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Manifestazione a Cagliari: siamo tutti antifascisti

Promosso dal coordinamento antifascista cagliaritano ATZIONI ANTIFASCISTA DE CASTEDDU un corteo di alcune centinaia di persone ha percorso le vie del capoluogo sardo, ritmando lo slogan: SIAMO TUTTI ANTIFASCISTI!

L’iniziativa è nata fra gli studenti, nelle università, ma anche nelle scuole superiori e ne è la riprova la nutrita partecipazione di giovani. Perché, raccontano in prima persona, sono soprattutto i giovani ad essere più esposti alle intimidazioni fasciste nelle scuole, quelle stesse scuole pubbliche che vorrebbero instradarli verso il militarismo grazie ai progetti delle Forze Armate, nelle aule e poi nelle caserme. Tra l’altro in città si sono recentemente registrati alcuni episodi di aggressione a studenti ed attivisti, da parte di gruppi di estrema destra.

Uno studente al microfono ha voluto ricordare i motivi della manifestazione e ha voluto ricordare l’anarchico sardo Franco Serantini, ucciso dalla polizia durante una manifestazione a Pisa nel 1972, di cui scrisse Corrado Stajano nel libro “Il sovversivo”. Passato e presente, uniti dal filo dell’antifascismo. Erano presenti anche i sindacati di base, i nonviolenti, gli anarchici, le associazioni palestinesi, che hanno ricordato che Gaza e tutta la Palestina sono tutt’ora sotto minaccia di genocidio.

La presenza della sede di Casa Pound, formazione che si richiama al fascismo, in una strada adiacente al percorso, ha portato le forze dell’ordine a schierarsi in tenuta antisommossa e a blindare letteralmente le strade, impedendo l’afflusso anche ai passanti. Uno spiegamento di forze plateale, che è eufemistico definire eccessivo, che ha condizionato il clima interno al corteo, nonché gli spostamenti dei semplici pedoni. Ci domandiamo se una simile solerzia da parte degli apparati dello Stato potremo riscontrarla anche davanti alle aggressioni neofasciste. Ma gli antifascisti cagliaritani hanno dimostrato grande maturità, non accettando provocazioni e marciando uniti fino a piazza Costituzione. Già, quella costituzione nata dall’antifascismo e dalla resistenza, mai davvero realizzata e sempre meno applicata.

Il corteo di sabato 22 febbraio a Cagliari, è servito anche a ricordare che l’antifascismo ci deve accomunare, in un momento storico in cui c’è un triste e drammatico ritorno ad ideologie suprematiste.

Carlo Bellisai

I rischi del web per le nostre ragazze e i nostri ragazzi

Il 58% dei giovani sotto i 26 anni individua nel revenge porn il rischio maggiore che si corre sul web.

Seguono l’alienazione dalla vita reale (49%), le molestie (47%) e il cyberbullismo (46%).

Con l’abbassarsi dell’età è però proprio il cyberbullismo che diventa il rischio più temuto: indicato dal 52% degli under 20.

Sono alcuni dei dati dell’indagine dell’Osservatorio indifesa realizzato da Terre des Hommes, insieme a Scomodo, che ha coinvolto oltre 2.700 ragazzi e ragazze sotto i 26 anni.

I ragazzi chiedono una maggior regolamentazione del web: il 70% ritiene, infatti, che regole più severe potrebbero essere utili nel limitare la violenza online.

Il 13% rimane comunque scettico, sostenendo che una regolamentazione non servirebbe a niente; solo il 6% ritiene che ciò potrebbe limitare la libertà.

Se il revenge porn è il fenomeno più temuto, è perché i ragazzi si rendono conto dei rischi di condividere materiale intimo, come foto e video, con altri, con il partner o con gli amici: l’86% riconosce questa pratica come pericolosa.

Percentuale che si alza tra le donne e si abbassa leggermente col crescere dell’età.

I ragazzi sono inoltre consapevoli di poter denunciare la condivisione di materiali a contenuto intimo e chiederne la rimozione, anche se il 12,5% non sa cosa fare o pensa di non poter fare niente.

Nonostante la consapevolezza dei rischi per la privacy oltre la metà degli intervistati dichiara di aver condiviso la password del proprio telefono o dei propri social media.

A proposito di condivisione, il 75,6% considera una forma di controllo inaccettabile che il/la proprio/a partner acceda al cellulare per controllare quello che fa, solo il 2,5% al contrario pensa che sia una forma di rispetto, ma a più di 1 persona su 5 (22%) questo gesto non crea problemi.

E il dato sale se si guardano le fasce di età più basse (32% per la fascia 15-19, 36% per gli under 14).

Dall’Osservatorio indifesa emerge una generazione che ha esperienze di violenza e che la sa riconoscere, anche nelle sue forme più sottili.

La metà dei ragazzi intervistati (48%) dichiara di aver subito un episodio di violenza.

Le forme più comuni risultano: violenza verbale e psicologica (59,5%), catcalling (52%), bullismo (43%), molestie sessuali (38,5%).

Mentre la violenza verbale e psicologica viene subita in egual misura da maschi e femmine e in percentuale più alta (78%) dalle persone non binarie, le altre forme hanno una rilevante connotazione di genere, con catcalling (F 67%, M 6%) e molestie sessuali (F 45%, M 18%) subite in larga maggioranza dalle ragazze e, al contrario, bullismo (F 35%, M 66%) dai maschi.

Sale moltissimo la percentuale di maschi under 14 che ha subito bullismo (89%), dimostrando che questa forma di violenza è particolarmente sentita nei contesti scolastici o tra gruppi di coetanei.

Le persone non binarie sono, invece, vittime di tutte e tre le tipologie: al 50% di bullismo e catcalling e al 42% di molestie sessuali.

L’incidenza di catcalling e molestie sessuali, inoltre, aumenta con l’età, mentre gli atti di bullismo sono più frequenti nelle fasce d’età più basse.

Sebbene tra la GenZ sia forte la consapevolezza dei pericoli della rete, resta la scuola, trasversalmente per ogni età, il luogo dove, per la maggior parte degli adolescenti, è più probabile che avvengano episodi di violenza, è così per il 56,5% dei ragazzi e delle ragazze.

Sono percepiti come pericolosi anche la strada (48%) e i luoghi di divertimento (47%) e sappiamo dai nostri Osservatori precedenti che anche il web si posiziona al 39%.

Terre des Hommes, in collaborazione con OneDay e ScuolaZoo, porta avanti dal 2014 l’Osservatorio indifesa per ascoltare la voce dei ragazzi e delle ragazze italiane su violenza di genere, discriminazioni, bullismo, cyberbullismo e sexting.

Con il 2025 la Fondazione ha avviato una nuova partnership con Scomodo, la comunità reale di under 30 che dal 2016 crea spazi di espressione, condivisione e crescita per le nuove generazioni in tutta Italia.

Ad oggi più di 72.000 adolescenti di tutta Italia sono stati coinvolti in quello che rappresenta, l’unico punto d’osservazione permanente su questi temi.
Uno strumento fondamentale per orientare le politiche delle istituzioni e della comunità educante italiana.

Qui per approfondire: https://terredeshommes.it/comunicati/osservatorio-indifesa-2025-i-rischi-del-web-secondo-la-genz/.

Giovanni Caprio

Appello per la pace in Congo

Non è il metaverso e nemmeno uno di quei videogiochi della play ad altissima risoluzione in cui qualcuno si diverte a sparare e uccidere.

È mondo reale. Un genocidio che dura da 30 anni e con 10 milioni di vittime, più di 3000 solo nelle ultime settimane dopo la presa di Goma e Bukavu, i capoluoghi rispettivamente del nord e del sud Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. La terra più ricca del mondo per le risorse del sottosuolo mentre la sua gente muore di fame, di machete e di mitra.

Decine di migliaia gli sfollati, centinaia di bambini senza famiglia abitano per strada, centinaia le donne violentate barbaramente.

Questo succede nel 2025, mentre altrove si indaga il cosmo, si progettano reti e sistemi di satelliti per collegare il mondo globalizzato e si discetta di intelligenza artificiale.

E succede proprio per alimentare l’industria tecnologica che vive di coltan, la terra rara di cui la RD Congo è ricca, insieme a diamanti, oro, cobalto, rame e altri minerali preziosi.

Migliaia di miniere in cui lavorano bambini, presidiate da milizie armate.
Traffici internazionali illeciti di preziosi non tracciabili fanno di altri paesi, e non del Congo, i più grandi venditori delle ricchezze del sottosuolo congolese.

Primo tra tutti il Rwanda che è dietro alle milizie irregolari, tra cui la feroce M23, che da anni dillaniano e occupano il nord Kivu.
Senza avere coltan nel suo territorio, il Rwanda ne è uno dei più grandi esportatori e fortunatamente dopo la presa di Goma il Parlamento europeo ha sospeso gli accordi commerciali con Kigali anche per l’approvvigionamento di questo minerale fondamentale per la realizzazione dei microcircuiti dei nostri cellulari.

“Quella del Rwanda è un’invasione che viola il diritto internazionale – grida la società civile – nè più nè meno di quella russa in Ucraina”. E le proteste hanno colpito anche il cantante John Legend che ha tenuto proprio ieri un suo concerto a Kigali, pubblicizzato come una brochure turistica: “Visitate il Rwanda”.

Ma il Rwanda non è il solo a depredare la Repubblica Democratica del  Congo, a braccetto con la stessa Europa, USA, Francia, Regno Unito, Russia, Cina e Israele, insomma mezzo mondo, inclusi i caschi blu ONU che con la missione Monusco hanno presidiato la zona fino al loro recente ritiro applaudito dalle popolazioni locali. Non si può poi ignorare la massiccia dose di corruzione delle autorità congolesi che agevolano il tutto.

L’industria israeliana, per esempio, è la più grande esportatrice di diamanti dalla provenienza difficilmente identificabile, una volta tagliati. Le sanzioni imposte dagli USA nel 2017 e diverse inchieste giornalistiche fanno di un magnate israeliano, Dan Gertler, l’uomo ammanicato con le istituzioni congolesi e a capo di un vero e proprio impero dei “blood diamonds”, cioè dei diamanti insanguinati estratti in Congo, che si sospetta finanzino lo sterminio di vite umane a Gaza.

Dunque la guerra in Repubblica Democratica del  Congo riguarda tutti e non può restare in sordina. Ma soprattutto non può e non deve lasciare noi italiani indifferenti perché esattamente 4 anni fa, il 22 febbraio 2021, proprio vicino a Goma persero la vita, senza che sia ancora stata fatta giustizia, il nostro ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. E qui si apre un altro capitolo che lascio nella penna.

Dovremmo tutti parlare il più possibile della guerra nella Repubblica Democratica del  Congo e firmare l’appello per la pace.

 

 

Cecilia Capanna

“Morte civile”: cosa significa essere un obiettore di coscienza in Turchia

L’evento Morte civile: cosa significa essere un obiettore di coscienza in Turchia presso la sala Poli del Centro Studi Sereno Regis è stata un’occasione per conoscere la realtà degli obiettori di coscienza in Turchia.

Moderati da Zaira Zafarana, coordinatrice dell’advocacy internazionale di Connection e.V. e responsabile dei rapporti internazionali del MIR Italia, sono intervenuti in remoto Hülya Üçpinar, avvocatessa per i diritti umani in Turchia e gli obiettori di coscienza Hüseyin Civan, Merve Arkun, İnan Aru[1].

A livello di diritto internazionale l’obiezione di coscienza al servizio militare è un diritto umano che deriva dall’articolo 18 (libertà di coscienza e religione); il lavoro di advocacy su questo tema a livello internazionale è quello di far rispettare questo diritto umano nei vari paesi.

Il diritto all’obiezione di coscienza non è previsto in Russia ed in Grecia. in Ucraina in teoria c’è, ma in pratica non viene rispettato.

In Turchia il diritto all’obiezione di coscienza non viene riconosciuto e la Corte europea dei diritti dell’uomo ha definito la situazione degli obiettori di coscienza turchi come morte civile.

Hülya Üçpinar racconta la storia del movimento degli obiettori di coscienza turchi, un movimento senza un’organizzazione gerarchica che usa metodi nonviolenti; il movimento collabora con altri gruppi, compresi gruppi femministi ed ha un proprio linguaggio contro l’ingiustizia e contro qualsiasi tipo di guerra.

La società turca è fatta di cittadini soldato ed ha una generalizzata cultura militarista; i primi obiettori che si sono dichiarati pubblicamente negli anni 90 hanno minato alla base l’idea che ogni persona nasce come soldato e come turco.

Il rifiuto di servire nell’esercito viene segnalato sui documenti rendendo impossibile per gli obiettori una vita normale; qualsiasi organizzazione che rileva lo stato degli obiettori può far partire una nuova causa legale con relativo processo provocando quella “morte civile” citata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’accanimento verso gli obiettori non si ferma nemmeno al raggiungimento dell’età di 41 anni che coincide con la fine di fine dell’obbligo militare.

Emotivamente molto coinvolgente è stato il racconto dell’esperienza personale di İnan Aru: la sua scelta di obiettare è nata 25 anni fa, maturata dalla sua famiglia di resistenti che si sono opposti al colpo di stato degli anni 80. Già all’età di sette anni decise che non avrebbe fatto il servizio militare, ma nessuno sapeva come fare.

Il servizio militare è visto come un rituale per diventare dei veri uomini e per rinsaldare l’appartenenza al paese; è legato alla mascolinità e si rispecchia su tutta la vita sociale; non è semplicemente un rifiuto ad un obbligo legale, ma il rifiutare un’intera forma mentale, un’intera cultura.

Per me il servizio militare era totalmente estraneo al mio essere e l’esempio del primo obiettore di coscienza turco nel 1997 mi mostrò la strada per evitarlo; quando dichiarai la mia obiezione nel 2008 sembrava che la Turchia stesse attraversando un periodo di crescita dei diritti, ma la situazione è precipitata nel 2014-2015 quando tutte le opposizioni sono diventate degli obiettivi per l’oppressione, compresi gli obiettori di coscienza e gli antimilitaristi.

Un obiettore non può lavorare in maniera regolare né per lo stato né per i privati in maniera regolare; in caso di fermo, riceve un documento per presentarsi entro quindici giorni al centro di reclutamento e ricomincia il ciclo; “io ho ricevuto sette condanne per il medesimo fatto che sono diventate multe o arresti domiciliari; un mese fa ho ricevuto una nuova convocazione”

İnan Aru è intervenuto a raccontare la sua esperienza anche in piazza durante la 155° Presenza di Pace, ricevendo la solidarietà di chi ha lottato per il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza in Italia; nel nostro paese l’obiezione di coscienza è stata riconosciuta per la prima volta nel 1972[2].

In precedenza, gli obiettori hanno dovuto affrontare processi e carcere militare ed uno stigma sociale non molto diverso da quello che riconosciamo oggi per gli obiettori turchi.

 

[1] Merve Arkun, uno dei vicepresidenti dell’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza e membro esecutivo di War Resisters’ International, fornirà informazioni sulla situazione attuale del diritto all’obiezione di coscienza in Turchia ed esempi del lavoro svolto. Condividerà inoltre le prospettive di genere sull’obiezione di coscienza come diritto umano.
Hüseyin Civan è un obiettore di coscienza ed è stato sottoposto a restrizioni dei suoi diritti civili e sta sperimentando la “morte civile” (termine usato dalla Corte europea dei diritti umani per descrivere la situazione degli obiettori di coscienza in Turchia) a causa del suo rifiuto di servire nell’esercito.
İnan Aru è un obiettore di coscienza ed è stato processato e imprigionato più volte con la stessa accusa a causa del mancato riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza da parte della Türchia.
Hülya Üçpinar è un’avvocatessa turca specializzata in diritti umani e ha una lunga esperienza di campagne per il diritto all’obiezione di coscienza in Turchia. Ha anche esperienza nella richiesta di questo diritto umano all’interno del sistema europeo e delle Nazioni Unite. È membro del comitato esecutivo di War Resisters’ International e tra i cofondatori del Centro di educazione e ricerca nonviolenta di Istanbul.

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Obiezione_di_coscienza_in_Italia

Giorgio Mancuso

Elezioni parlamentari in Germania: vince la destra, ma successo della Linke

L’Unione Cristiano-Democratica (CDU) di Friedrich Merz, partito di centro destra, ha ottenuto il 28,6% delle preferenze, mentre l’estrema destra di Alternativa per la Germania (AfD) è arrivata seconda con il 20,4%. Il Partito Socialdemocratico (SPD) dell’ex cancelliere Olaf Scholz si è fermato al 16,4%, perdendo nove punti percentuali rispetto alle elezioni precedenti, i Verdi hanno ottenuto l’11,6% (- tre punti) e i liberali non hanno superato la soglia di sbarramento del 5%, così come l’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW). L’affluenza alle urne (84%) è stata altissima.

Nel panorama delineato dalle elezioni tenutesi ieri spicca il successo della sinistra radicale, la Linke, con l’8,8% dei voti (nelle elezioni del 2021 si era fermata al 4,9%): si tratta di un segnale importante, perché la Linke ha mantenuto una posizione ferma in difesa dei migranti e del diritto d’asilo, mentre tutti gli altri partiti hanno inseguito le posizioni demagogiche e razziste dell’AfD. Ha mostrato la stessa fermezza nell’opposizione alla guerra e all’aumento delle spese militari e ha basato la campagna elettorale su temi sociali come il caro affitti, il costo della vita e la ridistribuzione della ricchezza tassando i miliardari e riducendo la pressione fiscale sul 90% della popolazione. La Linke ha inoltre avuto un ruolo importante nelle mobilitazioni antifasciste in cui migliaia di persone hanno protestato per la scelta della CDU di collaborare con l’estrema destra per l’approvazione di misure restrittive sull’immigrazione.

Queste scelte coraggiose si sono tradotte in un grande aumento degli iscritti (31.000 in più da metà gennaio) e nell’appoggio dei giovani: la Linke è stata il partito più votato dagli elettori tra i 18 e i 29 anni. Merito anche di Heidi Reichinnek, 36 anni, la candidata di punta del partito e della sua intensa attività sui social media.

Tutto questo non sminuisce la gravità dell’ennesima “onda nera” che ha portato ancora una volta al successo elettorale una formazione di estrema destra e non fa ben sperare per il futuro. Se anche l’AfD verrà esclusa dal prossimo governo, possiamo aspettarci comunque una politica guerrafondaia e razzista; ragion di più per sottolineare l’importanza di un’opposizione ferma come quella che ci auguriamo porterà avanti la Linke, in Parlamento, nelle piazze e nei territori.

 

 

Redazione Italia

Calano gli omicidi in Italia, ma aumentano gli autori minorenni

E’ in atto una diminuzione costante del numero degli omicidi volontari consumati nel nostro Paese, con un calo del 33%, passando da 475 eventi del 2015 a 319 del 2024, con un decremento del 6% registrato tra il 2023 (340 eventi) e il 2024 (319). Una flessione ancora maggiore si rileva negli omicidi che riguardano contesti di criminalità di tipo mafioso, in decremento del 72% (da 53 a 15). È quanto si evince dal report realizzato dal Servizio analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della Pubblica sicurezza, “Omicidi volontari consumati in Italia”, che analizza il fenomeno durante il decennio 2015-2024. “Un trend in costante decremento, si legge nel report, che fa registrare il valore più basso nel 2020 (anno caratterizzato dall’emergenza legata alla pandemia da Covid19), seguono una fase di incremento nel triennio successivo e una nuova decisa decrescita nell’ultimo anno (2024), con 319 casi a fronte dei 340 dell’anno precedente.”

Si tratta dl un trend confermato anche dai dati Eurostat relativi agli omicidi volontari registrati in Europa che, per il 2022, collocano l’Italia tra i Paesi più sicuri per questo tipo di reato, riconoscendola, in ambito UE, come il Paese con il minor fattore di rischio di eventi omicidiari. Il Report, realizzato attraverso lo studio e l’analisi dei dati acquisiti dalla Banca dati delle Forze di polizia, confrontati con le informazioni fornite dai presidi territoriali di Polizia di Stato e Arma dei carabinieri, offre una panoramica del fenomeno criminale nel periodo 2015-2024, soffermandosi sul biennio 2023-2024 con approfondimenti incentrati su genere, età e nazionalità di vittime e autori, sulle relazioni tra gli stessi e su altri aspetti caratterizzanti ogni evento, come l’ambito in cui si è svolto, il movente e il modus operandi.

Le vittime di nazionalità italiana rappresentano il 75% del totale in entrambi i periodi, mentre quelle straniere costituiscono il 25%. Per quanto riguarda gli autori, gli italiani rappresentano circa il 70% in entrambi i periodi e la fascia d’età maggiormente rappresentata nel 2024 è quella compresa tra 18 e 40 anni. In rilevante incremento, rispetto al 2023, l’incidenza degli autori minorenni che, nel 2024, è dell’11%  a fronte del 4% dell’anno precedente. Gli omicidi del biennio 2023-2024 risultano essersi verificati, nella maggior parte dei casi, al culmine di una lite degenerata; nel 2024, in particolare, ciò è avvenuto nel 49% dei casi, a fronte del 45% del 2023. Gli omicidi in cui, invece, l’autore risulta aver agito per motivi passionali, si attestano, per il 2024, al 5%, in diminuzione rispetto al 2023, in cui avevano rappresentato l’11% del totale. Per quanto attiene al c.d. modus operandi, nel 2024, così come nell’anno precedente, si rivela preminente l’uso di armi improprie e/o armi bianche (133 casi nel 2024 a fronte dei 156 nel 2023), mentre le armi da fuoco risultano utilizzate in 98 casi nel 2024 e 101 nel 2023. Seguono le aggressioni (45 omicidi nel 2024 a fronte di 53 nel 2023) e l’asfissia/soffocamento/strangolamento (37 casi a fronte dei 26 del 2023). Risultano, infine, 6 gli omicidi volontari consumati tramite avvelenamento registrati nel 2024, a fronte dei 4 del 2023. In termini territoriali, invece, sono la Campania, la Lombardia e il Lazio le regioni che fanno registrare, nel biennio, i valori maggiori e tra queste, la Campania evidenzia, nel 2024, anche un deciso incremento rispetto all’anno precedente (+31%).

Un esame a sé meritano gli omicidi ascrivibili a contesti di criminalità di tipo mafioso. “In passato, si legge nel report, le organizzazioni criminali di stampo mafioso, come Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta e criminalità organizzata pugliese ricorrevano all’omicidio come uno degli strumenti principali per intimidire e risolvere conflitti interni o esterni, sia pure con le dovute differenze relative alle rispettive caratteristiche strutturali e organizzative. In contesti criminali di stampo camorristico, infatti, l’omicidio era finalizzato a segnare la supremazia dell’organizzazione stessa su un determinato territorio, intimidire i clan rivali o rafforzare il proprio potere e la propria influenza all’interno delle comunità locali.

Negli altri ambienti mafiosi, invece, caratterizzati da un’organizzazione verticistica di stampo prettamente familiare, la violenza era usata o per eliminare gli esponenti dello Stato e della società civile, percepiti come minaccia, o per punire chi non si sottometteva o non rispettava le regole del gruppo, alimentando quella paura che rendeva difficile la denuncia e la collaborazione con le Forze dell’ordine e la magistratura. A partire dagli anni ’90, gli omicidi che si sono registrati hanno avuto un forte valore simbolico e hanno riguardato spiccate personalità dello Stato: esponenti della magistratura e/o appartenenti di alto profilo delle Forze dell’ordine impegnate nella lotta contro le mafie, la cui neutralizzazione fisica appariva come l’unico modo per ripristinare un’egemonia messa sotto attacco dalle istituzioni. Nel corso del tempo, però, il modus operandi delle mafie è cambiato. Dopo la stagione stragista degli anni ’90, l’uso della violenza ha assunto forme più sottili e meno visibili. Le organizzazioni mafiose hanno infatti capito che per ottenere maggiori risultati dall’attività di pulizia del denaro sporco (il riciclaggio) dovevano evitare clamori e quindi il numero degli omicidi di mafia si è ridotto notevolmente.”

Qui il Report completo: https://www.poliziadistato.it/statics/32/elaborato.pdf.

 

 

Giovanni Caprio

Non hanno visto arrivare i nuovi padroni

Tutti i commentatori che per anni si sono spesi in ogni modo per affermare, ribadire e confermare la “nostra” (cioè la “loro”) fedeltà atlantica adesso si stracciano le vesti perché “l’America” (cioè gli USA; le Americhe sono un’altra cosa) non è più la stessa. Il colpo è stato forte, ma il loro sconcerto durerà poco. Presto li vedremo allineati con i nuovi padroni, perché una politica autonoma e indipendente non sanno nemmeno concepirla. Non ci hanno mai pensato. Balbettano. Non saprebbero da dove cominciare.  Da un esercito comune? E giù a comprare armi: dagli USA. Non ha funzionato con un mercato e una moneta comuni, figuriamoci con le armi! Da un’unione politica? Ma quale, senza un programma comune? E quale potrebbe mai essere quel programma?

Uno solo: la conversione ecologica. Ma loro non lo sanno. Non ce n’è nessun altro che racchiuda in sé tutte le questioni che il nostro tempo ci impone di affrontare: pace, ambiente, diritto alla vita, salute, sicurezza, redditi, istruzione, convivenza, solidarietà. Non è il Green Deal, che è invece uno strumento di distrazione di massa, fatto per eludere i nodi più importanti con misure parziali, derogabili, mai spiegate, spesso respingenti, a volte dannose.

Un programma comune richiede la partecipazione di tutti, o delle componenti più attive, alla sua elaborazione attraverso i tre passi sintetizzati da Extinction Rebellion: informare tutti, agire dove è possibile, deliberare in assemblee aperte. Utopia? Certo. Ma è il momento di rivalutare la parola e la sua pratica. Che cosa è successo invece?

Non li hanno visti arrivare. Sicuri di poter continuare nei modi di sempre, non hanno visto arrivare gli uomini, le donne, le forze politiche, le “visioni” (le tanto disprezzate “ideologie) e soprattutto le pratiche che, in un Paese dietro l’altro, stanno conquistando il potere per trasformarlo in modo da non poterlo né doverlo più cedere per tutto il tempo a venire. Un passaggio che porta alla luce il vuoto di cui si sono alimentate per anni le politiche dell’”Occidente”, sia di destra che di sinistra.

Governavano – o fingevano di farlo, al servizio di personaggi assai più potenti – convinti che nessuno li avrebbe mai disturbati. E come? Con “l’austerità”, niente altro che il trasferimento di redditi, salute, sicurezza, cultura e dignità dal popolo che abita ai piani bassi della piramide sociale all’élite che ne occupa il vertice: un pugno sempre più ristretto di signori della finanza, dell’informazione, della guerra. Con la sottovalutazione sistematica della crisi climatica, trattando ogni evento meteo estremo, ogni disastro ambientale, come un caso a sé, abbandonando le vittime, o anche contrastandole quando cercavano di tirarsene fuori da sole. Con una convergenza sostanziale di intenti per “tener fuori” i migranti, costi quel che costi, dai confini di ogni nazione: gli uni facendosene un vanto e una bandiera, anche se le politiche adottate si traducono in nient’altro che in stragi, torture e massacri lontano dai nostri sguardi; gli altri cercando di sopire drammaticità e dimensioni della situazione, per nascondere che le loro non-politiche non ne sono che una replica.

Dunque, con la promozione di un cinismo diffuso, dell’indifferenza, vettore di fondo dell’irresistibile ascesa delle destre. E infine, con le guerre: scatenandole o adoperandosi per renderle comunque generali, insolubili, permanenti, sempre più atroci. Un’accelerazione, questa, della crisi climatica, della produzione di profughi, e della spoliazione dei poveri: armi invece di welfare, devastazione degli habitat invece di convivenza, spreco di beni e di vite invece di custodia della Terra.

Così i nuovi padroni del mondo possono continuare a fare quelle stesse cose (compresa la guerra: se non più qui, là) moltiplicandone gli effetti, ma presentandosi come gli unici in grado di inaugurare una nuova era: quella in cui si dice apertamente le cose come stanno e come si vuole che vadano. E poi le si fanno senza tentennamenti.

Tornare indietro non è più possibile: non c’è niente di attraente in quel passato che ci stanno mettendo dietro le spalle. E’ molto più seduttivo, invece, quello che promettono le nuove dittature, perché è facile da enunciare e impossibile da verificare. Il loro appeal non può più essere scalzato se non da una moltiplicazione di iniziative radicali che partano dalla base della piramide.

E’ quello che sostiene anche George Monbiot sul Guardian del 19.2: reti di vicinato, democrazia deliberativa, valorizzazione delle risorse locali. Una nuova politica che preveda, secondo la visione di Murray Bookchin, più diversità, più apertura alle diverse possibilità, più modularità, cioè replicabilità nei contesti più vari. Certo, sono necessarie anche politiche nazionali e globali, ma è ora di capire, sostiene Monbiot, che nessuno se ne occuperà, se non noi. Non c’è che da cominciare a mettersi insieme.

 

Guido Viale

Centri di accoglienza in Albania, governo Meloni vs magistratura

Continua il braccio di ferro tra il governo Meloni e la magistratura sulle funzioni e l’operatività dei due centri di accoglienza in Albania. Aperti nell’ottobre dello scorso anno, sono rimasti tutt’oggi fermi a causa degli stop arrivati dalle toghe italiane e di Bruxelles. Il governo Meloni sta cercando in tutti i modi alternative per aggirare le restrizioni, anche a rischio di contraddirsi e di incappare in ulteriori forzature.

Le origini dei due centri

Facciamo un passo indietro. Le due strutture per migranti aperte in Albania nell’ottobre del 2024 sono il principale risultato di un protocollo d’intesa firmato tra il governo Meloni e l’Albania del premier Rama nel novembre del 2023. Secondo quanto previsto dal documento, i centri avrebbero dovuto essere già aperti a maggio del 2024, ma una serie di imprevisti ha fatto slittare la loro messa in funzione di ben 5 mesi. Ma al di là di questi contrattempi, che comunque hanno avuto un costo economico, il problema fondamentale sta nel fatto che ad oggi i centri sono ancora vuoti. Infatti, ogni volta che il governo Meloni ha provato a inviare delle persone nelle strutture è arrivato lo stop della magistratura italiana. La base giuridica di questi stop è costituita da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 4 ottobre scorso che ha modificato i parametri che consentono di definire “sicuro” un dato Paese, rendendoli più restrittivi.

Dal momento che lo scopo dei due centri in Albania è proprio quello di accogliere i migranti che, provenendo da un Paese ritenuto sicuro vanno sottoposti a una procedura accelerata di esame della richiesta di asilo, in più di un caso il governo Meloni ha dovuto fare un passo indietro rispetto alla decisione di trattenere dei migranti. Ad esempio, alcuni cittadini provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh soccorsi dalla Marina Militare italiana in acque internazionali non sono stati più mandati in Albania nonostante l’iniziale volontà del governo proprio perché le modifiche di Bruxelles hanno reso questi due Paesi non più classificabili come sicuri.

La contromossa del governo Meloni

Stante la necessità da parte del governo di mettere in funzione i due centri e di dimostrarne la tanto sbandierata efficacia, ecco il primo tentativo di aggirare l’ostacolo legale: spostare con un decreto-legge la competenza sui trattenimenti dalle sezioni immigrate dei tribunali alle Corti d’Appello. Ma il tentativo è subito fallito a causa del fatto che molti dei magistrati che operano nelle sezioni immigrazione dei tribunali ordinari operano anche in Corte d’Appello a causa della carenza di personale di quest’ultima. L’ultima decisione in tal senso da parte della Corte d’Appello è del 31 gennaio: 43 persone che secondo il governo Meloni dovevano essere indirizzate e trattenute nei centri in Albania sono state portate alla fine in Italia.

Secondo tentativo

Nelle ultime settimane un’ipotesi sul tavolo del governo è stata ed è tuttora quella di convertire la funzioni dei due centri di Gjader e Shengjin da centri di prima accoglienza e soccorso a CPR, ovvero Centri per il Rimpatrio. A dire il vero il centro di Shengjin lo è già in parte, dato che su 1.024 posti totali 144 sono proprio destinati a chi è in attesa di rimpatrio. Se dovessero però diventare entrambi dei CPR al 100% vorrebbe dire che ad entrarci sarebbero tutte quelle persone transitate sul territorio italiano a cui è stata negata la richiesta d’asilo e sono dunque sottoposte ad una procedura forzosa di rimpatrio. Una situazione di questo tipo significherebbe di fatto contraddire clamorosamente lo scopo iniziale dei due centri dichiarato proprio dallo stesso governo Meloni: impedire l’accesso al territorio italiano a chi, sempre secondo quanto ritenuto dal governo, non è meritevole di protezione in quanto proveniente da un Paese classificato come “sicuro”.

Peccato che chi finisce in un CPR è necessariamente transitato sul territorio italiano, ecco perché dunque la pista della conversione pare essersi un po’ più raffreddata negli ultimi giorni. Per non tacere poi dell’automatica violazione dell’articolo 2 del protocollo d’intesa con l’Albania, il quale riporta che le persone destinate ai due centri devono essere “esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione Europea», cioè in acque internazionali. Se queste persone venissero trovate dalla Marina Militare italiana in acque italiane dovrebbero essere portate sul territorio italiano perché secondo quanto previsto dal Regolamento di Dublino è il Paese di primo arrivo che deve obbligatoriamente esaminare la richiesta di protezione. Il cosiddetto “effetto positivo deterrente” dei due centri definito dal governo Meloni verrebbe meno: chi finisce in questi centri dovrebbe necessariamente aver prima transitato sul territorio italiano.

Un’altra opzione considerata, infine, ma dismessa quasi subito per la sua evidente inapplicabilità è stata quella di spostare la giurisdizione dei centri da quella italiana a quella albanese. Il ragionamento di fondo è semplice: non facendo parte dell’Unione Europea l’Albania non è tenuta a mantenere gli stessi standard dell’Italia in materia di diritti dei migranti. E sì che la Meloni aveva garantito più volte che non ci sarebbero mai stati problemi da questo punto di vista, dato che i due centri sono proprio sotto la giurisdizione italiana.

Sviluppi futuri

Nonostante le controindicazioni mostrate sopra, il governo Meloni appare ancora saldo nel suo intento di rendere i due centri in Albania dei CPR. Nei suoi incontri con i vertici delle istituzioni europee a Bruxelles, così come nelle dichiarazioni pubbliche, continua a manifestare questa volontà. Fattore importante a questo punto sarà la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea attesa dopo il 25 febbraio. A seguito di maggiori chiarimenti da parte dei tribunali italiani, la Corte Europea infatti fornirà una lista rivisitata dei parametri necessari a considerare come “sicuro” un Paese, valutazioni che forniranno un orientamento decisivo rispetto alle scelte dei tribunali stessi, indipendentemente dalla volontà e dagli espedienti del governo Meloni.

 

Redazione Italia

Più sicurezza? Solo fuori dal capitalismo

Oramai al centro dell’attenzione internazionale c’è solo una parola: sicurezza. Un termine coniugato in modo davvero malsano.

Sicurezza è dotarsi di sempre più armi e eserciti, difendere i confini dai poveracci che bussano all’Europa o agli USA, difendere la purezza della razza bianca, difendere identità nazionali che a volte sono pura invenzione, difendersi dall’avanzare della cosiddetta teoria gender.

In realtà l’esigenza di sicurezza è realmente sentita ma non è con le armi che ci si difende da attacchi esterni, dalla guerra. E ci sono ben altre minacce che dovrebbero essere avvertiti come veri attentati alla sicurezza dei cittadini e della nazione. Sentirsi insicuri perché la sanità pubblica non funziona più e chi non ha soldi non si può curare e invece di morire sotto un improbabile bombardamento ci lascia la pelle prima di arrivare a un pronto soccorso. Sentirsi insicuri perché la casa sta diventando un lusso soprattutto nelle grandi città come Milano svendute alle immobiliari, agli speculatori e all’overtourism che gentrifica i centri urbani. Sentirsi insicuri se si tratta di giovani perché non c’è lavoro e non c’è futuro. Sentirsi insicuri perché la scuola è ritenuta non un investimento fondamentale ma una voce di costo da ridurre. Sentirsi insicuri perché lo sconvolgimento climatico presenta uno scenario cupo e sono sempre di più le vittime e le distruzioni di alluvioni, incendi e dissesti idro-geologici. E si potrebbe continuare.

Questa è la vera mancanza di sicurezza di cui ci dovremmo occupare. Queste sono le autentiche minacce da cui dovremmo difendere. Invece la parola d’ordine è una sola: più armi! E poi è un’illusione pensare che più armi, più eserciti, mettano al riparo da eventuali attacchi esterni. E’ esattamente il contrario. Il potenziale nemico risponderà in modo simmetrico. Gli Stati che possono sentirsi più sicuri sono proprio quelli che investono meno in spese militari, pacifici, dialoganti, che presentano meno un volto aggressivo all’esterno.

Mi ricordo un’analisi degli anni 80. I due Stati più sicuri erano due piccole nazioni non allineate molto diverse tra loro: Svizzera e Albania. Per non parlare del Costarica, uno dei pochi Stati al mondo che abbia rinunciato all’esercito. La sicurezza in questo senso si costruisce, come affermava Pertini, in un modo molto semplice e solo apparentemente ingenuo: riempiendo i granai e svuotando gli arsenali. La più grave minaccia reale non solo per l’Europa ma per il mondo intero si chiama comunque crisi ambientale e climatica. Ma i padroni del mondo, quelli che detengono le leve della politica e dell’economia si muovono in direzione contraria.

Trump e Musk affogheranno nei loro miliardi e nella loro supponenza è chiaro ma come è possibile che non trascinino anche noi, anche quelli che verranno nella catastrofe? Le teorie economiste che tendono a salvare capre e cavoli (ambiente e crescita) hanno fallito. Soluzioni come i certificati verdi o le speranze messianiche riposte nella tecnologia non porteranno da nessuna parte. Se vogliano davvero salvarci il capitalismo non si modifica, si abbatte, perché è causa prima del disastro. Purtroppo sono esigue minoranze quelle sullo scenario politico che abbiano il coraggio di abbandonare l’idiozia della crescita infinita in un modo finito. Anche al centro e pure a sinistra la parolina magica crescita è prima o poi sulla bocca di tutti. Senza crescita non esiste capitalismo, ma senza uscita dal mito della crescita e dal modello capitalista non esisterà più…il mondo. E oltre a quelle economiciste che tendono a migliorare il capitalismo occorre diffidare anche dell’approccio individualista che vede nella semplice modifica dei comportamenti individuali la via d’uscita. Mantenere coerenza tra il dire e il fare, fare proprio l’invito di Gandhi “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, adottare stili di vita frugali, ecc. è importante ma non deve far perdere di vista il fatto che il problema è politico e strutturale e che il vero obiettivo non può che essere il superamento del capitalismo. Magari tenendo presente come stella polare il comunismo dei beni comuni e non delle nazionalizzazioni in stile sovietico del filosofo giapponese Kohei Saito.

Ci sono interi settori, quelli che contribuiscono a concentrare la ricchezza e le leve del potere mediatico e economico nelle mani di pochi che dovrebbero essere invece di esclusivo possesso da parte dello Stato, della comunità: energia in primis.
E poi ovviamente sanità, scuola, servizi pubblici essenziali, acqua. Il potere capitalista dei soliti noti al servizio di Trump si può scardinare poi anche in modi che vedano i cittadini protagonisti diretti di scelte alternative nel campo dei social media, della messaggistica, di tutto ciò che riguarda il web. Capitalismo, riarmo e distruzione ambientale vanno a braccetto. Pace, disarmo e salvaguardia ambientale pure. Sta a noi scegliere per cosa impegnarci.

Giuseppe Paschetto

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 2° parte

Riprendiamo l’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i terribili fatti avvenuti in Sud America, con il rapimento e il successivo omicidio del marito, la sua storia continua in Europa.

Arrivi in Svezia, come continua la tua storia?

La Svezia era allora l’unico Paese europeo che ci accoglieva. A Buenos Aires, durante la ricerca dei ragazzi, ero andata all’ambasciata italiana dove mi avevano trattato molto male, nonostante avessi detto loro che sia io che Daniel eravamo di origine italiana. Mi risposero: “Di terroristi in Italia abbiamo già i nostri.” Dopo due giorni a Stoccolma (dove governava Olof Palme) ci spostarono in un villaggio, una grande area con una serie di casette completamente arredate nella località di Alvesta. Trovammo soprattutto compagni cileni… Sei mesi dopo, ci diedero un appartamento in una cittadina nel Sud della Svezia, Malmö. Io cominciai a studiare lo svedese, le bimbe andavano alla scuola per l’infanzia.

In quel momento non ne volevi più sapere di politica?

In quel momento non volevo sapere più nulla dei partiti politici. Personalmente credo che molta della responsabilità sia stata dei dirigenti, sia del movimento guerrigliero che dei partiti. Ho comunque capito che bisognava iniziare con le denunce, attivare e mettere in pratica la solidarietà dell’Europa, visto che avevamo migliaia di prigionieri politici, non solo in Uruguay, che vivevano una repressione durissima nei lager e nelle carceri dei nostri Paesi. Non credevo più nella guerriglia, ma continuavo a credere nella politica, nella Democrazia e soprattutto nella Libertà.

C’era un rapporto tra il Frente Amplio e la guerriglia dei Tupamaros?

Formalmente no, ma di fatto si, e ogni volta che i guerriglieri denunciavano sequestri, torture e uccisioni, erano spalleggiati dai partiti del Frente Amplio. L’esempio più chiaro è stato Zelmar Michelini, che ho citato prima. Una delle figlie di Michelini, Elisa, era militante dei Tupamaros. Lui fu minacciato in questi termini: “Se fai ancora qualcosa di simile a quando andasti al tribunale Russell in Europa a parlare di noi… tua figlia inizierà ad essere torturata.” Elisa in quel tempo era in galera, ma non l’avevano ancora toccata. Ho visto Zelmar piangere quando è arrivato in Argentina, perché avevano iniziato a torturarla. Lui non poteva stare fermo e zitto, nessuno di quei politici poteva farlo, con quello che stava accadendo. La tortura era sistematica, le persone in Uruguay venivano fatte a pezzi. Poi c’era il dramma degli scomparsi che esplose dopo il golpe in Argentina nel 1976.

Quindi sia in Uruguay che in Argentina il golpe non fu un passaggio netto, “dal bianco al nero”, ma iniziò ben prima

Sì, soprattutto in Uruguay. Già alla fine degli anni ’60 un governo eletto aveva iniziato a dar vita alle “medidas de seguridad” per le quali si vietava la propaganda politica, e la stessa parola Tupamaros (la stampa doveva dire “sovversivi”, “innominabili”). Se dicevi “Tupamaros”, andavi in galera. Avevano chiuso tutta la stampa di opposizione. Nelle elezioni del 1971 ci furono brogli, al Frente Amplio furono rubati molti voti. Nel 1972 il governo dichiarò lo “stato di guerra interna”.

Quindi tutti noi ricordiamo l’11 settembre del ’73 in Cile perché quello fu davvero un salto radicale dal “bianco al nero”. I golpe in Uruguay e in Argentina furono solo il consolidamento di una situazione che era già in atto?

Senza dubbio. Arrivammo in Italia nel ’76 perché io in Svezia non ce la facevo più…avevo un papà italiano, di Borgotaro (Parma) e volevo venire in Italia, la terra di mio padre. In Italia sentivo parlare SOLO del golpe in Cile che, comprendo bene, aveva colpito profondamente sia il sistema politico che i cittadini. Con altri compagni uruguaiani ci demmo proprio il compito di far sapere in Italia e in Europa che in Uruguay c’era stato un colpo di stato. Il caso dell’Argentina è stato diverso, con i desaparecidos, a migliaia, con le madri di Plaza de Mayo che si organizzarono per la ricerca e la denuncia e che oggi sono il simbolo dalla lotta per la Memoria, la Verità e la Giustizia. L’Argentina poi era un Paese grande e importante.

Ricordo che poco dopo il mio arrivo andai alla questura col mio passaporto di ACNUR, l’unico che ancora avevo. Dissi loro che volevo i miei documenti italiani. Tieni conto che di immigrazione in Italia, a quel tempo, non se ne parlava proprio (c’era solo popolazione somala ed eritrea, qualche cittadino greco, qualche portoghese e qualche spagnolo). L’agente mi disse: “Ma se lei è figlia di italiani è italiana, basta, mica ha bisogno di un documento come rifugiato politico!” Quando ritornai all’ufficio immigrazione, un altro agente che mi aveva fermato e a cui dissi che ero uruguayana, mi lasciò andare sorridendo dopo aver nominato alcuni tra i giocatori di calcio dell’allora famosa nazionale uruguayana. Così feci i documenti.

Come andò avanti la storia della dittatura in Uruguay?

Furono anni di repressione tremenda, solo verso il 1983 le forze politiche, di fronte ad un fallimento totale della dittatura (avevano rubato tutto quello che c’era da rubare), cominciarono a guadagnare terreno. La situazione generale era cambiata, l’Africa si era liberata (almeno formalmente) dai colonizzatori. Spagna, Grecia e Portogallo erano diventati delle democrazie. Nell’84 ci fu un accordo tra alcuni partiti (di centro e di destra) e i militari,, che cercavano di resistere in tutti i modi. Nell’84 si fecero le elezioni e noi tornammo per votare. Vinse il partito Colorado che da più di un secolo aveva quasi sempre governato ed era composto dalla buona borghesia metropolitana del Paese. L’altro partito, il Blanco, rappresentava la parte agraria, ma erano comunque due partiti di centro-destra, e in quel momento erano gli unici “legali”. Il primo presidente, Julio Maria Sanguineti, fece subito un’amnistia che liberò tutti i prigionieri politici (compreso Pepe Mujica), ma anche i militari che non vennero quindi giudicati. Fu fatto anche un referendum per stabilire se i militari potevano essere processati, ma perdemmo, la gente aveva paura e aveva buoni motivi per averne. Poi il Frente Amplio è cresciuto, si è presentato alle elezioni locali e ha conquistato la città di Montevideo. Poi fino al 2020 ha governato il Frente Amplio. Questo governo stabilì che quell’amnistia per i militari era incostituzionale e che i militari colpevoli di crimini di lesa umanità, potessero essere processati. Ora, dopo 50 anni, stanno ancora arrivando denunce.

E Pepe Mujica?

È malato, ha dichiarato in una conferenza stampa che ha un cancro all’esofago, è un vecchio saggio. Dice parole importantissime ai giovani, trasmette carica, coraggio, speranza, per l’ambiente e contro la rassegnazione.

Quando andai a votare in Uruguay dopo tanti anni, ero convinta di rimanere lì, ma fu il padre di Daniel, il mio primo suocero, a dirmi: “Ma di cosa vivi se vieni qui?”. Il Paese era rovinato, così tornai in Italia.

 

Fine seconda parte

 

Qui il link alla terza e ultima parte

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto