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Centri di accoglienza in Albania, governo Meloni vs magistratura

Continua il braccio di ferro tra il governo Meloni e la magistratura sulle funzioni e l’operatività dei due centri di accoglienza in Albania. Aperti nell’ottobre dello scorso anno, sono rimasti tutt’oggi fermi a causa degli stop arrivati dalle toghe italiane e di Bruxelles. Il governo Meloni sta cercando in tutti i modi alternative per aggirare le restrizioni, anche a rischio di contraddirsi e di incappare in ulteriori forzature.

Le origini dei due centri

Facciamo un passo indietro. Le due strutture per migranti aperte in Albania nell’ottobre del 2024 sono il principale risultato di un protocollo d’intesa firmato tra il governo Meloni e l’Albania del premier Rama nel novembre del 2023. Secondo quanto previsto dal documento, i centri avrebbero dovuto essere già aperti a maggio del 2024, ma una serie di imprevisti ha fatto slittare la loro messa in funzione di ben 5 mesi. Ma al di là di questi contrattempi, che comunque hanno avuto un costo economico, il problema fondamentale sta nel fatto che ad oggi i centri sono ancora vuoti. Infatti, ogni volta che il governo Meloni ha provato a inviare delle persone nelle strutture è arrivato lo stop della magistratura italiana. La base giuridica di questi stop è costituita da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 4 ottobre scorso che ha modificato i parametri che consentono di definire “sicuro” un dato Paese, rendendoli più restrittivi.

Dal momento che lo scopo dei due centri in Albania è proprio quello di accogliere i migranti che, provenendo da un Paese ritenuto sicuro vanno sottoposti a una procedura accelerata di esame della richiesta di asilo, in più di un caso il governo Meloni ha dovuto fare un passo indietro rispetto alla decisione di trattenere dei migranti. Ad esempio, alcuni cittadini provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh soccorsi dalla Marina Militare italiana in acque internazionali non sono stati più mandati in Albania nonostante l’iniziale volontà del governo proprio perché le modifiche di Bruxelles hanno reso questi due Paesi non più classificabili come sicuri.

La contromossa del governo Meloni

Stante la necessità da parte del governo di mettere in funzione i due centri e di dimostrarne la tanto sbandierata efficacia, ecco il primo tentativo di aggirare l’ostacolo legale: spostare con un decreto-legge la competenza sui trattenimenti dalle sezioni immigrate dei tribunali alle Corti d’Appello. Ma il tentativo è subito fallito a causa del fatto che molti dei magistrati che operano nelle sezioni immigrazione dei tribunali ordinari operano anche in Corte d’Appello a causa della carenza di personale di quest’ultima. L’ultima decisione in tal senso da parte della Corte d’Appello è del 31 gennaio: 43 persone che secondo il governo Meloni dovevano essere indirizzate e trattenute nei centri in Albania sono state portate alla fine in Italia.

Secondo tentativo

Nelle ultime settimane un’ipotesi sul tavolo del governo è stata ed è tuttora quella di convertire la funzioni dei due centri di Gjader e Shengjin da centri di prima accoglienza e soccorso a CPR, ovvero Centri per il Rimpatrio. A dire il vero il centro di Shengjin lo è già in parte, dato che su 1.024 posti totali 144 sono proprio destinati a chi è in attesa di rimpatrio. Se dovessero però diventare entrambi dei CPR al 100% vorrebbe dire che ad entrarci sarebbero tutte quelle persone transitate sul territorio italiano a cui è stata negata la richiesta d’asilo e sono dunque sottoposte ad una procedura forzosa di rimpatrio. Una situazione di questo tipo significherebbe di fatto contraddire clamorosamente lo scopo iniziale dei due centri dichiarato proprio dallo stesso governo Meloni: impedire l’accesso al territorio italiano a chi, sempre secondo quanto ritenuto dal governo, non è meritevole di protezione in quanto proveniente da un Paese classificato come “sicuro”.

Peccato che chi finisce in un CPR è necessariamente transitato sul territorio italiano, ecco perché dunque la pista della conversione pare essersi un po’ più raffreddata negli ultimi giorni. Per non tacere poi dell’automatica violazione dell’articolo 2 del protocollo d’intesa con l’Albania, il quale riporta che le persone destinate ai due centri devono essere “esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione Europea», cioè in acque internazionali. Se queste persone venissero trovate dalla Marina Militare italiana in acque italiane dovrebbero essere portate sul territorio italiano perché secondo quanto previsto dal Regolamento di Dublino è il Paese di primo arrivo che deve obbligatoriamente esaminare la richiesta di protezione. Il cosiddetto “effetto positivo deterrente” dei due centri definito dal governo Meloni verrebbe meno: chi finisce in questi centri dovrebbe necessariamente aver prima transitato sul territorio italiano.

Un’altra opzione considerata, infine, ma dismessa quasi subito per la sua evidente inapplicabilità è stata quella di spostare la giurisdizione dei centri da quella italiana a quella albanese. Il ragionamento di fondo è semplice: non facendo parte dell’Unione Europea l’Albania non è tenuta a mantenere gli stessi standard dell’Italia in materia di diritti dei migranti. E sì che la Meloni aveva garantito più volte che non ci sarebbero mai stati problemi da questo punto di vista, dato che i due centri sono proprio sotto la giurisdizione italiana.

Sviluppi futuri

Nonostante le controindicazioni mostrate sopra, il governo Meloni appare ancora saldo nel suo intento di rendere i due centri in Albania dei CPR. Nei suoi incontri con i vertici delle istituzioni europee a Bruxelles, così come nelle dichiarazioni pubbliche, continua a manifestare questa volontà. Fattore importante a questo punto sarà la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea attesa dopo il 25 febbraio. A seguito di maggiori chiarimenti da parte dei tribunali italiani, la Corte Europea infatti fornirà una lista rivisitata dei parametri necessari a considerare come “sicuro” un Paese, valutazioni che forniranno un orientamento decisivo rispetto alle scelte dei tribunali stessi, indipendentemente dalla volontà e dagli espedienti del governo Meloni.

 

Redazione Italia

Meticciare storie e culture diverse

    I sovranisti europei ringalluzziti dalle vicende d’oltre oceano, hanno pensato bene di ribattezzarsi “patrioti”, e con lo slogan scopiazzato di “fare di nuovo grande l’Europa”, si sono incontrati in Spagna. 

      La scelta del luogo dice già tutto rispetto ai loro propositi, volendo rievocare la resistenza europea all’avanzata degli arabi e la loro successiva e definitiva cacciata dal nostro continente. Con un parallelismo che è figlio di una scorretta semplificazione storica, si vorrebbe far credere che il nostro compito di europei è oggi quello di bloccare qualunque tipo di flusso migratorio verso casa nostra blindando i nostri confini.

     Naturalmente si potrebbe ora (come in effetti spesso si fa) controbattere riproponendo lo spessore etico di valori universali come l’accoglienza, il pluralismo o il diritto alla diversità. Ma oltre a questo, resta di fatto, che anche a voler dar credito alla esigenza, in sé giusta, di difendere e voler valorizzare il meglio della nostra identità storica e culturale, le scelte dei presunti patrioti sono, anche solo da un punto di vista puramente fattuale, del tutto fallimentari. Oseremmo dire da cialtroni e perfetti idioti.

      Sulle migrazioni verso il nostro continente e su come sarà configurata l’Europa nel prossimo futuro vi sono previsioni frutto di studi non partigiani, che non possono essere ignorati. Prendendo ad esempio il nostro paese, l’ISTAT ci dice che a prescindere dalle politiche dei futuri governi, l’Italia tra circa mezzo secolo dovrebbe avere 46 milioni di residenti. In pratica 13 milioni meno rispetto al presente. Di questi ben 18 milioni saranno costituiti dai nuovi migranti, che, almeno in parte, ovvieranno agli effetti della denatalità di un paese ormai cronicamente nella condizione di ciò che viene definito “inverno demografico”. Se consideriamo che già ora i migranti residenti sono circa 5 milioni, ne possiamo concludere che nel prossimo futuro il nostro paese sarà diviso, quasi perfettamente in due, tra italiani di antica generazione e “nuovi italiani”, questi ultimi al massimo di terza generazione. (Non ho trovato dati precisi sul colore della pelle dei nuovi arrivati, né sulle loro confessioni religiose, ma credo non ci voglia molto a capire che neri e islamici saranno quanto meno minoranze decisamente molto consistenti).

      A questo punto dovrebbe essere chiaro che l’ipotesi della chiusura e del respingimento fatta propria dai PATRIOTI-IDIOTI, non solo è del tutto irrealizzabile, ma bisogna anche dire che questa è anche una fortuna, perché se mai fosse invece fattibile ci condannerebbe all’estinzione o all’irrilevanza numerica con la conseguenza di cancellare con noi stessi anche il nostro passato, la nostra storia e la nostra cultura. L’esatto contrario della pretesa di “fare di nuovo grande l’Europa”.

      È dunque evidente che accoglienza e dialogo, fino all’ipotesi di fare incontrare e “meticciare” storie e culture diverse, non è soltanto un imperativo etico, ma per noi europei anche una condizione di sopravvivenza. Dobbiamo fare in modo che il migrante, senza imposizioni o forzature di alcun tipo, ma tramite la condivisione partecipata e dialogante divenga il nostro salvatore, acquisendo e trasmettendo alcuni valori come il principio di laicità e i diritti umani, che pur facendo parte della nostra storia, noi per primi in passato abbiamo tradito dentro e (soprattutto) fuori dai nostri confini.

      Quella che qui stiamo ipotizzando non è certo una prospettiva né facile, né semplice. Sicuramente non mancheranno scontri e contraddizioni, e l’esito sul lungo periodo è tutt’altro che scontato. Ma non ci sono alternative. Le farneticazioni di sovranisti e patrioti, al di là dei toni accesi e guerrieri, sono semplice rassegnazione alla morte e alla catastrofe.

      

       

Antonio Minaldi

Trattato di proibizione delle armi nucleari, a New York terzo incontro degli Stati parte

“Mancano 89 secondi alla fine del mondo”. Corrono le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse e non solo: tra pochi giorni gli Stati Uniti ospiteranno il terzo incontro dedicato al TPAN – Trattato di proibizione delle armi nucleari. Il Palazzo di Vetro del Segretariato delle Nazioni Unite a New York è quasi pronto per accogliere ben 167 Paesi ( 94 firmatari e 73 parte), e non solo la loro voce istituzionale, poiché sarà nutrita la presenza di ONG accreditate con ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons, Premio Nobel per la Pace 2017 – proprio in rappresentanza della società civile che aderisce e anela il disarmo a livello mondiale.

Il terzo incontro degli Stati parte si svolgerà dal 3 al 7 marzo 2025 presso la sede ONU a New York, sotto la presidenza del Kazakistan.

Cos’è il TPAN: concetti chiave, tempi e un po’ di storia

Il Trattato di proibizione delle armi nucleari (testo completo in inglese qui) è un documento nato per contrastare non solo la proliferazione delle armi nucleari, ma per condurre le scelte politiche internazionali a un progressivo abbandono dello strumento di deterrenza nucleare, nelle relazioni fra Stati, per la risoluzione dei conflitti e intimare la distruzione dei suddetti ordigni.

Prevede che gli incontri degli Stati parte si svolgano su base biennale e conferenze di revisione a intervalli di sei anni per “considerare e, ove necessario, prendere decisioni in merito a qualsiasi questione riguardante l’applicazione o l’implementazione di questo Trattato”.

Il primo Incontro degli Stati Parte si è tenuto a Vienna dal 21 al 13 giugno 2022 con la partecipazione di 49 Stati Parte, 34 Stati osservatori e rappresentanti delle Nazioni Unite, di organizzazioni internazionali e regionali, del Comitato Internazionale della Croce Rossa e della società civile. L’incontro ha adottato una serie di decisioni ambiziose, tra cui la Dichiarazione di Vienna e il Piano d’azione.

Il secondo incontro degli Stati parti si è svolto dal 27 novembre al 1° dicembre 2023 presso la sede delle Nazioni Unite a New York, con il Messico in qualità di presidente. Hanno partecipato 94 Stati parte, firmatari e altri osservatori, insieme a rappresentanti di agenzie internazionali, tra cui l’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) e la CTBTO (Organizzazione del Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari), il CICR (Il Comitato Internazionale della Croce Rossa), nonché organizzazioni della società civile, comunità colpite, giovani, parlamentari e istituzioni finanziarie. La riunione ha adottato una dichiarazione politica e una serie di decisioni che rafforzano il processo intersessionale.

E’ ora la volta del terzo incontro, ed è proprio direttamente dal territorio americano che riporterò tutti gli aggiornamenti in diretta riguardo a ciò che accadrà alla conferenza generale e nei numerosi side events previsti durante tutta la settimana. In questa edizione sono stati depositati tutti i Working paper delle ONG accreditate; ciò significa che la società civile espone proposte su come integrare il Trattato, dando un contributo fondamentale alla rete internazionale che, vista la situazione geopolitica attuale, va crescendo sempre di più.

Nessuno vuole la guerra, escluso chi la attua. Si tratta di una minoranza ed è questo il momento in cui la società civile internazionale può fare concretamente la differenza.

Segui il “Diario di bordo” :  2# | Italia e 3MSP -TPNW – in uscita il 26 febbraio

Greta Triassi

Gli Stati Uniti abbandonano la globalizzazione tanto promossa

Appena entrato in scena in veste di presidente, Donald Trump si è subito dato da fare per concretizzare la missione che si era autoassegnata, ovvero quella di sovvertire diversi aspetti dello status quo. In un vortice incessante di atti e dichiarazioni, non ha perso tempo a perseguitare ciò che non gli piaceva, andando anche contro corrente rispetto alle opinioni più in voga. Partendo dall’ambito sociale fino ad arrivare a quello “culturale”, la ricerca dell’effetto è il marchio di fabbrica di quest’uomo che, appartenente al mondo dello spettacolo e degli affari, a un certo punto ha deciso di virare verso la politica. Tralasciando il modo di fare del personaggio, c’è da dire che questa marcia indietro solleva importanti questioni rispetto alla congiuntura attuale e agli orientamenti futuri. Di particolare rilevanza appare il dossier economico, nel cuore del quale risiede il problema della globalizzazione.

La globalizzazione in affanno

Oggetto di culto, dogma indiscutibile da quarant’anni, oggi la globalizzazione non gode certo di ottima salute. I suoi difetti sono visibili a occhio nudo. Degli aspetti negativi si dibatte ormai apertamente e nel frattempo si cercano alternative. Una decisione, che solo qualche tempo fa sarebbe stata impensabile, talmente l’influenza dell’ideologia neoliberale era potente, quasi soffocante, mentre oggi l’idea della deglobalizzazione o de-mondializzazione non appare più un’eresia. Ormai, persino i dirigenti politici ed economici occidentali, da sempre paladini del neoliberalismo, la tollerano, pur mantenendola a una certa distanza. Non spargono ancora la voce, ma non la mettono nemmeno all’indice delle idee proibite. Non li abbiamo forse sentiti evocare la re-industrializzazione che va contro la delocalizzazione, la diversificazione, gli accordi regionali e il reshoring o il friendshoring, o un ripiegamento verso blocchi di partner ristretti e compatibili, che sarebbero anche alleati politici? In entrambi i casi, siamo di fronte al contrario della globalizzazione, fino a poco tempo fa tanto sbandierata. Si tratterebbe di un ritorno alla produzione nazionale, alla frammentazione dell’economia mondiale, agli ostacoli che si frappongono ai flussi commerciali internazionali e allo sgretolamento dell’ordine neoliberale che tutta la politica occidentale a partire dal 1945, e poi nuovamente dal 1980, era concepita per far cadere.

La classe dirigente mondiale, le élite internazionali, i partecipanti ai forum di Davos, sono lontani dal rinunciare alla globalizzazione. Continuano ad esserne i cantori e non nascondono la loro disapprovazione nei riguardi di Trump, delle sue buffonate e dei colpi inferti contro la globalizzazione. Ma, al di fuori di questi ambienti, il dubbio serpeggia e la deglobalizzazione non è più un’ipotesi da cancellare con un colpo di spugna.

Le cause della disaffezione

I lavoratori dei Paesi che subivano la deindustrializzazione avevano capito che erano loro a dover pagare il prezzo di questa globalizzazione neoliberale: rafforzamento della divisione internazionale del lavoro, “esternalizzazione” della produzione, abolizione di lavori relativamente stabili, disoccupazione, precarizzazione, minaccia degli stili di vita, abbassamento dei salari, indebitamento per compensare i guadagni persi e provvedere ai bisogni primari. Le aree industriali, polmoni delle economie di tutto il mondo, diventavano aree sinistrate.

L’euforia regnava nei centri d’affari, nei governi e tra i teorici del neoliberalismo. Poi, un fulmine a ciel sereno screditò la globalizzazione e indebolì l’economia mondiale: la crisi dei subprime e il fallimento di Lehman Brothers del 2008. Il mondo era a un soffio da una depressione molto simile per gravità a quella degli anni Trenta. A causa delle interconnessioni tra i vari Paesi, dell’apertura degli istituti finanziari (banche, borse e compagnie assicurative), della deregolamentazione della finanza (che portava a mille e un derivato) e del ritiro degli Stati voluti dalla globalizzazione, la crisi finanziaria, nata negli Stati Uniti, ha avuto in realtà ripercussioni in tutto il mondo.

A quel punto, i danni della globalizzazione e i pericoli che provocava alle economie e alle società apparvero chiari. Le promesse di prosperità divennero imminente rischio di povertà. Se da un lato il peggio è stato scongiurato, e solo per un pelo, dall’altro la globalizzazione neoliberale e l’ideologia alla base della stessa sono andate via via perdendo il proprio lustro. Milioni di famiglie e cittadini delle classi meno abbienti, oltre che tanti piccoli imprenditori, si sono impoveriti o in alcuni casi hanno addirittura perso tutto. La rabbia montò negli Stati Uniti.

È questo il sentimento che Trump ha intercettato e ha cercato di canalizzare durante tutta la campagna elettorale per le presidenziali del 2016. Trump parlava di un rifiuto della globalizzazione, quando ancora nessuno ne aveva fatto cenno negli ambienti ufficiali. Nel 2025, la linea è la stessa: riportare le aziende e i posti di lavoro negli Stati Uniti, proteggere la produzione americana contro la concorrenza straniera, rendere l’economia nazionale meno dipendente dall’estero. In questo non era riuscito durante il mandato 2017-2020 e non sappiamo se ci riuscirà in quello 2025-2028.

Alcuni attribuiscono alla pandemia da COVID-19 la messa in discussione della globalizzazione. L’urgenza di disporre di vaccini e mascherine ha fatto emergere le difficoltà logistiche dell’approvvigionamento (di valore) lontani, da qui il progetto di una sovranità sanitaria. Altri sostengono che il conflitto in Ucraina e più ancora le “sanzioni” contro la Russia abbiano frammentato l’economia mondiale e posto l’accento sui fattori di sicurezza, in particolare l’importanza di non dipendere dalle importazioni per i bisogni energetici primari. Si tratta certamente di ragioni valide, ma bisogna anche considerare le ragioni geoeconomiche e geopolitiche.

Una globalizzazione neoliberale che delude i suoi stessi fondatori

Il modello della globalizzazione neoliberale asimmetrico si sta sgretolando. Questo modello prevedeva una struttura verticale e gerarchica: gli Stati Uniti in cima, alcuni Paesi sviluppati nel mezzo e una maggioranza costituita da Paesi produttori alla base. Con il dollaro americano, che diventa, de facto, valuta di riserva internazionale, gli Stati Uniti potevano dettare legge in tutto il mondo e accrescere la propria ricchezza a costi bassi o vicini allo zero. È il modello dell’imperialismo contemporaneo.

Tale struttura non è stabile, dal momento che è stata rimessa in discussione dallo sviluppo economico mondiale. La prova lampante è l’emergenza folgorante della Cina, che doveva rimanere un subappaltatore delle aziende straniere e che invece è riuscita a conservare la propria indipendenza, a svilupparsi in quanto economia nazionale e a far uscire dalla povertà centinaia di milioni di cinesi. La Cina non solo ha superato il sottosviluppo ereditato nell’epoca coloniale e nel “secolo dell’umiliazione”, ma in tempi record è diventata un Paese sviluppato, all’avanguardia nel settore dell’alta tecnologia. Un risultato che gli Stati Uniti non avevano previsto né auspicato. La Repubblica Popolare Cinese è riuscita a sfuggire al controllo americano e ad approfittare di una globalizzazione, che era nata per favorire gli Stati Uniti e che doveva relegarla a un ruolo subalterno. Il colosso asiatico è attualmente la prima economia mondiale a parità di potere d’acquisto (23.000 miliardi di dollari US), è una concorrente degli Stati Uniti (20.000 miliardi) e un ostacolo al loro dominio mondiale.

I successi cinesi, registrati nell’ambito stesso della globalizzazione neoliberale, inducono gli Stati Uniti a rimettere in discussione la Cina attraverso politiche di deglobalizzazione. Essi tendono, quindi, a sventrare una creazione, di cui hanno goduto, ma che ha portato benefici non solo a loro. Per questo motivo, i discorsi a difesa della globalizzazione e del libero scambio vengono scartati quando non coincidono più con gli interessi dei promotori. È bizzarro sottolineare che ormai è la Cina a incarnare il ruolo di difensore della libertà degli scambi e della globalizzazione, sostegni essenziali di questo Paese esportatore.

Deglobalizzazione o riglobalizzazione?

Se gli Stati Uniti, dal canto loro, mettono a repentaglio la globalizzazione per ritrovare il proprio potere, è lecito chiedersi da cosa questa verrà sostituita. I blocchi economici sono una formula evidente, ma transitoria. La produzione è oggi di livello mondiale (giacimenti di materie prime, portata dei mercati, dimensione delle aziende, economia di scala); i blocchi sono troppo piccoli. Attraverseremo una fase di destrutturazione dell’economia mondiale, durante la quale gli attori ridefiniranno il proprio ruolo e i propri rapporti, prima che una nuova globalizzazione prenda forma. Per trovare un precedente, bisogna tornare al periodo tra le due guerre, tra la globalizzazione prima del 1914 e quella dopo il 1945. Questo periodo di rimaneggiamento e di riorganizzazione corrisponde anche alla riconfigurazione geopolitica del mondo e il suo passaggio dall’unipolarità alla multipolarità. Questi processi sono paralleli e conflittuali.

La globalizzazione liberale è sempre stata gerarchica. La Gran Bretagna era considerata l’«atelier del mondo» nel XIX secolo. Gli Stati Uniti hanno dominato l’economia mondiale a partire dal 1945, e ancora di più con la globalizzazione neoliberale nata nel 1980. La globalizzazione neoliberale americanocentrica, ovvero la forma attuale dell’imperialismo, non si è ancora estinta e gli Stati Uniti hanno ingaggiato un conflitto mondiale contro la Cina e la Russia per poter continuare con essa. Ma abbiamo ragione di credere che questo tentativo risulterà vano e che l’egemonia statunitense volge al termine. La de-dollarizzazione è un fatto ineluttabile e il dollaro potrà essere rimpiazzato da un’unità di valore basata sulle divise nazionali, come quella prevista in seno al BRICS. La globalizzazione del futuro sarà dunque orizzontale, multilaterale e, eventualmente, non fondata sul liberalismo economico in un ordine mondiale multipolare? Solo il tempo ce lo dirà.

Traduzione dal francese di Ada De Micheli. Revisione di Maria Sartori.

Samir Saul - Michel Seymour

La volpe, l’uva e il debito pubblico

Ogni mese la Banca d’Italia pubblica un report statistico intitolato “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”. Nel numero di febbraio 2025 si possono leggere i dati del 2024 e si possono confrontare con gli anni precedenti. Il risultato è allarmante, perché il debito netto delle pubbliche amministrazioni negli ultimi tre anni è aumentato di 83 miliardi di euro nel 2022, 104 miliardi di euro nel 2023 e 110 miliardi di euro nel 2024.

È interessante notare come il debito pubblico sia quasi totalmente relativo alle amministrazioni centrali (per oltre il 97% del totale), mentre le amministrazioni locali (regioni, province, città metropolitane, comuni) abbiano un debito ridotto (meno del 3% del totale). Inoltre, mentre il debito dello Stato aumenta, quello degli enti locali diminuisce: nel 2022 era di 88 miliardi di euro, nel 2023 era sceso a 85 miliardi e nel 2024 è calato a 82 miliardi di euro.

I rappresentanti dell’attuale governo di solito cercano di evitare di confrontarsi con i dati reali del debito pubblico, poiché sono visti come un intralcio alla narrazione sulle magnifiche sorti dello “stivale”, che camminerebbe spedito verso la crescita. Quando sono costretti a non ignorare il problema, le risposte dei principali leader politici prendono due strade divergenti. Alcuni cercano di rassicurare, sostenendo che comunque il debito è sotto controllo e in realtà non costituisce un vero problema per i cittadini. Altri danno la colpa dell’aumento del debito ai governi precedenti, che avrebbero lasciato dei buchi nel bilancio pubblico.

Viene alla mente una famosa favola di Esopo: «Una volpe affamata, come vide dei grappoli d’uva che pendevano da una vite, desiderò afferrarli ma non ne fu in grado. Allontanandosi però disse fra sé: “Sono acerbi”. Così anche alcuni tra gli uomini, che per incapacità non riescono a superare le difficoltà, accusano le circostanze».

Resta il fatto che dopo due anni e mezzo di politiche economiche e fiscali del governo attuale, il debito pubblico continua inesorabilmente ad aumentare sia in valore assoluto sia in relazione al Prodotto Interno Lordo. L’Osservatorio Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica ha calcolato che «il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (PIL) è a fine 2024 del 136,3% (contro il previsto 135,8%) e, a fine 2025, del 138,4% (contro il previsto 136,9%), 34 miliardi e 1,5 punti percentuali in più del previsto. Queste variazioni non sono irrilevanti rispetto agli obiettivi di finanza pubblica».

Se alziamo lo sguardo oltre i confini del Paese, la visione non migliora. Infatti, tra i Paesi europei soltanto la Grecia ha un rapporto più elevato tra debito/PIL ed è comunque considerata una nazione più affidabile per la restituzione del debito, dato che ha tassi di interesse inferiori a quelli applicati al debito italiano.

Un governo responsabile di fronte a questi dati dovrebbe essere molto preoccupato per le sorti del Paese e dovrebbe indicare una strategia concreta per invertire la tendenza. Chi l’ha vista?

Rocco Artifoni

Verso la Giornata Nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta

Dal 1986 il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani promuove l’impegno dei Comuni, delle Province e delle Regioni italiane per la pace, i diritti umani, la solidarietà e la cooperazione internazionale, attraverso: la promozione dell’educazione permanente alla pace e ai diritti umani nella scuola, l’organizzazione della Marcia per la pace Perugia-Assisi e delle Assemblee dell’Onu dei Popoli, la promozione della diplomazia delle città per la pace, il dialogo e la fratellanza tra i popoli, lo sviluppo della solidarietà internazionale e della cooperazione decentrata contro la miseria e la guerra, la promozione di un’informazione e comunicazione di pace, la campagna per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, l’impegno per la pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo, la costruzione di un’Europa delle città e dei cittadini, strumento di pace e di giustizia nel mondo.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani anche quest’anno promuove la Giornata nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta, che è arrivata alla sua quarta edizione. Sabato 1° marzo sarà dedicato alla riscoperta e alla promozione del valore alla cura di noi e degli altri, della città e del pianeta in cui viviamo. “In un mondo in guerra, si legge nell’appello del Coordinamento, mentre siamo costretti a soffrire le conseguenze di decenni di  individualismo e incuria, come dice Papa Francesco, dobbiamo sviluppare una mentalità e una cultura del prendersi cura capace di sconfiggere l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono.  Nell’ora della crisi più grande, la cura è la risposta più efficace. La cura reciproca è il modo più concreto che abbiamo per fronteggiare i problemi, ridurre le violenze e le sofferenze e cambiare le cose, qui e ora, senza aspettare che lo facciano altri, senza aspettare domani. Per questo la dobbiamo riscoprire, studiare e imparare, organizzare e promuovere.” Pensiamo alla cura degli ammalati e della salute di tutte e di tutti, alla cura dei più piccoli e delle giovani generazioni, alla cura dei più fragili e vulnerabili, degli anziani e delle persone e famiglie in difficoltà economiche, alla cura delle donne vittime di tante violenze e discriminazioni, alla cura del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici,   alla cura della nostra economia, delle nostre città e quartieri, dell’ambiente e dei beni comuni che non sono solo nostri. Pensiamo ai popoli in guerra, a Gaza e nel resto della Palestina e del Medio Oriente, in Ucraina e nel resto del mondo, ai migranti, alle persone perseguitate dalle guerre, dall’oppressione, dalla miseria e dalle catastrofi ambientali.

Il 1 marzo, migliaia di studenti e insegnanti, di ogni parte d’Italia, usciranno dalle loro scuole per andare a conoscere e ringraziare le persone che si prendono cura di noi e degli altri nei loro luoghi di lavoro e volontariato: pronto soccorso, ospedali, case per anziani, centri specializzati di cura, mense, empori Caritas, centri di accoglienza dei migranti, centri antiviolenza e case delle donne ma anche sedi della rai, comuni, province, tribunali, librerie, canili. Alcuni studenti e insegnanti faranno esperienza diretta di cura degli altri o dell’ambiente (ad esempio: servire ad una mensa per i poveri e senzatetto, ripulire, riordinare e abbellire uno spazio pubblico segnato dall’incuria, dall’abbandono o dall’inverno). Altri ancora costruiranno la mappa della città della cura andando a scoprire e “illuminare” le persone, le pratiche e i luoghi di cura del territorio che contribuiscono al nostro ben-essere personale e collettivo. I partecipanti alla Giornata promuoveranno la cultura della cura raccontando in tempo reale, sui social network, gli incontri e le cose viste e sentite, amplificando così le voci e le storie delle persone incontrate, le loro attività e le loro idee sulla cura #iohocura.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani invita tutti i Sindaci e i Presidenti degli Enti Locali e delle Regioni ad aderire formalmente alla Giornata Nazionale della Cura delle persone e del pianeta, a registrare e diffondere  video-messaggi per dare valore alla cura e promuovere la cura della comunità e del territorio; a consegnare agli alunni/studenti della propria città il “Quaderno degli esercizi di cura”: un originale strumento di educazione civica per sviluppare l’attenzione, il rispetto, la responsabilità, la presenza, l’ascolto, la comprensione, l’empatia, l’uso delle parole, il dono, la generosità e il coraggio (https://www.cittaperlapace.it/doc.php?tipo=percorsi&id=47). 

Qui per approfondire: https://www.cittaperlapace.it/index.php#

Giovanni Caprio

Contro il rullo del tamburo (noi e Putin)

Il rullare dei tamburi di guerra è inquietante e va considerato: quando le spese militari crescono e si riempiono gli arsenali, si avvicina la guerra. Si sta preparando l’opinione pubblica a ciò che pare inevitabile: sacrificare al riarmo lo stato sociale. In un paese smemorato, dove molto spesso le decisioni non sono prese in base a dati e numeri, è bene riflettere, alla luce dei fatti.

Il nemico è Putin, feroce dittatore; lo era però anche quando Berlusconi, Salvini e la Meloni lo incensavano. Ricordiamo quanti soldi, credibilità politica ed economica l’Italia, con altri, gli ha dato. Nel 2000, all’alba dell’era Putin, il gas russo copriva circa il 20% del nostro fabbisogno, quota salita poi fino al 43%. Ricordiamo le forti collaborazioni tra Eni e gruppi russi degli idrocarburi, per ricerca e sfruttamento di giacimenti e per la costruzione di gasdotti per molti miliardi di euro1. Per favorire affari tra zone dell’Italia e Russia sono sorte associazioni come “Lombardia Russia” o “Veneto Russia” o “Conoscere Eurasia”2; quest’ultima si propone di rafforzare le relazioni con Russia e altri paesi dell’area e dal 2007 raduna a Verona ministri italiani e stranieri, dirigenti statali e privati, coinvolgendo le più ricche aziende di Mosca.

All’edizione di ottobre 2021, a pochi mesi dalla guerra, hanno partecipato, tra gli altri, Prodi, Scaroni, Tronchetti Provera, Marcegaglia, Bonomi, Profumo e tanta nomenclatura russa; iniziativa importante, con i contributi di Intesa, Generali, Gazprom, Rofneft e importanti banche russe3. L’associazione ha organizzato anche frequenti seminari, che si sono svolti fino a una settimana prima dell’invasione, con la partecipazione dei dirigenti di Intesa, dell’ambasciatore a Mosca Storace, fratello dell’AD di Enel, di Fontana e Toti. Va poi ricordata l’intensa amicizia tra Putin e Berlusconi. Memorabile il gesto del mitra che Silvio fece a una giornalista rea di una domanda di gossip che imbarazzava l’amico.4 C’è poi Salvini, che indossava magliette con l’effige del dittatore e ha siglato un patto di gemellaggio tra la Lega e il suo partito personale5. Sono noti i presunti finanziamenti che la Lega avrebbe richiesto a Mosca, denunciati da vari organi di stampa6.

Pure Meloni ha avuto grande stima del satrapo, congratulandosi per la quarta rielezione, nelle lezioni farsa del 2018.7 Simile accondiscendenza si è avuta anche in altri paesi europei e negli USA. Nel suo libro del 2004 intitolato “La Russia di Putin” la Politkovskaja testualmente scriveva: “Del resto il revanscismo sovietico seguito all’ascesa e al consolidamento del potere di Putin è lampante. A renderlo possibile, però – va detto – non sono state solo la nostra negligenza (ovviamente dei russi), l’apatia e la stanchezza seguite a tante – troppe – rivoluzioni. Il processo è stato accompagnato da un coro di osanna in Occidente. In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schroeder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano”8 Solo tra il 1998 e il 2020 gli europei hanno venduto armi alla Russia per circa 1,9 miliardi di euro e a Kiev si sono visti i militari russi sui blindati italiani Lince9. Nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, Putin è stato estromesso dal G8 ed è stato decretato l’embargo per le forniture di armi. La UE però non ha stabilito sanzioni per chi violava tale disposizione; così diversi paesi, tra cui Italia e Germania, hanno continuato a vendere armi a Mosca per un valore di circa 346 milioni di euro10. Fino al 31/12/24 numerosi paesi UE, tra cui noi, hanno continuano, sia pur in modo decrescente nel tempo, ad acquistare idrocarburi russi, direttamente, tramite gasdotti11, o indirettamente, tramite paesi terzi, come l’Azerbaigian, che non avrebbe tutto il gas che ci vende, importandone parte dalla Russia12.

Chi fosse Putin è sempre stato ben chiaro. Egli è diventato Presidente il 31/12/99 ereditando un paese in ginocchio, che pensava perfino di entrare nella Nato; ha subito piegato le istituzioni di uno Stato a pezzi e ha rimesso sotto il controllo statale le immerse riserve di idrocarburi, recuperando l’arma energetica, che da sempre riteneva cruciale per rilanciare la potenza russa. Dalla sua ascesa ci sono stati innumerevoli omicidi di giornalisti13, la Politkovskaja, uccisa nel 2006, è solo l’esempio più noto14.

Altrettanto ha fatto con numerosi oppositori, Navalny è solo il più famoso15. Agli oligarchi, arricchitisi già dai tempi di Eltsin, acquistando a prezzi stracciati proprietà e aziende pubbliche privatizzate dopo il crollo dell’URSS, ha aggiunto un cerchio ristretto di sodali e prestanome, che costudiscono un suo tesoro personale, pare di 200 miliardi di dollari16. Secondo Freedom House il sistema politico autoritario russo, sottomette la magistratura, controlla i media, manipola le elezioni, sopprime il dissenso; la corruzione dilagante favorisce legami tra funzionari statali e criminalità organizzata17. Anche Amnesty International da tempo denuncia arresti e persecuzioni di pacifici manifestanti, difensori dei diritti umani e attivisti civili e politici; la tortura è endemica in Russia, come la quasi totale impunità dei responsabili. Il diritto a un processo equo viene regolarmente violato18. Questi fatti erano già stati tutti documentati dalla stessa Politkovskaja nel citato libro. Putin ha iniziato la sua Presidenza attaccando brutalmente la Cecenia, con massacri di civili ed altri numerosi e gravi crimini19. Nel 2008 ha invaso la Georgia20, con modalità ripetute in grande in Ucraina. E’ intervenuto massicciamente a sostegno di Assad, contribuendo al mantenimento del suo potere e partecipando sostanziosamente alla distruzione di Aleppo21. Alla luce di quanto sopra, dobbiamo sbugiardare i troppi politici del centro destra, che per oltre vent’anni hanno intrallazzato con colui che oggi designano come il nostro peggior nemico, la cui forza però è dipesa in larga misura dagli aiuti che ha ricevuto da coloro che oggi vogliono tagliare lo stato sociale per difenderci dal loro ex amico.

3 Gli sputinati in L’Espresso n°10 del 06/03/22 pag. 14 e seguenti

8 Anna Politkovskaja La Russia di Putin ed. Apelphi pag. 342

16 I tesori segreti del clan di Putin in L’Espresso n°11 del 20/03/22 pagina 48 e seguenti

Enrico Campolmi

Turchia: finalmente assolta l’esperta di medicina legale Şebnem Korur Fincancı

Il 20 febbraio Şebnem Korur Fincancı, una delle massime autorità turche in materia di medicina legale e assai nota nella comunità scientifica internazionale, è stata finalmente assolta dall’accusa di aver “denigrato lo stato turco”, reato punito dall’articolo 301 del codice penale.

Dopo un primo periodo di carcere trascorso durante lo scorso decennio per “propaganda terrorista” solo per aver espresso solidarietà nei confronti di un organo di stampa che aveva una linea editoriale critica nei confronti del governo, era stata arrestata il 26 ottobre 2022 dopo che in un’intervista all’estero aveva sollecitato un’indagine indipendente sul possibile uso, da parte dell’esercito turco, di armi chimiche durante un’offensiva in Iraq contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan, noto con l’acronimo Pkk.

Sebnem Korur Fincancı, presidente fino al giugno 2024 dell’Associazione dei medici della Turchia, è nel Comitato esecutivo della Fondazione per i diritti umani della Turchia, fa parte del Gruppo di esperti in medicina legale dell’International Rehabilitation Council for Victims of Torture ed è consulente di Physicians for Human Rights.

Nel corso della sua esperienza, ha esumato fosse comuni in Bosnia per conto delle Nazioni Unite e ha condotto indagini di medicina legale in Turchia e all’estero. Ha inoltre contribuito al Protocollo di Istanbul, lo standard internazionale di riferimento per le indagini di medicina legale sulla tortura.

Per il suo impegno ha ricevuto il premio Hrant Dink nel 2014, il premio di Physicians for Human Rights nel 2017 e il premio Hessian per la pace nel 2018.

Riccardo Noury

Motori spaziali tra scienza e fantascienza?

Da quando l’Essere Umano ha sviluppato la tecnologia della movimentazione assistita, trasferendo la potenza del cavallo a sistemi meccanici indipendenti, la vita ha preso a scorrere più velocemente e la tecnologia ha fatto passi da gigante in maniera esponenziale.

Era “solo” il 1769 quando, grazie all’applicazione della macchina a vapore alla mobilità, il carro di Cugnot percorreva i primi metri.

In poco più di 200 anni stiamo ora percorrendo Unità Astronomiche (1.0 ua = 149.597.870.707 m) grazie a sistemi mobili impensabili all’epoca.

Mentre la mobilità terrestre di superficie sembra essere arrivata ormai al suo limite, ciò che accade sia in bassa atmosfera che, soprattutto, nello Spazio sta iniziando viceversa a cambiare nuovamente le prospettive espansionistiche del Genere Umano.

Ho già parlato, in un precedente articolo, delle nuove capacità esplorative ad appannaggio delle “Vele Solari”, ma anche altri sistemi di trasporto, equipaggiati da particolari ed innovativi sistemi propulsivi, spesso preannunciati dalla Fantascienza, si stanno concretizzando.

Motori a propulsione nucleare, al Plasma, agli ioni, elettrostatici sono all’orizzonte, sistemi che possono arrivare a “muovere” vere e proprie astronavi con una discreta efficienza una volta a regime.

Certo al momento non come quelle di Star Trek, ma potranno comunque garantire il trasporto di piccoli team di Astronauti per medie distanze.

Tra i vari lati positivi, vi sono tempistiche di percorrenza molto basse, per esempio si stima che con un motore al plasma si potrebbe arrivare a raggiungere Marte in circa 30 giorni di viaggio.
Siamo consapevoli che questo ridurrebbe le tempistiche, ma anche, cosa più importante, ridurrebbe ovviamente l’esposizione degli astronauti all’ambiente Cosmico molto dannoso alla salute Umana. 

Quindi solo vantaggi?

Assolutamente no… il lancio iniziale in orbita avverrà con razzi che possiedono motori tradizionali a propellente solido, liquido o a gas metano (questi ultimi come i Raptor di che equipaggiano Starship di SpaceX), che possono sprigionare la potenza necessaria alla messa in orbita dei sistemi finali o di parti di essi.

Successivamente, dopo il necessario assemblaggio, dispiegamento (in caso di Vele Spaziali) o messa in orbita iniziale, il o i propulsori, di nuova generazione, verranno attivati.

Le motivazioni di questa scelta sono diverse:

  • i nuovi motori al momento non sono così efficienti, da fornire la spinta necessaria a vincere la forza di Gravità ed a permettere la messa in orbita diretta, del Sistema Spaziale o di parti di esso, dalla base di lancio;
  • a causa del precedente punto, i motori di nuova generazione, in base al tipo di veicolo da muovere, potrebbero richiedere “array” (serie) composte di diverse unità propulsive per raggiungere la necessaria efficienza propulsiva. Questo si tradurrebbe in dimensioni e massa, del mezzo, rilevanti risultando troppo pesanti per essere lanciati dalla superficie terrestre direttamente venendo per esempio assemblati un orbita;
  • alcuni motori, quali quelli ad energia Nucleare ad esempio, potrebbero essere dannosi per gli esseri umani se utilizzati in atmosfera.

 

Questi sono solo alcuni degli esempi in attesa che il Motore a Curvatura, vagheggiato nella già menzionata saga Star Trek, possa in qualche modo vedere la luce.

Per quanto riguarda quest’ultimo, la sua caratteristica fantascientifica è quella di consentire, al possibile sistema spaziale, di viaggiare alla velocità della luce comprimendo lo spazio-tempo davanti alla nave e espandendolo sul retro della stessa (creando la cosiddetta “bolla di curvatura”).

Da una approfondita analisi eseguita da alcuni ricercatori in questi ultimi anni, non sembrerebbe essere comunque relegato alle pubblicazioni del genere letterario chiamato Sci-Fi (Fantascienza).

Un team, infatti, ha recentemente avanzato l’ipotesi che il salto alla velocità di curvatura possa essere effettuabile e senza dover violare le attuali leggi della fisica utilizzando, oltretutto, fonti energetiche conosciute e non “esoteriche”.  

Questo rappresenterebbe una svolta significativa rispetto a qualsiasi degli attuali motori tradizionali o di nuova generazione visti in precedenza.

E quindi non resta che dire:

“All right Scotty! Get our warp power up to full capacity!” 

(cit. capt. James T. Kirk – ‘Star Trek, The Original Series’).

    

Paolo Navone

La guerra dei bambini, disagi e traumi che aumentano la conflittualità

Si è svolto il 19 febbraio presso la Sala Capitale di Palazzo Vecchio, l’interessante incontro La guerra dei bambini, disagi e traumi che aumentano la conflittualità” organizzato in collaborazione fra il Comune di Firenze (Commissioni Consiliari 7 e 9), il Laboratorio Permanente per la Pace del Quartiere 5 e Auser.

Dopo l’introduzione della Presidente Commissione 7 Stefania Collesei, sono seguiti gli interventi del Prof. Mario Matteini, professore di didattica della storia, curatore del video “Testimonianze di vita attraverso sogni e disegni di bambini israeliani e palestinesi“, della  Presidente Commissione 9 Beatrice Barbieri,  dell’Insegnante Elisabetta Cavalero con i suoi alunni della Scuola Montagnola, della Dott.ssa Eleonora Boscolo e la  Dott.ssa Sandra Caciagli del Laboratorio Permanente per la Pace e della Dott.ssa Elisabetta Innocenti, neuropsichiatra infantile Ospedale Meyer. Presente l’Assessora alla Educazione, Formazione professionale, Cultura della memoria e della legalità, Pari opportunità Benedetta Albanese che ha portato il suo saluto istituzionale.

Stefania Collesei ha rimarcato che lavorare con i bambini è importante, è la strada per dimostrare che un’altra strada è possibile, a partire proprio dai bambini. E’ per questo che il consiglio comunale ha preso diverse iniziative per incontrare realtà di gruppi e associazioni che insieme vogliono lavorare per abbattere il muro della guerra. Mentre in Italia da 80 anni abbiamo avuto la fortuna di non vivere direttamente l’esperienza della guerra, un periodo in cui i bambini sono nati e potuti crescere in tempo di pace, nel video sono stati presentati i momenti dei conflitti vissuti dai bambini palestinesi e israeliani, bambini che non hanno mai conosciuto la pace nella loro vita. Per questo sono importanti le iniziative di associazioni e gruppi informali che a Firenze hanno sviluppato in modo costante iniziative, anche in collaborazione con la commissione, per difendere il valore della pace e la difesa della vita a partire dai bambini, gridando l’orrore dei 17.000 bambini morti solo in Palestina a partire dal 7 ottobre dove sono morti bambini israeliani.

Beatrice Barbieri ha ricordato la sua presenza e rapporto con i ragazzi della scuola e la loro importanza in questo percorso in un momento in cui si è sempre di più sentito parlare della guerra, fino, alla paura di essere coinvolti anche da noi dalla guerra e, in certi momenti, ad assuefarsi a questa stessa parola. In un colloquio un alunno ha fatto la constatazione che “se non ci fosse la guerra non si parlerebbe nemmeno della pace”! Concludendo lui stesso che “una volta assaporata la bellezza della pace non ha senso andare a ricercare la guerra”! Per questo è necessario arricchirsi di cose belle! 

L’assessora Albanese ha ringraziato per l’organizzazione di questa iniziativa con i bambini, dei piccoli cittadini, ma i più importanti che possano abitare queste stanza, perché loro saranno gli adulti di domani, parte integrante di questo percorso di “costruttori di pace”, per il quale non esiste una ricetta, se non l’impegno attraverso le azioni, il pensiero, le parole.  Albanese ha sottolineato che In questo sogno, in questo percorso da fare assieme, il punto di vista e il contributo dei bambini è importante! 

Il Prof. Matteini ha presentato il video che fa parte del progetto “La vita e la storia” con l’obiettivo di favorire la conoscenza della storia a partire da testimonianze di vita. Il video rappresenta i sogni ed i disegni dei bambini israeliani e palestinesi, bambini che non hanno mai conosciuto la pace nella loro vita e ci aiuta a comprendere i conflitti vissuti da loro, ma anche da tutti quelli che vivono in situazioni di conflitto e di guerra. La prospettiva cerca di andare al di là delle ragioni e dei torti, non perché non ci siano responsabilità e si debba rinunciare ai propri giudizi e le proprie valutazioni, ma significa cercare quel terreno comune che eviti di cadere nelle tifoserie contrapposte che impediscono la conoscenza e la capacità di ascolto dell’altro.

Il focus del video è l’infanzia traumatizzata dalla guerra, un aspetto che è vissuta su tutti i fronti, ma che in certi casi non è tenuta nella giusta considerazione e viene quasi considerata un effetto collaterale al servizio di scopi politici. Così in questa disumanizzazione le prime vittime sono proprio i bambini. Per questo vanno considerati tutti i bambini, non solo per il numero dei morti, ma anche per l’impatto psicologico, la paura degli attentati e degli attacchi, le ferite e amputazioni subite, la perdita dei genitori o dei propri cari, la percezione della insicurezza degli adulti e della impossibilità di offrire loro protezione: tutti aspetti e traumi diretti e indiretti che incidono pesantemente sulla loro formazione e crescita. Questo non riguarda solo i bambini Palestinesi, Israeliani, ucraini: secondo un rapporto dell’Unicef i bambini che si trovano in aree di conflitto sono 473 milioni, quasi uno su cinque! Una percentuale quasi raddoppiata rispetto al 1990. I bambini siriani vissuti sotto i bombardamenti sono circa 6 milioni e per molti di loro il sogno era morire per poter andare in paradiso, per poter vivere una vita in pace e ritrovare i propri amici morti prima. Nel video è stato possibile vedere e ascoltare altri fattori che incidono pesante mente sulla vita e la crescita dei bambini, fattori che fanno parte della loro quotidianità. Uno di questi è il richiamo costante alla guerra che si presenta nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, questi richiami li vediamo nelle immagini dei bambini palestinesi dei campi profughi che per andare a scuola camminano attraverso i muri tappezzati con disegni dei martiri e dei morti, in altre foto bambini israeliani che si esercitano con le armi, a difendersi dall’arrivo dei missili, anche con l’utilizzo dei rifugi all’interno degli stessi campi giochi, oppure accompagnati da maestri e genitori armati.

Un ultimo fattore che incide pesantemente sulla crescita e formazione dei bambini è ovviamente l’istruzione su cui sia israeliani che palestinesi dedicano una grande attenzione e fanno scelte simili, a partire dai testi scolastici, negando l’esistenza dell’altro, attraverso meccanismi di distorsione della verità storica, con la sua cancellazione dalle mappe e dalle cartine aumentando ancora l’alimentazione dell’odio e della violenza. Così ai danni individuali causati dall’esperienza della guerra, si sommano questi effetti a lungo termine sulla coscienza e il modo di pensare dei bambini. Questa esperienza del passato e del presente influirà per decenni su intere generazioni che verranno spinti a immaginare così’ un futuro con la guerra al centro, facendo sì che sia più facile pensare alla guerra come soluzione che non la pace. Il radicamento di questo pensiero tenderà a entrare nella mentalità collettiva tanto da farci diventare incapaci di pensare e attivare la soluzione della pace. David Grossman già nel 2021 diceva “Un’intera generazione di bambini, a Gaza e a Ashkelon, presumibilmente crescerà e vivrà con il trauma dei missili, dei bombardamenti e delle sirene. A voi bambini, sulle cui coscienze questo conflitto ha inciso davvero, io sento il bisogno di chiedere scusa, perché non siamo stati capaci di creare per voi la realtà migliore e più sana a cui ogni bambino di questo mondo ha diritto.

Dopo gli interventi delle rappresentanti del Laboratorio permanente per la pace del Q5, Sandra Caciagli e Eleonora Boscolo e gli interessanti spunti e informazioni della Dott.ssa Elisabetta Innocenti, neuropsichiatra infantile dell’Ospedale Meyer, l’incontro si è poi concluso con il laboratorio dei bambini della Scuola primaria Montagnola che hanno disegnato le emozioni, le riflessioni e le proposte su quanto è loro arrivato dalle immagini e dalle parole del video ed alcuni di questi sono stati presentati da loro stessi alla fine.

Video che è stato proiettato all’incontro

Paolo Mazzinghi