […] Contando le calorie e misurando cosa era permesso far entrare a Gaza ed essere sicuri che ciascuno rimanesse affamato, ma non così tanto da sollevare campanelli di allarme nel mondo. Così, il 6 di ottobre (il giorno prima degli attentati n.d.r.) metà della popolazione di Gaza presentava criticità alimentari e l’80% dipendeva dagli aiuti umanitari”.

Tutto quindi passa attraverso il muro: ciò che entra e ciò che esce; cose e persone.
Ad esempio, le imposte e i dazi doganali sui prodotti che varcano le mura e su cui solo Israele si arroga il diritto di commercio. Questi soldi servono, tra le altre cose, a pagare gli stipendi degli impiegati pubblici che, secondo i dati 2018 del Palestinian Central Bureau of Statistics, rappresentano un terzo dei lavoratori palestinesi. A cadenza periodica Israele decide di trattenerli: migliaia di famiglie palestinesi rimangono senza stipendio.

Oppure gli assalti ai pescherecci palestinesi per limitarne il territorio di pesca del 40% rispetto agli accordi di Oslo (fonte Euro-Med Human Rights Monitor) così da far calare il numero di pescatori registrati a Gaza da 10.000 a 4.000 unità in soli 20 anni.

Non va meglio sul fronte dell’agricoltura dove “durante tutto l’anno, gli aerei israeliani spruzzano ripetutamente erbicidi sulle terre palestinesi lungo i confini, causando danni alle colture agricole” (fonte EMHRM). A questo si aggiunga il divieto per i contadini ad avvicinarsi alla recinzione entro i 1.000 – 1.500 metri per aggiungere un’ulteriore deprivazione del 35% di territorio coltivabile.

E potremmo parlare del giacimento di Meged, il cui petrolio scorre anche sotto la Cisgiordania ma che Israele rifiuta di condividere o il Gaza Marine, un giacimento di gas a 20 miglia dalla costa di Gaza il quale, “se sfruttato adeguatamente, […] potrebbe coprire l’intero fabbisogno palestinese di gas e consentirebbe anche di effettuare esportazioni.” (fonte Geopop).

I palestinesi dunque sopravvivono in larga parte grazie agli aiuti umanitari distribuiti dall’UNRWA. Una distribuzione che non sottostando al controllo israeliano diventa disfunzionale alla politica pelecida. E così, con la scusa della manciata di lavoratori favorevoli a Hamas, su 30.000 impiegati, ecco spiegato il principale motivo della messa al bando e del susseguente tentativo di Israele di sostituirla con un’altra istituzione “rubinetto”, da poter chiudere su necessità politica.

Ma forse, alla tua domanda “cosa soffoca oggi il popolo palestinese”, la risposta più atavica e ciclica alla base dei genocidi è sempre la stessa: l’indifferenza del mondo.
L’indifferenza, complicità, propaganda, interessi economici dei potenti.
Quella stessa indifferenza che permise lo sterminio degli ebrei, nell’Europa nazista, oggi si ripresenta. E fra qualche decennio si ripresenteranno anche i ciclici memoriali, le cicliche giornate della memoria, le cicliche lacrime postume.

Chissà, forse fra venti anni ci sarà una bella stele in marmo a Gaza Riviere, luongo un Palestine Boulevard (magnanimamente concesso in terra d’Israele).
Di fronte al grattacielo edificato sopra una delle tante fosse comuni e, al largo, lo yacht dell’oligarca stipato di modelle e champagne. Nulla che la storia non abbia già visto.

Link alle prime 50 pagine in pdf del libro “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”: https://www.first-web.it/pelecidio1-50.pdf

Lorenzo Poli

AUCLIS: “Nella Giornata Internazionale della Lingua Madre bisogna valorizzare i dialetti”

Oggi si celebra la Giornata Internazionale della Lingua Madre, istituita nel 1999 dall’Unesco per promuovere la diversità linguistica e culturale e il multilinguismo, che ha avuto la sua prima edizione nell’anno 2000.

La data che si scelse è significativa perché proprio un 21 febbraio, quello del 1952, alcuni studenti furono uccisi dalla polizia a Dacca, la capitale dell’attuale Bangladesh, mentre manifestavano per il riconoscimento della loro lingua materna, il bengalese, come una delle due lingue nazionali dell’allora Pakistan.

La Giornata sarà celebrata anche quest’anno con numerosi eventi in tutto il mondo. Anche in Sicilia avranno luogo iniziative e momenti celebrativi, alcuni dei quali riguardanti la lingua siciliana.

L’AUCLIS, l’associazione che riunisce le associazioni che si occupano di lingua e cultura siciliana, in questa occasione rende pubblico un elenco di regole ortografiche utili per scrivere in lingua siciliana.

«Le seguenti dieci regole sono estrapolate dal siciliano letterario; per farlo, abbiamo considerato e analizzato – fa sapere l’AUCLIS nella sua nota – alcuni tra i più importanti autori di opere in prosa e poesia, di dizionari e di grammatiche di lingua siciliana. In particolare:

  • per i dizionari Siciliano-Italiano e Italiano-Siciliano Pasqualino-Rocca, Vincenzo Mortillaro, Salvatore Camilleri;
  • per le grammatiche della lingua siciliana: Innocenzo Fulci, Giuseppe Pitrè, Salvatore Camilleri, Vito Lumia, Gaetano Cipolla, Salvatore Russo;
  • per i testi di prosa e di poesie, i seguenti autori della letteratura in lingua siciliana: Giovanni Meli, Domenico Tempio, Giuseppe Fedele Vitale, Giuseppe Pitrè, Antonio Palomes, Nino Martoglio,
  • e i contemporanei (scelti numerosi, a dimostrazione della vitalità della koinè letteraria) di ogni parte di Sicilia: Nino Barone, Giovanna Cassarà, Giuseppina Cassarà, Alberto Criscenti, Rita Elia, Francesco Ferrante, Giuseppe Gerbino, Lina La Mattina, Euranio La Spisa, Antonino Magrì, Alessio Patti, Alfio Patti, Nino Pedone, Arcangela Rizzo.

Tutti questi autori e opere (e moltissimi altri che non abbiamo analizzato) concordano nelle dieci regole individuate, che vengono anche insegnate dal prof. Alfonso Campisi all’Università ‘La Manouba’ di Tunisi nelle lezioni accademiche del corso di Lingua e Cultura Siciliana».

Queste le regole diramate dall’AUCLIS:

1.  L’alfabeto della lingua siciliana è composto dalle seguenti 22 lettere: A, B, C, D, E, F, G, H, I, J, L, M, N, O, P, Q, R, S, T, U, V, Z. A queste 22 lettere va aggiunto il digramma DD quando esprime la occlusiva retroflessa sonora, esito del nesso etimologico -LL- (come in cuteddu); in questo caso va considerato come unica ‘lettera’ quando si effettua la divisione della parola in sillabe: cu-te-ddu. Le lettere K, X e Y sono state usate nell’alfabeto siciliano alcuni secoli addietro e, più recentemente, anche la Ç. La conoscenza di questo loro uso può essere utile nella lettura di testi in siciliano antico o di alcuni rari attuali toponimi e cognomi siciliani.

2.  Il rotacismo, cioè la trasformazione del suono della D – intervocalica o a inizio di parola – in R, fenomeno che avviene nel parlato in molte parti di Sicilia (ma non dovunque), non si evidenzia nello scritto dove rimane la D etimologica. Esempi: diri e non “riri”; dumani e non “rumani”; càdiri e non “càriri”.

3.  In siciliano la B e la G (e, in alcune zone anche la R e la D) in inizio di parola si pronunciano sempre doppie ma nella scrittura tale fenomeno della lingua parlata non si evidenzia; per cui si scrive bonu (e non “bbonu”), gebbia (e non “ggebbia”), rota (e “non rrota”), dui (e “non ddui”).

4.  Ogni qualvolta la parte iniziale di una parola, venendo a contatto nel parlato con la parte finale di quella che la precede, cambia di suono, tale cambiamento non viene evidenziato nella scrittura; pertanto, scriveremo tri cani (e non “tri ccani”), tri jorna (e non “tri gghiorna”), un jornu (e non “un gnornu”).

5.  Nel siciliano scritto di registro alto è preferibile usare sempre le forme intere. Per esempio, è preferibile usare come articoli determinativi lu, la, li, anziché le forme abbreviate ‘u, ‘a, ‘i.

6.  Quando si volesse scrivere un termine nella sua forma abbreviata (ove esistesse), si deve mettere l’apostrofo ad indicare la caduta di parte del termine intero:  su’ = sunnu; ‘ccattari = accattari. Se la forma intera non è più usata da nessuna parte, allora non c’è bisogno di mettere l’apostrofo: gnuranti (anziché ‘gnuranti).

7.  In alcune zone e in alcuni casi la R che precede un’altra consonante viene pronunciata I (‘vocalizzazione’), in altre zone scompare e, in entrambi i casi, la consonante che segue viene pronunciata doppia; questi fenomeni del parlato non saranno considerati nella scrittura, dove rispetteremo l’etimologia, per cui scriveremo, ad esempio, portu e non “pottu” o “puoittu”.

8.  In alcune zone della Sicilia esiste nel parlato la dittongazione metafonetica o quella incondizionata; nessuna di esse trova riscontro nella scrittura per cui si scrive fora e non “fuora”, bonu e non “buonu”, “buanu” o “buenu”.

9.  Tranne i monosillabi, nessuna parola in siciliano termina per O o E, a meno che non siano accentate.

10.  Si scrive sempre una sola Z – tranne in pochissime eccezioni – quando ad essa seguano due vocali come in tutte le parole terminanti in -zioni o in -zia e ziu (azioni, predicazioni, binidizioni etc.; dilizia, pasturizia, rigulizia etc.; cardinaliziu, fattiziu etc.).

 

Associazioni Unite per la Cultura e la Lingua Siciliana (AUCLIS)

Redazione Sicilia

È finita la battaglia per la libertà di Maysoon Majidi, non quella del popolo Kurdo

Maysoon Majidi prima di tutto è una giovane kurda, poi attivista e regista, fuggita dal regime islamico dell’Iran, uno dei regimi occupanti del Kurdistan, che è stato sacrificato e diviso per la volontà dell’Occidente che nel primo dopoguerra ha modificato la carta geografica e i confini del Medioriente, creando alcuni paesi e sacrificandone altri. Così il Kurdistan è stato diviso tra Iraq, Iran, Turchia e Siria e in seguito il popolo kurdo è stato sempre perseguitato. Per questo ha dovuto scegliere tra rimanere sottomesso o combattere, scegliendo di combattere; da quel momento sono iniziate la resistenza e la lotta del popolo kurdo e in un secolo i Kurdi sono stati attaccati anche con armi chimiche, uccisi in massa subendo un genocidio.

Ancora oggi quando si parla di bombardamento chimico e di genocidio, l’attenzione si rivolge subito e giustamente, a Hiroshima e alla Shoah; purtroppo la storia drammatica e la sofferenza dei Kurdi, come di altri popoli che hanno subìto genocidi negli ultimi anni, sono sistematicamente dimenticate, nel silenzio assordante delle istituzioni e dell’opinione pubblica. I Kurdi hanno vissuto la crudeltà di tutti i regimi che hanno governato e governano tuttora il Kurdistan. In Turchia ci chiamano i “turchi della montagna”, in Siria non abbiamo neanche il diritto di avere i documenti di identità, in Iraq non potevamo avere posti di lavoro se non eravamo del partito del Al-Bath, ci hanno mandato via dalle nostre case e hanno trasferito al nostro posto gli arabi per cambiare la demografia delle città kurde; in Iran eravamo considerati inesistenti: chi uccide un kurdo andrà in paradiso (fatwa di Khomeyni durante la preghiera del venerdì). In nessuno di questi stati occupanti si può parlare il kurdo, a differenza della Regione del Kurdistan autonomo in Iraq, regione federale dal 1990 dopo la guerra del Golfo, quando la lingua kurda è diventata la seconda lingua ufficiale del paese, ma ciò non vuol dire che sia tutto rose e fiori.

Il popolo kurdo, circa 40 milioni di persone, ancora oggi viene definito’ minoranza’ ed è senza una nazione. I diritti dei Kurdi sono calpestati da tutti e anche da coloro che si definiscono difensori dei diritti umani e dei valori di giustizia, che siano politici, giornalisti o attivisti. Per tornare al caso di attualità di Maysoon Majidi, tutti i media parlano in nome della difesa della libertà e dei diritti, ed invece sono i primi che li calpestano, senza che se ne rendano conto; infatti generalizzano il suo caso riferendosi alla norma del velo obbligatorio e alle leggi repressive per le donne in Iran. Riporto anche come esempio la vicenda della giovane kurda Jina Amini (che è stata la scintilla per accendere la rivoluzione “Jin Jyan Azadi” in Iran), che ancora oggi spesso viene chiamata “Mahsa”, il nome che le è stato dato dal regime per obbligo, perché i kurdi non possono avere o essere registrati con il nome kurdo. Nominarla come Mahsa rappresenta la negazione dei diritti della persona “Jina” e del popolo kurdo.

Quando si parla del regime islamico dell’Iran, della politica religiosa nel dominio assoluto, sia l’Occidente che gli stessi cittadini iraniani parlano di repressione nei quaranta anni di potere, che ha reso obbligatorio l’uso del foulard e ha limitato i diritti delle donne. Questo è vero fino a certo punto, perché democrazia e giustizia non c’erano nemmeno durante i regimi precedenti: è vero che lo shah, il sovrano di Persia, l’amico dell’Occidente, non obbligava l’uso del foulard, però non c’erano la democrazia, le libertà fondamentali e il rispetto dei diritti della persona; i kurdi erano sempre perseguitati. Ricordiamo che il carcere di Evrin era stato costruito per i kurdi, per i comunisti e per altri popoli (minoranze) oppositori in Iran. Oggi ad Evrin, dove è stata detenuta Cecilia Sala, si trovano anche tanti iraniani. I Kurdi, quindi, subiscono ingiustizia e repressione sin da quando il Kurdistan è stato smembrato, operazione che ha fatto sì che fuggissero e si rifugiassero in Europa e nel mondo.

Quindi Maysoon Majidi era ed è una dei milioni di Kurdi che si sono allontanati per salvarsi la vita e per avere la libertà; anche lei è dovuta scappare in Europa perché non ha trovato la sicurezza nemmeno in quella parte del Paese che oggi viene chiamato “Regione del Kurdistan autonomo in Iraq”, dove Maysoon si era recata per poter continuare la sua lotta e dove ha subìto gravi minacce. E’ scappata da un regime criminale e finita in un carcere italiano perché considerata ingiustamente scafista; in un paese libero invece di trovare la libertà “è caduta dalla bocca del lupo e finita nella bocca del leone”, come dice un proverbio kurdo.

Però non abbiamo mai perso la fiducia nella giustizia italiana. Maysoon da donna kurda ed attivista ha resistito e ha cercato di difendersi per avere la giustizia che non ha avuto in patria, con l’aiuto di tante persone, associazioni e anche di alcuni politici che le sono stati vicini. Ed è stata finalmente assolta!
Quello che importa sottolineare è che durante tutta l’assurda vicenda, ma anche dopo, Maysoon e il popolo kurdo continuano a subire ingiustizie e negazione dei diritti senza che vi sia alcuna attenzione dei media; c’è stato chi ha cercato purtroppo di strumentalizzare la vicenda di Maysoon per motivi politici e partitici.

E’ vero, tanti hanno difeso Maysoon ma allo stesso tempo tanti continuano a non riconoscere la sua identità di persona: alcuni giornali noti, conduttori televisivi che l’hanno intervistata e politici di chiara fama ancora oggi scrivono “ Maysoon, attivista iraniana, attivista kurda iraniana”, anzichè scrivere ‘attivista kurda’, punto e basta, o ‘attivista del Kurdistan occupato dall’Iran’, oppure ‘attivista di Rojhalat’; in questo modo, anche per ignoranza, negano l’identità e i diritti del popolo kurdo.
Ecco perché, tristemente, la storia del popolo kurdo è “la storia di uno Stato mai nato”.

Gulala Salih, donna Kurda, scrittrice e presidente di UDIK “ Unione donne Italiane e kurde”

Unione Donne Italiane e Kurde (UDIK)

Perché i neologismi “Pelecida” e “Pelecidio”?

A seguito del lancio di “Call to Action per la Palestina. Appello all’Accademia della Crusca” , finalizzata all’inserimento del lemma “Pelecidio” all’interno del vocabolario della lingua italiana, alcuni attivisti hanno sollevato legittimi dubbi relativamente all’utilizzo della parola ebraica תשלפ (Peleshet) quale radice del neologismo.

A ben considerare, si sarebbe potuto utilizzare il termine egiziano pꜣ-r-s-t (Peleset), diffuso durante tutto il XII secolo a.C. e rinvenuto in diverse iscrizioni coeve per quanto, l’utilizzo del termine egizio, non avrebbe modificato il conio del neologismo, data l’affinità fonologica tra i due termini, giustappunto insistenti entrambi in aree e periodi storici sovrapponibili.

Dunque, che si utilizzi la radice ebraica o quella egizia, il neologismo “pelecidio” non varia.
Fatta questa doverosa premessa, riteniamo tuttavia che l’utilizzo del termine ebraico, piuttosto che dell’equivalente egizio, dia ulteriore valore aggiunto e una più profonda stratificazione semantica.
Innanzitutto perchè sconfessa tutta la falsa retorica del “Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un popolo palestinese” per cui, secondo questo negazionismo storico, il popolo palestinese sarebbe “una finzione” elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista. (B. Smotrich, G. Meir e altri).

Quale migliore risposta a questi falsari storici se non farli sbugiardare direttamente dalla loro stessa lingua, dal loro stesso libro rivelato che, 3 millenni fa, certificava l’esistenza in Palestina del pre-esistente popolo dei תשלפ?

In seconda battuta, l’utilizzo di un termine ebraico per definire il genocidio del popolo palestinese lega indissolubilmente, dal punto di vista linguistico, l’oppressore all’atto genocidale da lui compiuto: ebraica è la radice della parola perché ebraica è la lingua parlata da coloro che (per lo meno, nella loro componente “pelecida” appunto) hanno la responsabilità di questi massacri.

Un abbraccio linguistico che sfida dunque il tempo e, anche fra secoli, continuerà ad agganciare attori e azioni.

A tal proposito rilanciamo la nostra campagna di segnalazioni sul sito dell’Accademia della Crusca, rimandando le istruzioni al seguente link: https://www.pressenza.com/it/2025/02/call-to-action-per-la-palestina-appello-allaccademia-della-crusca/

 

Luca Sciacchitano, Lorenzo Poli, Silvia Nocera, Veronica Tarozzi, Grazia Parolari, Paola Giordana Di Nardo, Simone Casu

Multimage

Storia e memoria: incontro a Pistoia per il Giorno del Ricordo

Nell’ambito delle celebrazioni del Giorno del Ricordo, organizzate dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPT), insieme all’Anpi, lunedì 17 febbraio, presso la libreria Feltrinelli di Pistoia, si è tenuto un interessante incontro dal titolo “Violenze e traumi del dopoguerra del Novecento nella regione Alto Adriatica”.

L’incontro originariamente doveva essere condotto da Stefano Bartolini, direttore dell’Istituto Storico pistoiese, in dialogo con Marta Verginella, docente di Storia all’Università di Lubiana. Per motivi di salute purtroppo la Professoressa non ha potuto essere presente ed il dialogo si è svolto allora tra Stefano Bartolini e Francesco Cutolo, ricercato in storia e collaboratore dell’ISRPT, che ha introdotto il tema. E’ subito emersa la necessità di storicizzare gli avvenimenti verificatisi nel periodo indicato lungo il confine orientale, una regione mistilingue e multietnica di notevole complessità per le relazioni tra i vari gruppi, che per secoli avevano convissuto sotto l’Impero Asburgico, ove la costruzione di uno stato nazionale, per definizione monoetnico, incontra grosse difficoltà. Con le conquiste seguite alla Grande Guerra, l’Italia occupa nuove porzioni di questo territorio, ritenuto erroneamente italiano da sempre, scontrandosi con una realtà in cui la popolazione, si parla di circa 400.000 persone di etnia slovena o croata, ha invece grande diffidenza verso i nuovi arrivati. Tale atteggiamento sarà interpretato come apertamente ostile dall’esercito italiano, che inizia ad agire molto duramente, anche attraverso fucilazioni, accusando molti civili di essere sabotatori o spie del nemico. Dalla trattazione è emerso poi l’atteggiamento subito apertamente anti slavo e razzista del fascismo, che si è manifestato fino dal discorso che Mussolini tenne a Trieste il 2 settembre 1920, ove definì gli slavi “tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili” e che poi sfociò, il 13 luglio del 1920, nell’incendio del Narodni Dom, la “casa della cultura” slovena di Trieste, nel corso di quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato“. Con la salita al potere del fascismo si assiste inoltre alla sistematica eliminazione di ogni riferimento alla lingua e alla cultura slovena. L’unica lingua ammessa, ovunque e comunque, è l’italiano. Tutti i nomi, sia di persone, che di località vengono italianizzati e tutte le organizzazioni slave, economiche, politiche o culturali, vengono cancellate, in ciò che è stato definito un vero e proprio etnocidio.

Nel maggio del 1941 l’Italia, con la Germania, invade la Slovenia e ne annette la parte meridionale, che diventa la Provincia Italiana di Lubiana. Nell’area, dove vivevano circa 320.000 persone, sorge subito un movimento di resistenza, guidato dai comunisti sloveni, per contrastare il quale l’Italia fascista invia un esercito di circa 60.000 uomini, che mette in atto una feroce repressione e una vera e propria guerra ai civili, durante la quale, in appena due anni, circa 50.000 sloveni o persero la vita o subirono gravissime offese. Esemplari sono le parole del Generale Roatta, comandante le truppe italiane, che nel marzo del ’42, all’interno della famigerata circolare 3C, stabiliva che “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula «dente per dente», ma bensì da quella «testa per dente»”. Gli farà eco il suo sottoposto, generale Robotti, che in una nota ai suoi soldati osserva che “si ammazza troppo poco!”. Oltre a uccisioni, incendio di villaggi e altre violenze di vario tipo, l’esercito italiano colpisce la popolazione slovena con deportazioni di massa, tra cui donne e bambini, nel tentativo di creare terra bruciata intorno ai resistenti. I deportati sloveni, assieme ad altri croati, montenegrini, greci ed ebrei, per un totale di circa 100.000 persone, vengono internati in una serie di campi di concentramento, sparsi per Slovenia, Croazia e Italia, dove circa 5.000 di loro moriranno a causa di fame, freddo e malattie legate alle terribili condizioni di detenzione, intenzionalmente applicate dagli italiani. Illuminanti sono le affermazioni del generale Gambara che nel ’43, riferendosi al campo sull’isola di Arbe (Rab), scrisse “Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo”. Ad Arbe, su un totale di circa 10.000 civili deportati, compresi donne, vecchi e bambini, circa 1500 morirono per le condizioni di detenzione. Il più piccolo aveva meno di un anno, il più vecchio oltre novanta.

Tutto ciò terminerà l’8 settembre 1943, con l’armistizio e lo sfascio totale dell’esercito italiano. Nelle regioni di confine parte a questo punto la vendetta delle popolazioni slave che, con una sorta di rivolta contadina non organizzata, aggrediscono, in vendette personali e regolamenti di conti, i simboli e i rappresentanti dello stato occupante. E’ questa la prima parte della vicende delle cosiddette foibe, cavità carsiche, dove vengono gettate alcune delle persone uccise, al fine di occultarne i corpi. Questa fase si conclude rapidamente con l’arrivo dell’esercito tedesco, che riprese subito il controllo del territorio, poi direttamente annesso al Reich, e continuò l’occupazione e la guerra con la consueta catena di crimini e stragi di civili. Nella primavera del 1945 la guerra termina con la vittoria dell’armata titina, che arriva a Trieste, assieme agli Alleati e ai partigiani italiani. E’ in questo periodo che, nelle zone controllate dall’esercito jugoslavo, si svolge la seconda e più vasta fase della sanguinosa vicenda delle foibe, anche se in questo caso la maggior parte delle vittime non moriranno nelle foibe, ma nei campi di prigionia jugoslavi, non per fucilazioni, bensì ancora per le pessime condizioni di detenzione. In questa fase, alla fine della guerra, la Jugoslavia è un vero e proprio Stato comunista, che vuole imporre il proprio controllo su tutti i territori liberati, sia punendo coloro che sono considerati criminali di guerra, collaborazionisti o comunque nemici della Resistenza, sia colpendo tutti quelli ritenuti pericolosi, perché contrari al comunismo, o, nel caso del confine, perché contrari all’instaurazione del potere jugoslavo.

E’ sempre nell’ambito di queste violente vicende belliche e post belliche che si inseriscono anche gli altrettanto dolorosi avvenimenti dell’esodo da Dalmazia, Istria e Venezia Giulia, sia delle popolazione italiane che là vivevano da tempo immemore, sia di quelle immigrate dopo le conquiste territoriali della prima guerra mondiale o a seguito dei tentativi dell’Italia fascista di italianizzare i territori originariamente slavi o multietnici. L’esodo di circa 250.000 italiani e 50.000 tra sloveni e croati, si svolgerà in più fasi, che corrispondono alla stabilizzazione del quadro statuale e dei confini, con l’allargamento progressivo delle zone amministrate dalla Stato Jugoslavo il quale, pur non emanando mai alcuna norma che obbligasse nessuno ad andarsene, fece in vario modo pressioni per favorire la partenza degli italiani. Le partenze si concentrarono infatti soprattutto in occasione dei trattati del 1947 e del 1954, quando apparve chiaro che gli jugoslavi non se ne sarebbero andati dai territori loro assegnati.

Dalla lunga disamina dei relatori è emerso quindi che le tragiche vicende di foibe ed esodo vadano comprese, anche se non giustificate, all’interno di un contesto storico, che spesso non coincide con la memoria dei singoli.

Enrico Campolmi

“Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo” – Dal 26 febbraio su Sky Documentaries e in streaming solo su NOW

Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo è un documentario Sky Original in due parti, prodotto da Sky e Palomar in associazione con Sky Studios in esclusiva dal 26 febbraio alle 21.15 su Sky Documentaries e in streaming solo su NOW. La docuserie di e con Roberto Saviano, racconta di un uomo che cambia pelle, sapendo restare straordinariamente fedele a sé stesso, e di 30 anni di indagini per far riemergere la verità sul suo omicidio.

Con soggetto e sceneggiatura di Roberto Saviano e Stefano Piedimonte e la regia di Giovanni Troilo, il documentario è un viaggio intorno a una figura straordinaria, capace di trasformarsi in tante vite diverse attraversando epoche e forme di lotta differenti, col suo carisma e il suo bisogno di cambiare senza però smettere di obbedire allo stesso principio guida: il costante desiderio di curare sé stesso e il mondo.

Una storia che culmina col suo omicidio politico, i depistaggi e gli anni di ricerche che sono stati necessari per ottenere verità e giustizia, nel labirinto di incompetenze e occultamento delle prove.

Rostagno rappresenta uno spaccato della storia italiana per 20 anni, dal 1968 al 1988, attraversando le lotte giovanili del 1968, l’esperienza ai vertici di Lotta Continua, la fondazione del centro sociale milanese per l’attivismo politico e l’espressione creativa Macondo, l’appartenenza all’ashram di Osho a Pune, la creazione del suo ashram siciliano trasformato in centro di riabilitazione per tossicodipendenti, Samaan. Ha sempre fatto parte di qualcosa, senza mai essere inghiottito ed etichettato, senza perdere la sua originalità. Rostagno, in tutte le sue vite, è sempre stato un personaggio scomodo, perché ha gridato a piena voce le sue convinzioni, approdando perfino a RTC, una piccola televisione locale, reinventandosi giornalista e denunciando le collusioni tra mafia e politica locale. Dopo l’omicidio di Rostagno, avvenuto il 26 settembre 1988, le indagini hanno preso mille direzioni diverse.

Un lungo, doloroso ed estenuante slalom prima di accertare la verità: ad uccidere Mauro è stata la mafia, su cui Rostagno stava caparbiamente indagando, contro cui stava lottando con la sua ironia feroce e la sua intelligenza infaticabile.

Redazione Italia