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Diritti Umani

Ultima Generazione, Roma: sei processi in due giorni

Roma, 21 febbraio 2025 – Continuano i processi ad Ultima Generazione. Ieri e oggi si sono tenute presso il Tribunale di Roma udienze per i seguenti processi:

  • Blocco stradale e sgombero casa, udienza predibattimentale, capi di impuzione: art. 639 c. 2 c.p., 110 e 112, n.1 c.p., 340 cc. 1,2 cp, art.76 comma 3 d.lgs 159/2011; persone coinvolte 10. Rinviata per difetto di notifica al 2 ottobre 2025.
  • Azione fontana Quattro Fiumiudienza predibattimentale, capi di imputazione: 110, 112, c.p., 518 duodecies co 2 c.p.; persone coinvolte 4. Il giudice ha deciso per il proseguimento del processo fissando la nuova udienza al 18 marzo 2025.
  • Azione vetrina Eniudienza predibattimentale, capi di imputazione: art. 635, comma 3 c.p., 110 e 112, n.1 c.p., all’art. 4 c. 2 e 5 L. n. 110/1975, art. 76 comma 3 d.lgs 159/2011; persone coinvolte 5. Il giudice ha deciso per il proseguimento del processo in data che verrà comunicata.
  • Blocco stradale insieme a GKN, udienza predibattimentale, capi di imputazione: art. 110, 112 comma 1 n.1 cp, art. 340 commi 1, 2 cp; persone coinvolte 12. Il giudice ha deciso per il proseguimento del processo predibattimentale fissando la nuova udienza al 19 giugno 2025.
  • Azione fango al Senato, udienza predibattimentale, capi di imputazione: 110, 112, c.p., 518 duodecies co 2 c.p.; persone coinvolte 8. Rinviata per difetto di notifica al 19 giugno 2025.
  • Blocco stradale davanti al Colosseo,capi di imputazione: art. 110 art. 112 c.1 n.1, art. 340 c.1 e c.2 c.p., art. 76 c.3 relativo all’art. 2 del d.lgs. 159/2011. Persone coinvolte 5. L’udienza è stata aggiornata al 25 marzo 25 marzo 2025.

AL VIA LA CAMPAGNA “IL GIUSTO PREZZO”

L’Italia sta affrontando una crisi agricola senza precedenti. Il prezzo dell’olio, della frutta e di altri generi alimentari di base è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Dietro questi aumenti ci sono fenomeni climatici estremi come siccità, alluvioni e grandinate, che stanno mettendo in ginocchio l’agricoltura italiana. Ma la crisi non colpisce solo i consumatori: anche gli agricoltori si trovano in difficoltà, schiacciati tra la crisi climatica e le logiche della grande distribuzione organizzata, che li costringe a vendere i loro prodotti a prezzi irrisori. Oggi su 100 euro di spesa solo 7 ritornano al produttore: serve un’alleanza di produttori e consumatori, entrambi vittime dell’inflazione climatica. Per affrontare questa emergenza e costruire un’alleanza tra agricoltori e famiglie italiane preoccupate per il futuro, abbiamo lanciato martedì 19 febbraio la nostra nuova campagna: “Il Giusto Prezzo”.

COSA CHIEDIAMO?

PROTEGGERE I RACCOLTI: L’agricoltura italiana sta affrontando una crisi senza precedenti. Siccità, ondate di calore, grandinate e alluvioni devastano i campi, compromettendo raccolti e coltivazioni. Dobbiamo proteggere i raccolti e, per farlo, è necessario promuovere una transizione verso un nuovo sistema agricolo che sia resiliente e sostenibile economicamente ed ecologicamente.

AGGIUSTARE I PREZZI: Il costo degli alimenti nei supermercati sta diventando insostenibile, mentre ai produttori arriva solo una minima parte del prezzo finale. Chiediamo alle Istituzioni di intervenire immediatamente per garantire un giusto prezzo al cibo, equo per chi compra e per chi produce.

FAR PAGARE I RESPONSABILI: Chi rompe paga. Vogliamo che a finanziare questa transizione verso un sistema agricolo più sostenibile non siano le nostre tasse ma siano, piuttosto, gli extraprofitti dei reali responsabili della crisi attuale – la finanza, la GDO, i top manager delle multinazionali del cibo e l’industria del fossile.

PRESENTAZIONE ONLINE

Per approfondire il tema e discutere insieme le prossime azioni, ti invitiamo a partecipare al nostro incontro pubblico online il 23 febbraio. Sarà un’occasione per confrontarci, ascoltare esperti e costruire insieme un piano d’azione concreto.

Cartella stampa su tutte le azioni organizzate da dicembre 2021 qui

PROSSIMI INCONTRI:

●       Prossimo incontro online è il 23 alle ore 21 – iscrizione a questo link: http://vai.ug/e/250223?cs

●       Milano: 4 marzo ore 20.30: Cinema Mexico, cineforum di Berlinguer insieme al regista Andrea Segre e Ultima Generazione

●       Roma: 11 marzo ore 21.00: Cinema Giulio Cesare, cineforum di Berlinguer insieme al regista Andrea Segre e Ultima Generazione

PROSSIMI PROCESSI:

●       Milano – 25 febbraio ore 9.45: Blocco stradale viale don Sturzo

I NOSTRI CANALI

Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web:

●       Sito web:https://ultima-generazione.com

●       Facebook@ultimagenerazione.A22

●       Instagram@ultima.generazione

●       Twitter@UltimaGenerazi1

●       Telegram@ultimagenerazione

 

Ultima Generazione è una coalizione di cittadini ed è membro del network A22.

Ultima Generazione

Dopo oltre tre anni il Marocco ha scarcerato un attivista uiguro ricercato dalla Cina

“Mi hanno portato in prigione, glielo hanno chiesto i cinesi. Fate presto perché vogliono mandarmi in Cina”.

Sono le uniche parole che Idris Hasan, un ingegnere informatico uiguro di 34 anni e padre di tre figli, riuscì a dire alla moglie Zaynura in una brevissima telefonata dalla prigione di Tiflet, in Marocco, dove era stato portato il 19 luglio 2021.

Hasan aveva lasciato la Repubblica autonoma uigura dello Xinjiang dieci anni prima e viveva in esilio in Turchia, dove aveva ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Per rispondere a quel grido disperato, “fate presto”, è stato necessario attendere 43 mesi. Tanti ce ne sono voluti – nonostante addirittura l’Interpol avesse già nell’agosto del 2021 annullato il mandato di cattura – prima che le organizzazioni per i diritti umani, Amnesty International in testa, riuscissero a convincere le autorità marocchine a rinunciare a estradare Hasan in Cina, dove l’equazione uiguro=terrorista avrebbe significato una persecuzione certa.

Il 14 febbraio 2025, dopo essere stato rimesso in libertà, Hasan è volato negli Usa.

Riccardo Noury

Richiesta di esonero da attività scolastiche che prevedono la partecipazione delle Forze Armate

Considerata la sempre più invasiva presenza delle Forze Armate e di Polizia all’interno delle scuole che l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università monitora e denuncia quotidianamente come inaccettabile invasione di campo in un clima generale caratterizzato da una crescente propaganda militare e da una folle corsa agli armamenti, proponiamo ai genitori e alle genitrici che come noi ripudiano la guerra un agile strumento da presentare alle scuole all’atto di iscrizione dei propri figli e delle proprie figlie o in qualsiasi altro momento dell’anno si ritenga opportuno al fine di contribuire ad arginare quella che noi consideriamo una pericolosa frana culturale.

Non è attraverso l’idea di una “cultura della difesa” che si può tutelare l’educazione delle giovani generazioni e il loro percorso educativo che deve essere improntato alle idee di pace e convivenza tra i popoli.

Invitiamo inoltre genitori e genitrici a segnalare episodi di militarizzazione delle scuole al seguente indirizzo mail (osservatorionomili@gmail.com) e a informarsi sulle nostre attività sul sito dell’Osservatorio (https://osservatorionomilscuola.com/).

Clicca qui per scaricare la versione editabile della richiesta di esonero per i/le propri/e figli/e.

OGGETTO: RICHIESTA DI ESONERO DA ATTIVITÀ SCOLASTICHE CHE PREVEDANO LA PARTECIPAZIONE DIRETTA O INDIRETTA DI POLIZIA DI STATO, ARMA DEI CARABINIERI, GUARDIA DI FINANZA, POLIZIA PENITENZIARIA, POLIZIA LOCALE, FORZE ARMATE ITALIANE E/O DI ALTRE NAZIONI.

Al/lla Dirigente Scolastico/a
Al Consiglio d’Istituto
Uff. protocollo dell’Istituto…………………………

Gentile Dirigente, Gentili membri del Consiglio di Istituto,
con la presente, io/noi sottoscritt……. genit…… esercenti la potestà genitoriale dell’alunno/a ……………………….. iscritto/a alla classe …..……… presso il Vostro Istituto, presentiamo la seguente dichiarazione.

CONSIDERATI

– la nota MIUR, prot. n. 4469 del 14 settembre 2017, che fornisce linee guida per l’educazione alla pace e alla cittadinanza glocale;

–  l’art.1 comma 7 lettera d della Legge 107/2015, che indica tra gli obiettivi prioritari delle scuole lo sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva e democratica attraverso l’educazione interculturale e alla pace;

– la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con legge del 27 maggio 1991, n. 176 in particolare il preambolo dove si afferma: «In considerazione del fatto che occorre preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nella Carta delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà»; l’art. 3: «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente»; l’art. 29: «Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: b) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite»;

CONSIDERATO INOLTRE CHE

– L’educazione familiare impartita a nostra/o figlia/o è fortemente improntata alla pace e alla cultura di pace;

– l’educazione alla pace è, a mio/nostro avviso, incompatibile con attività scolastiche che prevedano il coinvolgimento diretto o indiretto della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Polizia Penitenziaria, della Polizia Locale, delle Forze Armate italiane, delle forze armate di altre nazioni e di corpi o istituzioni europee e internazionali che svolgono attività militari così come di enti e soggetti ad essi collegati;

– sono/siamo fortemente contrari/o/a all’esposizione e alla diffusione nella scuola di mio/a/nostro/a figlio/a di materiale promozionale della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Polizia Penitenziaria, della Polizia Locale, delle Forze Armate italiane e di altre nazioni e di organizzazioni internazionali, e di qualsiasi materiale finalizzato a propagandare le attività belliche e militari, l’arruolamento e la vita militare (anche al fine di orientare e condizionare le future scelte professionali di mio/a/nostro/a figlio/a);

– sono/siamo fortemente contrari/o/a alla partecipazione di mio/a/nostro/a figlio/a a manifestazioni militari, all’organizzazione di visite guidate, a percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO), a iniziative di orientamento, presso strutture militari (quali basi militari, sedi di forze militari nazionali e non, caserme, ecc..) siano esse italiane o appartenenti ad altre nazioni e organismi internazionali (ad esempio basi statunitensi o basi NATO);

–  sono/siamo fortemente contrari/a/o alla realizzazione nella scuola di mio/a/nostro/a figlio/a di progetti in partenariato con strutture militari o aziende (italiane e non) coinvolte nella produzione di materiale bellico; esprimo/iamo contrarietà anche per quelle iniziative che, prevedendo obiettivi formativi fondamentali come la prevenzione della violenza di genere, delle varie forme di dipendenza, o la semplice divulgazione della cultura scientifica in vari ambiti o l’approfondimento di periodi o fatti storici o sociali, siano svolte da esponenti delle FF.AA. o di P.S., in quanto la loro trattazione in chiave pedagogica ed educativa è di stretta competenza delle istituzioni e del personale scolastico;

– sono/siamo fortemente contrari/o/a alla partecipazione di mio/a/nostro/a figlio/a ad attività di PCTO e orientamento che prevedano la presenza di personale militare o di aziende (italiane e non) coinvolte nella produzione di materiale bellico;

Tutte tali attività sono, a mio/nostro avviso, in palese conflitto con la funzione istituzionale e costituzionale della scuola;

TUTTO CIO’ PREMESSO

Io/noi sottoscritto/i CHIEDIAMO all’Istituzione Scolastica e al/alla Dirigente Scolastico/a, in qualità di rappresentante legale della scuola, che per la durata dell’intero percorso scolastico mio/a/nostro/a figlio/a sia esentato da ogni genere di attività che preveda il coinvolgimento di forze armate o di polizia o connesse con il mondo militare anche con riguardo al settore industriale delle armi, non ravvisandone alcuna le finalità educativa;


DIFFIDIAMO

dal discriminare mio/a/nostro/a figlio/a in base a questa scelta autonoma operata dai genitori in quanto suoi rappresentanti legali;

e CHIEDIAMO

l’organizzazione di proposte alternative qualora la scuola preveda le attività di cui sopra.

Ci riserviamo, infine, di promuovere tutte le opportune azioni, anche legali, a tutela dei nostri diritti e di quelli di mio/a/nostro/a figlio/a.

Restiamo in attesa di una tempestiva risposta da parte dell’Istituzione Scolastica.

Cordiali saluti,

Luogo ……………………………. Data ……………..

Firme…………………………………………….

………………………………………

N.B.: (parte da non inviare) Tale allegato va protocollato alla segreteria della scuola o inviato tramite PEC, all’atto dell’iscrizione o successivamente. Si chiede, cortesemente, di dare informativa dell’invio a osservatorionomili@gmail.com

Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università

Perché i neologismi “Pelecida” e “Pelecidio”?

A seguito del lancio di “Call to Action per la Palestina. Appello all’Accademia della Crusca” , finalizzata all’inserimento del lemma “Pelecidio” all’interno del vocabolario della lingua italiana, alcuni attivisti hanno sollevato legittimi dubbi relativamente all’utilizzo della parola ebraica תשלפ (Peleshet) quale radice del neologismo.

A ben considerare, si sarebbe potuto utilizzare il termine egiziano pꜣ-r-s-t (Peleset), diffuso durante tutto il XII secolo a.C. e rinvenuto in diverse iscrizioni coeve per quanto, l’utilizzo del termine egizio, non avrebbe modificato il conio del neologismo, data l’affinità fonologica tra i due termini, giustappunto insistenti entrambi in aree e periodi storici sovrapponibili.

Dunque, che si utilizzi la radice ebraica o quella egizia, il neologismo “pelecidio” non varia.
Fatta questa doverosa premessa, riteniamo tuttavia che l’utilizzo del termine ebraico, piuttosto che dell’equivalente egizio, dia ulteriore valore aggiunto e una più profonda stratificazione semantica.
Innanzitutto perchè sconfessa tutta la falsa retorica del “Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un popolo palestinese” per cui, secondo questo negazionismo storico, il popolo palestinese sarebbe “una finzione” elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista. (B. Smotrich, G. Meir e altri).

Quale migliore risposta a questi falsari storici se non farli sbugiardare direttamente dalla loro stessa lingua, dal loro stesso libro rivelato che, 3 millenni fa, certificava l’esistenza in Palestina del pre-esistente popolo dei תשלפ?

In seconda battuta, l’utilizzo di un termine ebraico per definire il genocidio del popolo palestinese lega indissolubilmente, dal punto di vista linguistico, l’oppressore all’atto genocidale da lui compiuto: ebraica è la radice della parola perché ebraica è la lingua parlata da coloro che (per lo meno, nella loro componente “pelecida” appunto) hanno la responsabilità di questi massacri.

Un abbraccio linguistico che sfida dunque il tempo e, anche fra secoli, continuerà ad agganciare attori e azioni.

A tal proposito rilanciamo la nostra campagna di segnalazioni sul sito dell’Accademia della Crusca, rimandando le istruzioni al seguente link: https://www.pressenza.com/it/2025/02/call-to-action-per-la-palestina-appello-allaccademia-della-crusca/

 

Luca Sciacchitano, Lorenzo Poli, Silvia Nocera, Veronica Tarozzi, Grazia Parolari, Paola Giordana Di Nardo, Simone Casu

Multimage

In nome e per conto di tutti i Luca Rossi

Ci sono a volte dei corto circuiti emotivi che consentono dei collegamenti, delle connessioni che offrono sprazzi di lucidità.

Ieri sera ero a una partecipatissima serata organizzata da Hope Club e da Biella antifascista nella cittadina ai piedi del Mucrone.

Ascoltavo Perla Allegri di Antigone e Gianluca Vitale, avvocato, descrivere i dispositivi contenuti nel famigerato DDL Sicurezza, in corso di approvazione in Parlamento.

Sarà stata la stessa emozione che ha portato Perla Allegri ad aprire il suo intervento dicendo che normalmente si sente sola a trattare questi temi scomodi e invece, data la folta partecipazione, “vedere questa sala piena di persone stasera mi riempie il cuore”

Vi è stata poi, certo, una ampia e fattuale spiegazione di come questo Decreto “Sicurezza”, qualora venisse approvato, ci renderà ancora più insicuri, e di quanto sia calibrato per attaccare e rendere penalmente perseguibili i giovani, i migranti e i detenuti. E di questo scriveremo ancora nei prossimi giorni e mesi.

Eppure quella che sento viva, la mattina dopo, è ancora la parte emotiva. Ieri guardavo Perla e mi veniva da piangere di rabbia. Il perché l’ho spiegato nel breve intervento che ho fatto appena conclusi quelli dei relatori.

39 anni fa, a Milano, esattamente il 23 febbraio del 1986 morì un ragazzo a cui, pur non avendolo conosciuto, sono molto legato. Si chiamava Luca Rossi.

E’ la sera del 23 Febbraio 1986. Luca ed un amico, giovani militanti e studenti universitari non ancora ventenni, stanno correndo per prendere la filovia in Piazzale Lugano, quartiere Bovisa di Milano. In un altro punto della stessa piazza, alcune persone discutono prima con calma e poi sempre più animatamente e scoppia una rissa. Una delle persone coinvolte è un agente fuori servizio in forza alla Digos. La rissa è un susseguirsi di pestaggi e discussioni e dopo oltre quindici minuti finisce senza che l’agente chiami rinforzi. Due delle persone coinvolte fuggono in auto ed il poliziotto incapace di affrontare la situazione con la ragione e l’autorità richieste, estrae la sua pistola d’ordinanza ed in posizione di tiro, facendo arbitrariamente e illegittimamente uso delle armi, spara ad altezza d’uomo per colpire i fuggitivi. Uno dei proiettili ferisce a morte Luca che si trovava a passare per caso in quel luogo e in quel momento. Ma non è un “caso” che consente al poliziotto di sparare. E’ una legge, la cosiddetta “Legge Reale” che conta al suo attivo negli anni decine e decine di vittime “per sbaglio”. La successiva sentenza definitiva, che chiude il processo voluto dai familiari per ricerca di verità e giustizia e non certo per vendetta, riconosce l’agente colpevole di omicidio colposo aggravato.

Queste le parole che descrivono la storia di Luca sul sito dei suoi amici e compagni, che poi sono anche i miei compagni e amici.

Il riconoscimento di colpevolezza dell’agente che usò impropriamente la sua arma di servizio e che colpì Luca che correva per prendere il filobus, nel quadro normativo del DDL Sicurezza, non sarebbe più possibile, o sarebbe molto più difficile; in quanto il decreto prevede la possibilità, per il personale di polizia, di avere la propria arma personale in qualunque momento e di poterla utilizzare anche non in servizio.

Ripeto quello che ho detto ieri sera: questa norma è espressione di una ideologia autoritaria che vuole negare tutto ciò che c’è di umano non solo nelle nostre Leggi, ma proprio nelle nostre vite. E’ il caso di non rimanere ulteriormente divisi e isolati. Quello che dobbiamo fare è unirci e combattere. Per restare umani

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento,
perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto,
perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi.
Ma poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente,
perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

 

Ettore Macchieraldo

La Corte penale internazionale smentisce le menzogne del governo Meloni sul caso Almasri

La Procura della CPI ha chiesto “alla Camera preliminare di accertare l’inosservanza dell’articolo 87, comma 7, nei confronti della Repubblica Italiana per il rilascio di Almasri NJEEM e di adire l’Assemblea degli Stati Parte (“ASP”) e/o il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (“UNSC”). Si osserva come “il fatto che le autorità competenti non hanno adottato le necessarie misure di coordinamento interno non è di per sé una valida giustificazione per non intraprendere l’azione richiesta”. La ritardata trasmissione delle richieste al ministero della Giustizia e il mancato coordinamento interno tra le autorità competenti “equivale a un fallimento nell’ottemperare alla richiesta di collaborazione ex articolo 87, comma 7”.

Secondo questa Procura, l’inadempienza dell’Italia è stata sufficientemente grave da impedire alla Corte di esercitare le proprie funzioni e i propri poteri. Inoltre, la mancata esecuzione da parte dell’Italia degli ordini di arresto e di sequestro ha compromesso la capacità della Corte di indagare maggiormente sulla situazione in Libia in generale, compresa la rete di potenziali complici e finanziatori di NJEEM/Almasri.

Il mancato rispetto da parte dell’Italia dei suoi doveri di collaborazione con la Corte dell’Aja ha esposto le vittime e i testimoni, nonché le loro famiglie, a un potenziale grave rischio di danni. La Camera preliminare della CPI, il 17 febbraio scorso, ha invitato pertanto l’Italia a presentare entro 30 giorni osservazioni sulla mancata consegna di Almasri alla Corte.

Occorre anche ricordare che presso la Corte Penale internazionale, il 5 febbraio scorso veniva depositata una denuncia per conto di una vittima di Almasri, con richiesta di avvio del procedimento ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma, nei confronti di Giorgia Meloni, di Carlo Nordio e di Matteo Piantedosi. Per gli avvocati di Front-LEX, “il comportamento deliberatamente passivo del Ministero della Giustizia quando il tempo era assolutamente essenziale rivela che, per usare un eufemismo, ottemperare alla richiesta della Corte non rientrava certo tra le priorità del suo ufficio”.

Inoltre, “la decisione del ministro dell’Interno di espellere immediatamente Almasri, impedendo così l’ancora eventuale correzione delle presunte irregolarità procedurali nell’arresto, e il suo trasferimento immediato a Tripoli a bordo di un volo militare la cui partenza non poteva che avvenire su autorizzazione al massimo livello governativo, completano il quadro di quanto sembra equivalere ad una decisione politica deliberata di consentire la fuga del sospettato”.

Meloni, Piantedosi e Nordio avrebbero abusato dei loro poteri esecutivi per sfidare le regole internazionali e gli obblighi nazionali di consegnare Almasri alla Corte penale internazionale, e in questo modo avrebbero ostacolato l’amministrazione della giustizia ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma.
Sul caso Almasri sta indagando anche il Tribunale di ministri che ha richiesto al governo una serie di spiegazioni. Ma l’esito di questa indagine è scontato, a fronte della maggioranza di governo che in ogni caso si pronuncerà contro l’avvio di un processo penale nei confronti della Meloni, di Nordio e di Piantedosi.

In tempi nei quali le sorti del diritto internazionale appaiono sempre più buie e sostanzialmente rimesse al ricatto politico, militare ed economico dei paesi più forti, con un definitivo svilimento del multilateralismo e delle Nazioni Unite, una mancata sanzione del comportamento delle autorità italiane potrebbe legittimare definitivamente una totale impunità per accordi bilaterali e prassi di cooperazione operativa che hanno già prodotto troppe vittime, in territorio libico, e poi nelle acque del Mediterraneo centrale.

Vedremo se, in un momento in cui la giustizia internazionale è sottoposta ad un attacco furibondo da parte delle destre sovraniste e populiste, la Corte Penale Internazionale riuscirà, almeno sul caso Almasri, a portare avanti le sue indagini nei confronti dello Stato italiano, se non a sanzionare singoli componenti del governo.

Anche se oggi sembrano prevalere su scala globale posizioni favorevoli a legittimare la violazione dei trattati internazionali e delle leggi nazionali per difendere i confini o garantire la sicurezza dei cittadini, con gli scarsi risultati che vediamo, presto tutti dovranno rendersi conto sulla propria pelle di quanto il ricorso ad un doppio standard di tutela dei diritti umani possa comportare su scala globale una rottura del principio di uguaglianza e delle regole dello Stato di diritto che non si limita soltanto alle persone migranti. Ma che può accrescere il conflitto sociale, la violenza diffusa e l’espansione di reti criminali, che così ricevono sostegno proprio da quelle forze che a parole dichiarano di volere soltanto la legalità al massimo livello, e nell’intero “globo terracqueo”. Di certo le autorità italiane, dopo anni di collaborazione e di complicità in crimini contro l’umanità, in Libia ed in altri paesi di transito, questa legalità non hanno saputo affermarla neppure a Tripoli, e la vicenda Almasri lo conferma senza possibilità di smentita.

leggi qui il testo integrale:

Atto di accusa della Corte penale internazionale smentisce le menzogne del governo Meloni sul caso Almasri – ADIF

Fulvio Vassallo Paleologo

A Palermo in corteo per il Congo

Sabato 22 febbraio, organizzato, insieme alla comunità congolese, dalla Cgil Palermo, Diaspore per la Pace, Donne di Benin City, Movimento Right to be, Algeria Trinacria per la Cooperazione, Mondo Africa, Africa Solidale, Arci Palermo, è partito nel primo pomeriggio da Piazza Crispi il corteo in solidarietà alla popolazione della Repubblica Democratica del Congo.

Il colore sfila sotto la pioggia. Colorati sono gli ombrelli aperti e poi richiusi ad intermittenza, come la pioggia appunto. E colorati sono gli striscioni e le bandiere. Sul fondo azzurro il giallo di una stella e il rosso di una striscia, diagonale. Colori di un paese lontano che qui, a Palermo, trova casa nei colori mescolati dei volti e delle voci che chiedono pace per tutti i figli e le figlie di questo mondo.

In Ucraina come a Gaza, fin laggiù, nella Repubblica Democratica del Congo, nel cuore di quell’Africa, terra di saccheggio oggi come ieri, dove la guerra fratricida è solo l’ennesima mossa della mano rapace dell’Occidente. Chiedono pace, come in un arcobaleno dopo la pioggia, le mani piccole dei bambini e delle bambine che ne sventolano, piccola, una bandiera tra le bandiere dei grandi.

Maria La Bianca

Una grande e partecipata manifestazione di immigrati e italiani per le strade di Tortona in ricordo di Ange Jordan Tchombiap

Alcuni momenti della manifestazione di ieri 16 febbraio a Tortona, in ricordo di Ange Jordan Tchombiap, organizzata dalla comunita’ camerunense.

Una grande e partecipata manifestazione di immigrati e italiani, come non se ne vedevano da anni, ha attraversato le strade di Tortona con musiche, balli e slogan per chiedere giustizia per Jordan. Non solo, ma anche per affermare i valori della solidarietà, ddll’accoglienza, dell’antirazzismo e dell’antifascismo e per dire che la sicurezza tanto sbandierata dal Sindaco si crea con lavoro sicuro e non precario, sicurezza sulle strade, mobilita’ sostenibile e accoglienza per chi fugge da guerre e miseria. Da questo punto di vista, la scuola avrebbe un ruolo importante da svolgere, se solo lo volesse.

La manifestazione si è conclusa nei giardini del Comune di Tortona. Ci saremmo aspettati che il Sindaco, Federico Chiodi, fosse venuto a salutare i partecipanti presentandosi con la fascia tricolore e dicendo due parole per la tragica fine di questo ragazzo.
Niente di tutto questo è accaduto, solo silenzio, nessuna risposta alla nostra richiesta di proclamare un giorno di lutto cittadino e di transennare l’area dove Jordan è stato ucciso.

È invece accaduto qualcosa di molto grave: con sorpresa, le autorità hanno concesso sabato 15 febbraio lo spazio antistante alla stazione Fs agli eredi di Mussolini ed Hitler per raccogliere le firme per l’espulsione degli immigrati. Un’iniziativa provocatoria e una risposta alle nostre sollecitazioni. Tanto per dire da che parte stanno.
VERGOGNA!

A cura del Presidio Permanente di Castelnuovo Scrivia

Redazione Italia

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

San Cristoforo, un forte patto educativo per guardare al futuro

Coinvolgimento dal basso, e da parte di chi conosce bene il quartiere perché vi opera da più di settanta anni: da questa premessa nasce il documento di proposte per San Cristoforo elaborato da salesiani e laici della Salette.

Un documento che sottolinea, in premessa, la necessità di focalizzare l’attenzione soprattutto attorno al problema educativo, oltre che ad “un efficace inserimento lavorativo che tolga manovalanza alla mafia”.

Solo un patto educativo che metta insieme scuola, famiglie, associazioni, con particolare attenzione alle categorie svantaggiate, può promuovere un vero cambiamento del quartiere. E’ il motivo per cui nel documento si afferma che non basta investire in infrastrutture se non si individuano le figure che devono occuparsene e gestirle. E si sostiene che non si avranno risultati duraturi se non si investono risorse per moltiplicare le figure degli educatori: più insegnanti, più assistenti sociali, più psicologi.

Con un’avvertenza, quella di non utilizzare le risorse disponibili per interventi a pioggia su altre zone, magari contigue ma differenti, della città. E quindi la necessità di definire la zona di intervento e di individuare i cosiddetti ‘sottoquartieri’ che sono le aree a cui – come leggiamo nel documento – “la gente sente di appartenere”: Salette, Angeli Custodi, San Cristoforo, Passereddu, Tondicello, Acquicella, Fortino, Locu, Traforo, Zurria ex macello.

Non a caso, nel formulare le loro proposte, salesiani e laici della Salette ritengono che sia opportuno individuare tre hub dislocati nel quartiere, uno al centro, uno ad est (ex macello) e uno ad ovest (zona Fortino), in modo che tutti i sottoquartieri possano essere coinvolti ed usufruirne.

Il documento si sofferma poi sull’hub che potrebbe essere realizzato nella zona centrale del quartiere, proprio attorno alla Salette, riqualificando anche alcuni locali di proprietà del Comune, attualmente in abbandono.

In modo molto puntuale vengono individuati spazi e strutture da dedicare ad adolescenti e giovani, mentre altri spazi e locali dovrebbero essere predisposti per bambini della fascia 0-6, con aree da destinare anche alle mamme, e infine un polo di orientamento e formazione professionale.

Non mancano indicazioni, di carattere più generale, relative alla necessità di creare, all’interno del quartiere, anche un polo culturale e spazi aggregativi per migranti, anziani, disabili.

Argo, cento occhi su Catania

Leggi e scarica il documento di proposta a questo link

Vedi le altre proposte su San Cristoforo, presentate all’Amministrazione e pubblicate sul nostro sito: dal Comitato per il Parco Monte Po-Acquicella – da CGIL,Sunia,Auser – dal Comitato Cittadino Federico II

Redazione Sicilia