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Politica

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 3° parte

Eccoci alla terza e ultima parte dell’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i tragici fatti del Sud America, Aurora arriva in Europa, prima in Svezia e successivamente in Italia…

Arrivi in Italia nel 1976, quindi. Come te la sei cavata?

All’inizio, grazie a delle donne legate a padre David Maria Turoldo, trovai due case dove potevo andare a fare i lavori domestici. Poi, attraverso la mia attività col sindacato uruguaiano, trovai lavoro alla CGIL, dove ho lavorato per molti anni. In seguito ho trovato un impiego presso la Provincia di Milano, fino al 2015.

Veniamo a tutto quello che facesti in Italia per l’Uruguay

Fin dall’inizio girai tanto, anche per l’Europa, a raccontare, denunciare, quello che avveniva nel mio Paese. Facevo parte di un Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dell’Uruguay. Mi mossi anche molto con i compagni del partito comunista uruguaiano che erano in Italia, ma sempre sul piano della solidarietà. Grazie anche a Tucci, mio secondo marito, che è ancora qui con me ho potuto fare tutto questo, benchè con due figlie.

Nel frattempo scoprimmo che in Italia esisteva questo articolo 8 del Codice penale, per noi importantissimo, che dice che OVUNQUE succeda qualcosa ad un cittadino italiano, la giustizia italiana deve intervenire. Quindi noi, sull’onda del processo alla Esma (famoso luogo di tortura in Argentina) cominciammo a muoverci. Nel frattempo, il giudice Garzon in Spagna aveva chiesto il rimpatrio di Pinochet: qualcosa si stava muovendo. Così insieme ad altre quattro donne uruguaiane, ma con figli o mariti italiani, andammo alla procura di Roma. Li conoscemmo Giancarlo Capaldo, che era il Pubblico Ministero, e raccontammo le nostre storie. Lui stava già seguendo le vicende di altri cittadini italiani provenienti dal Cile e dall’Argentina, che avevano denunciato i militari dei loro Paesi. Capaldo, seguendo queste vicende (che avevano fra l’altro come centro principale Buenos Aires, dove avvenivano cose tremende) ebbe l’intuizione di mettere insieme queste storie. Ringrazierò quest’uomo tutta la vita.

Da destra: i PM Giancarlo Capaldo e Tiziana Cuggini, oltre gli avvocati dell’accusa

Avevamo iniziato a parlare di cosa fosse il Plan Condor negli anni ‘80: un piano strategico per eliminare gli oppositori alle dittature. La grandissima mano che ci permise di conoscere bene il Plan Condor ce la diede un uomo straordinario, paraguaiano, che abbiamo perso alcuni mesi fa: il professor Martin Almada. Ci raccontò che durante la sua prigionia in Paraguay aveva incontrato un militare (uno dei pochi militari oppositori del regime) che gli disse dove avrebbe potuto trovare tutta la documentazione su quello che si stava facendo in alcuni Paesi latinoamericani. Il Plan Condor dava la possibilità alle polizie dei vari paesi dell’area di perseguire ovunque nel Cono Sur i propri oppositori. In effetti una volta uno dei vertici militari aveva detto: “La sinistra non vuole le frontiere? Anche noi non le vogliamo!”.

Venne così trovato ad Asuncion, in Paraguay, quello che si è chiamato l’archivio del terrore, dove si poteva leggere tutto. Era un piano sottoscritto in Cile da tutte le dittature del continente.

Come andò il processo che metteste in piedi con Capaldo?

La giustizia italiana ci ha messo molto tempo, ma era normale, ci voleva molto tempo per avere i documenti da quei Paesi, fare le traduzioni, superare gli intoppi burocratici sia qui in Italia che lì, e poi si fecero molti viaggi in Sud America. Ci volle tempo, fatica, costanza. Capaldo raccolse moltissime dichiarazioni. Volle sentire giornalisti, esperti, storici, i testimoni furono circa 140. Alla fine, Capaldo sentì che aveva ricostruito tutto il quadro, andò davanti al giudice e venne riconosciuto che questo era un processo da farsi. Dal 1999 al 2015 furono gli anni delle ricerche, nel 2015 iniziò il processo pubblico. Certo, io avrei voluto in Uruguay un processo giusto per la morte di mio marito. Non è stato possibile. L’Italia ha compensato questa grave mancanza.

Considerate che si trattava di un processo fatto dopo decine di anni, a migliaia di chilometri di distanza, con alcuni giudici popolari che non sapevano neanche dove fossero questi Paesi. In quegli anni si sapeva poco e si parlava pochissimo di quelle dittature. Andava spiegato tutto. Nelle piazze si era parlato soprattutto del Cile, ma ben poco dei processi. Bisogna però riconoscere che le condanne definitive del nostro processo in America Latina ebbero ripercussioni enormi. Molti avvocati e giudici di là si rivolsero a noi per avere le sentenze italiane. Venne creato un precedente fondamentale. Quell’articolo 8 qui in Italia fu importantissimo. Il processo avviato da noi si concluse nel 2021 con la seguente condanna definitiva: “Tutti gli imputati vivi, all’ergastolo”. Certo, uno solo andò in galera, un militare di nome Troccoli che viveva a Salerno. Molti erano morti, altri erano già in carcere nei nostri Paesi.

Ma allora perché dici che fu l’Italia a darti giustizia?

Prima di tutto perché in Sud America non si è mai fatto un processo Condor, ma solo processi riferiti a una o due vittime.

Tu seguisti il processo a Roma: dovevi o volevi?

Io collaboravo, insieme ad altre, con il PM Capaldo nella ricerca di materiale e nelle traduzioni. La mole di carte che producemmo fu impressionante, dovemmo presentare le prove su tutto. Tutto. Di solito venivo accompagnata a Roma dai miei tre nipoti.

Da destra: la PM Cuggini, Aurora Meloni e il suo avvocato Giancarlo Maniga

Alla fine del processo giudiziario, nel ’21, tirai il fiato, ma già con la prima sentenza io avevo pianto. Qualcuno mi ha chiesto a cosa avessi pensato in quel momento… Io avevo pensato a Daniel, a Guillermo, a Luis, a tutti quelli che non c’erano più e a quelli che ancora non avevano trovato. Non devi dimenticare che noi abbiamo ancora una ferita aperta, che sono i desaparecidos. Il problema vero è che noi sappiamo che loro (i militari) SANNO. Ancora pochi mesi fa abbiamo trovato in un presidio militare i resti di una compagna scomparsa nel ’77. Sono i resti della settima vittima che ritroviamo dei 197 scomparsi che abbiamo in Uruguay. Solo 7! Dopo 50 anni! Una lentezza tremenda, anche perché non ci sono finanziamenti per la ricerca e per gli scavi. Noi poi ci rivolgiamo ad antropologi argentini per l’identificazione del DNA, non è semplice.

Comunque, per me, questo processo è stata GIUSTIZIA. Pensa che il relatore della Corte di Cassazione, il dottor Gaeta, fece un intervento di più di un’ora, determinando poi la decisione della corte, in cui analizzò punto per punto tutto quello che portava alla condanna di questi criminali. Un intervento meraviglioso, come se lo avessimo scritto noi, e da parte di un relatore della Cassazione: a questi livelli non avviene mai che vi sia un tale coinvolgimento. Quando con quest’uomo ci vedemmo presso un’università romana per un incontro, piangemmo insieme.

Quanto poi è stato reso pubblico il risultato di questo processo, in Italia?

Un po’ di risonanza ci fu. Durante il processo entrammo in contatto con diversi giornalisti, io intervenni in diversi servizi di RaiNews e Radio1, oltre ai contatti con i tanti amici in Italia e a numerosi blog che ci hanno dato spazio. Se cerchi su internet la vicenda del processo Condor, trovi moltissimo materiale. In America Latina si parla ancora dell’esito di questo processo e del plan Condor.

Chi si fece carico delle spese di questo lungo processo?

Soprattutto lo Stato italiano. Alcune regioni italiane, alle quali la vittima apparteneva, hanno aiutato. La chiesa valdese partecipò alle spese.

Cosa pensi di coloro che al giorno d’oggi hanno nostalgia di quelle dittature o sono negazionisti rispetto ai fatti che voi avete denunciato?

Noi dobbiamo continuare a raccontare la nostra storia e a spiegare che non si può negare quello che è avvenuto. Io mi sono ancora emozionata quando, pochi giorni fa, ho visto le immagini dell’estremo saluto ai resti della compagna di cui parlavo prima, fatto nell’enorme atrio dell’università di Montevideo. Ho visto un popolo che piangeva e che diceva: “la tua lotta continua ad essere la nostra”, e tra loro moltissimi giovani. Sono pochi resti, in un’urna, ma emozionano ancora moltissimo. A noi rimane l’ultima madre di quel periodo, che tra poco compirà cento anni, lucidissima. Ogni volta che posso vado a parlare, a raccontare, nelle scuole, soprattutto intorno al Giorno della Memoria. Pur se è difficile con i tempi che corrono, dobbiamo insistere perché sia davvero “nunca mas”.

Per chiudere, cosa pensi dell’essere umano e della sua capacità di compiere violenze?

Che non ha limiti. Che è ancora incredibile, nonostante la storia, pensare che un essere umano possa essere così crudele, malvagio, spietato…ma poi ci guardiamo intorno e vediamo le guerre in atto: di cosa ci stupiamo?. E non solo le guerre. Che dire: che il sopravvento è stato preso dal potere e dal denaro, come continua a ripetere Francesco.  Io credo che la forza per combattere tutto ciò si possa trovare nella lotta. Sempre. Perché credere nella vita, nell’amore e nell’essere umano è lo stimolo, e anche l’esempio che mi sento di trasmettere ai miei nipoti.

Anche in questa lotta, lunga, faticosa, dura, foste quasi esclusivamente donne. Perché?

Forse perché noi diamo la vita, quindi siamo molto attaccate ad essa. Non voglio dire che gli uomini non abbiano forza, abbiamo avuto al nostro fianco uomini bravissimi, ma la nostra è particolare.

Um’ultima nota, un po’ sciocca: hai un cognome impegnativo adesso…

(Aurora ride) Non c’entro niente.

 

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

“Valerio vive, un’idea non muore”: manifestazione in ricordo di Valerio Verbano

Come ogni anno a partire dal 1980, terribilis annus, oltre 4.000 persone si sono radunate sotto la casa di Valerio Verbano, liceale impegnato nel quartiere e in una indagine sui gruppi eversivi di estrema destra, ucciso sotto gli occhi dei genitori legati ad una sedia. E’ utile ricordare che il dossier cui Valerio stava lavorando è sparito come pure la pistola di ‘ordinanza’ con la quale è stato freddato. Valerio è diventato cosi il simbolo di una generazione in lotta contro la grigia cappa clerico/fascista che opprimeva e opprime Roma dove i centri sociali sono sempre minacciati di sgombero, mentre Casapound ha persino le utenze gratis.

Dopo l’omaggio floreale alla targa posta all’ingresso dell’abitazione di Valerio, un corteo di giovani è poi sfilato per le vie dei quartieri del Tufello e Montesacro. Gli studenti delle scuole hanno preparato con cura la manifestazione con riunioni, assemblee e con una settimana di trasmissioni a Radio Onda Rossa. Hanno persino rinfrescato la scritta sui muri del liceo Archimede che Valerio frequentava. Alla domanda: “Siete qui per Valerio o contro il DDL sicurezza del governo?” uno studente del liceo Augusto risponde: “C’è differenza?”. Insieme agli studenti hanno sfilato curdi e palestinesi con le loro bandiere, giovani donne a ricordarci con i loro slogan che non c’è antifascismo senza lotta contro il patriarcato ed infine i compagni, ormai anziani, di Valerio molti dei quali tornati apposta a Roma. Ha praticamente sfilato tutto il III municipio.

Terribilis annus il 1980 apertosi con l’omicidio di Mattarella, seguito da Ustica e poi dalla strage alla stazione di Bologna, per concludersi con la sconfitta operaia alla Fiat (61 licenziamenti e un mese di occupazione). Come con un terremoto (Irpinia) si chiude il ventennio iniziato a Genova con la mobilitazione per impedire il comizio di Almirante. Si chiude un ventennio di conquiste sociali: diritto di famiglia, scala mobile, statuto dei lavoratori, divorzio e via discorrendo. Ma “Il vento soffia ancora” si legge su una grande bandiera bianca che al centro reca l’immagine di un coloratissimo uccello. “Sarà un caso che a partire da allora sono nati circa 2.500 Valerio e Valeria?” fa notare un compagno di lotta di Valerio.

Il corteo si è concluso con un concerto, perché l’antifascismo si pratica anche con la socialità e la cultura.

Rachele Colella

Redazione Roma

L’irresistibile attrazione delle banche verso l’industria delle armi

L’aggressione russa all’Ucraina ha spinto, anche in Italia, a una corsa globale agli armamenti. Nel 2024 la spesa militare globale ha raggiunto i 2.443 miliardi di dollari, segnando un nuovo record in un contesto di crescente instabilità geopolitica. Dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio 2022, l’Ue e i suoi Stati membri hanno mobilitato 124 miliardi di euro a sostegno dell’Ucraina, una cifra significativa rispetto agli investimenti previsti per il Green New Deal. Per quanto riguarda il nostro Paese, utilizzando il Database SIPRI si nota che nell’arco temporale 2015-2023 la spesa militare italiana passa da 23,83 miliardi a 32,63 miliardi di dollari (+36,9%). In termini di incidenza sul PIL, siamo passati dall’1,2% all’1,6%. Ciò implica una spesa pro-capite che è lievitata da 368,35 dollari nel 2015 ai 603,50 dollari del 2023. Anche per quanto riguarda l’esportazione di materiale d’armamento l’Italia ha una posizione di tutto rispetto: si trova al 6° posto come Paese esportatore di armi nel mondo. Il database aggiornato annualmente del SIPRI colloca l’Italia subito dietro la Germania, ma prima del Regno Unito. Con il 4,3% dell’ammontare delle esportazioni mondiali nel quinquennio 2019-2023 l’Italia ha visto crescere dell’86% quest’attività rispetto al quinquennio precedente (2014-2018). Il 71% delle sue esportazioni, l’Italia le dirige verso il Medio Oriente, una delle aree a maggior densità di conflitti endemici del pianeta. In quest’area si collocano tre dei maggiori 10 importatori di armi: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. Gli Stati Uniti, sempre secondo SIPRI, coprono il 52% delle esportazioni totali verso il Medio Oriente. A seguire la Francia (12%), l’Italia (10%) e la Germania (7,1%).

Siamo di fronte ad un preoccupante trend di crescita delle spese militari, che tutto fa pensare che sarà purtroppo destinato a continuare anche nel prossimo futuro. Spese militari verso le quali, come ha evidenziato “ZeroArmi”, alcune banche italiane subiscono un’irresistibile attrazione. Il progetto ZeroArmi rappresenta il primo strumento di valutazione dell’esposizione bancaria italiana verso l’industria delle armi. L’iniziativa è frutto della collaborazione tra Fondazione Finanza Etica e Rete Italiana Pace e Disarmo, con il coinvolgimento delle principali banche italiane. ZeroArmi analizza il grado di coinvolgimento del sistema bancario nel settore militare, ponendo l’accento sulla trasparenza e sul dialogo critico con gli istituti bancari. La valutazione copre le seguenti banche: Banca Mediolanum, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare Etica, Banco BPM, BPER Banca, Cassa Centrale Banca, Cassa Depositi e Prestiti, Crédit Agricole Italia, ICCREA, Intesa Sanpaolo. Mediobanca e Unicredit.

Stando ai risultati 2024 di ZeroArmi presentati alla fine dello scorso gennaio, Banca Etica si conferma l’unico istituto con un coinvolgimento nullo nel settore militare. Cassa Centrale Banca, BPER, Banco BPM e Cassa Depositi e Prestiti mostrano un coinvolgimento minimo, con punteggi tra 10 e 20, attribuibili alla loro storia, a scelte strategiche recenti e alla disponibilità a confrontarsi con ZeroArmi. La seconda fascia di coinvolgimento moderato (20-40 punti) è leggermente più numerosa: Banca Mediolanum, Crédit Agricole, Mediobanca e ICCREA si posizionano tra 20 e 25 punti, mentre Banca Popolare di Sondrio si trova nella parte alta di questa fascia. Infine, le due banche tradizionali con il maggiore flusso di cassa, Intesa Sanpaolo e Unicredit, si posizionano all’interno della terza fascia (40-60) a conferma del loro storico ruolo di protagoniste strutturali nel settore, con un coinvolgimento significativo. 

Scrive Simone Siliani nel Report ZeroArmi: “Dove finiscono i soldi delle persone risparmiatrici quando vengono depositati in banca? Esiste un diritto a essere informati su come vengono impiegati? Considerando che quei fondi restano di proprietà di chi li ha affidati alle banche con l’obbligo di tutelarli e utilizzarli per muovere l’economia, questo diritto assume una importanza ancora maggiore quando i risparmi vengono impiegati per finanziare settori dell’economia eticamente sensibili, come quello degli armamenti.” Per affrontare il crescente coinvolgimento delle banche italiane nell’industria bellica, ZeroArmi propone azioni concrete: 1. Promuovere la trasparenza, rendendo pubblici i dati relativi ai finanziamenti al settore militare. 2. Definire policy restrittive per escludere effettivamente il supporto a industrie produttrici di armamenti controversi. 3. Favorire il disinvestimento, sostenendo la riallocazione di capitali verso settori a elevato impatto sociale e ambientale positivo. 4. Coinvolgere chi risparmia, informando i cittadini e le cittadine sull’impatto delle loro scelte finanziarie per favorire decisioni consapevoli.

Qui per scaricare il Report: https://finanzadisarmata.it/risorse/zero-armi/

 

Giovanni Caprio

Grazie, Letizia!

Nel pubblicare il comunicato stampa della Biblioteca delle Donne – Udipalermo, la Redazione locale di Pressenza si associa nel ricordo di Maria Letizia Colajanni, figura intellettuale storica dell’antifascismo palermitano e militante femminista e comunista impegnata nelle tante battaglie della sinistra contro tutte le forme di sfruttamento e le diseguaglianze, che ha sempre saputo coniugare pensiero critico e capacità d’azione [RedPA]

M.Letizia Colajanni non è più con noi. Da giugno stava male e temevamo questo momento. Un altro pezzo di storia di questa città va via lasciando un segno indelebile. Letizia aveva un cognome importante, impegnativo, di cui andava fiera. Una famiglia storica di democratici, comunisti, antifascisti impegnati fin da inizio ‘900 per la libertà, la giustizia sociale e il riscatto della Sicilia.

Ricordava quando bambina aiutava la madre che con Anna Nicolosi Grasso e Lina Caffaratto Colajanni, le formidabili donne dell’UDI di Palermo, confezionava i pacchi per le famiglie povere con i prodotti forniti da un’organizzazione delle Nazioni unite istituita per aiutare le popolazioni colpite dalla guerra.

É cresciuta nutrendosi di rigore intellettuale e di impegno, consapevole di essere parte di un noi, la società, che esige attenzione, partecipazione attiva, soprattutto se vogliamo lottare contro ingiustizie, soprusi, sfruttamento. Era convinta che si debba fare tutto ciò che sta nelle nostre possibilità per affermare la dignità di ogni essere umano e migliorare la società.

Essere al mondo implica assumersene senza alibi la responsabilità. La sua instancabile attività politica si caratterizzava per una pratica che coniugava sapientemente pensare e fare. Era la prima ad arrivare e l’ultima ad andare.

Pensare a M.Letizia fa venire in mente “Comporre una vita”, il bel libro di Mary Catherine Bateson. Lei riusciva, senza mai perdersi d’animo, con destrezza e armonia, come solo le donne sanno fare, a mettere insieme tante cose, differenti ma tutte egualmente importanti per lei. Molto legata al marito, Saverio Madonia, madre di tre figli, docente, preside, per anni impegnata nel PCI e nella CGIL, consigliera provinciale, dopo la pensione attiva militante e dirigente nell’ANPI Sicilia e nazionale.

E ancora brava tessitrice di relazioni, ospite affabile, ottima cuoca, pronta a dare le sue ricette e a suggerire consigli. Per questo ricordata da più parti. Una donna generosa, solidale, di grande intelligenza e di rigore morale che aveva una qualità oggi rara: sapere ascoltare.

Una donna che inseriamo con orgoglio nella tradizione di donne siciliane forti e coraggiose che hanno segnato positivamente la nostra storia e che noi donne di Udipalermo ci impegniamo a fare conoscere alle più giovani perché possano trarne nutrimento morale e intellettuale.

Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale – Udipalermo ETS

Redazione Palermo

Manifestazione a Cagliari: siamo tutti antifascisti

Promosso dal coordinamento antifascista cagliaritano ATZIONI ANTIFASCISTA DE CASTEDDU un corteo di alcune centinaia di persone ha percorso le vie del capoluogo sardo, ritmando lo slogan: SIAMO TUTTI ANTIFASCISTI!

L’iniziativa è nata fra gli studenti, nelle università, ma anche nelle scuole superiori e ne è la riprova la nutrita partecipazione di giovani. Perché, raccontano in prima persona, sono soprattutto i giovani ad essere più esposti alle intimidazioni fasciste nelle scuole, quelle stesse scuole pubbliche che vorrebbero instradarli verso il militarismo grazie ai progetti delle Forze Armate, nelle aule e poi nelle caserme. Tra l’altro in città si sono recentemente registrati alcuni episodi di aggressione a studenti ed attivisti, da parte di gruppi di estrema destra.

Uno studente al microfono ha voluto ricordare i motivi della manifestazione e ha voluto ricordare l’anarchico sardo Franco Serantini, ucciso dalla polizia durante una manifestazione a Pisa nel 1972, di cui scrisse Corrado Stajano nel libro “Il sovversivo”. Passato e presente, uniti dal filo dell’antifascismo. Erano presenti anche i sindacati di base, i nonviolenti, gli anarchici, le associazioni palestinesi, che hanno ricordato che Gaza e tutta la Palestina sono tutt’ora sotto minaccia di genocidio.

La presenza della sede di Casa Pound, formazione che si richiama al fascismo, in una strada adiacente al percorso, ha portato le forze dell’ordine a schierarsi in tenuta antisommossa e a blindare letteralmente le strade, impedendo l’afflusso anche ai passanti. Uno spiegamento di forze plateale, che è eufemistico definire eccessivo, che ha condizionato il clima interno al corteo, nonché gli spostamenti dei semplici pedoni. Ci domandiamo se una simile solerzia da parte degli apparati dello Stato potremo riscontrarla anche davanti alle aggressioni neofasciste. Ma gli antifascisti cagliaritani hanno dimostrato grande maturità, non accettando provocazioni e marciando uniti fino a piazza Costituzione. Già, quella costituzione nata dall’antifascismo e dalla resistenza, mai davvero realizzata e sempre meno applicata.

Il corteo di sabato 22 febbraio a Cagliari, è servito anche a ricordare che l’antifascismo ci deve accomunare, in un momento storico in cui c’è un triste e drammatico ritorno ad ideologie suprematiste.

Carlo Bellisai

Cosa succede se l’Ucraina va a nuove elezioni?

La complicità politica tra Trump e Zelensky – se mai ci fosse stata – sembra essere giunta al capolinea dopo le dichiarazioni del presidente americano secondo cui Zelensky sarebbe un dittatore con un tasso di approvazione intorno al 4%, reo di non voler convocare nuove elezioni.

Predire con certezza cosa avverrà nel prossimo futuro è pressoché impossibile.
Tuttavia, le iniziative dei vari attori coinvolti possono darci un’idea di ciò che è probabile che succeda.

Perché si è tornati a parlare di elezioni?

Il tema della legittimità del presidente ucraino è stato riproposto dopo che il mandato di Zelensky è scaduto a maggio dello scorso anno.

La costituzione ucraina, tuttavia, impedisce lo svolgimento delle elezioni durante la durata della legge marziale, motivo per cui l’attuale presidente è rimasto in carica – legalmente – oltre scadenza.

Perché, dunque, la posizione di Zelensky rimane un nodo da sciogliere? Le motivazioni sono varie.

Innanzitutto, bisogna ricordare che il fatto che Zelensky sia in carica legalmente non significa che la sua figura goda dello stesso tasso di approvazione di due anni fa. Anzi.

Nonostante i sondaggi in tempo di guerra lascino il tempo che trovano, è evidente che il presidente ucraino non goda più della stessa, quasi unanime stima di cui ha goduto nei primi mesi dopo l’inizio dell’invasione.

Questo cambiamento è fisiologico, ed è anzi sintomo di una società che, nonostante tutto, rimane dinamica e variegata.

Lo stesso Zelensky è conscio del fatto che la legge marziale non assicura il mantenimento del consenso, come dimostrano le sue recenti iniziative in politica interna – vedi, per esempio, le sanzioni all’ex presidente Petro Poroshenko.

Per il quadro che sta piano piano delineandosi, una rielezione di Ze (il cui tasso di approvazione è ben superiore al 4% inventato da Trump) potrebbe essere l’unico vero argine ad una restaurazione russofila e possibilmente antidemocratica.

Ma per fare ciò bisogna necessariamente ottenere la vidimazione delle urne.

Tutti contro Ze?

Un altro scoglio da affrontare, è evidente, riguarda la posizione dell’attuale presidente ucraino rispetto alle trattative in corso tra Russia e Stati Uniti.

Quello di Zelensky non è mai stato un problema di legittimità democratica (e ci si potrebbe chiedere, d’altronde, quale legittimità democratica possa avere Putin), ma di legittimità all’interno del quadro negoziale.

Da una parte Mosca ha ribadito che, nonostante le recenti aperture da parte ucraina, non è disposta a trattare con Zelensky.

Una posizione che il Cremlino ha tenuto per più di un anno e sulla quale si è rivelato abbastanza intransigente, rendendo pressoché impossibile il ritorno a posizioni più concilianti – se non a costo di una grande perdita in termini di credibilità politica.

Dall’altra parte c’è un Trump desideroso di chiudere l’affare nel minor tempo possibile, garantendosi il massimo del guadagno.

Come ha scritto la testata Riddle, quello del presidente statunitense è un “blitzkrieg diplomatico“, un tentativo di chiudere la partita immediatamente, anche, se necessario, abbandonando le formalità classiche dei negoziati.

Alla luce di questa interpretazione non stupiscono le dichiarazioni “scandalose” che hanno riempito i titoli dei giornali: come in ogni contrattazione, la prima cosa che si fa è puntare più in alto possibile, ben oltre ciò che è ragionevole pensare di ottenere.

Una strategia mediatica che Trump ha avuto modo di affinare in questi primi trenta giorni del suo mandato presidenziale nelle trattative con Canada, Messico, Europa, Panama.

Il rieletto presidente – nonostante una certa intesa con Putin ci sia – non è controllato dal Cremlino, come si legge spesso su social e media.

Le sue iniziative rispondono ad una logica politica esclusivamente transazionale e imprenditoriale, e non è un caso che le sue parole siano arrivate dopo l’iniziale rifiuto dell’accordo bilaterale sullo sfruttamento delle terre rare ucraine: se Zelensky risulta essere un ostacolo alle trattative e al guadagno, va tolto di mezzo, o comunque messo di fronte al fatto compiuto.

Il futuro, d’altra parte, sembra prospettare proprio questo tipo di percorso: trattative tra Russia e Stati Uniti per un cessate il fuoco – o almeno per la definizione preliminare dei quadri negoziali; pressioni sulla presidenza ucraina per accettare la situazione, passando eventualmente dalle urne; apertura di un canale diretto tra Mosca e Kyiv per la ridefinizione di una pace più stabile, in cui la sicurezza ucraina non è affidata a Washington ma ai partner europei.

Elezioni e complicazioni

A prescindere da cosa accadrà nel prossimo futuro, è certo che il processo elettorale, anche con la fine della legge marziale, non sarà scevro da complicazioni.

Innanzitutto ci sono delle difficoltà di carattere logistico e giuridico, prima tra tutte la questione del voto nelle regioni occupate.

Dove, come e chi voterebbe?

Quali implicazioni avrebbe la presenza di seggi nel quadro della definizione giuridica di questi territori?

Un problema che si presenta anche per i milioni di ucraini che vivono all’estero, tra Europa e Russia.

Un discorso a parte meriterebbero le minacce di ingerenza russa, in qualunque forma esse si presentino. Se Mosca ha giocato un ruolo nei processi elettorali di Romania e Moldova non è difficile immaginare le sfide incontro alle quali andrà la democrazia ucraina.

Infine, c’è da aspettarsi un panorama politico ucraino diverso da quello attuale.

Se lo scontento e le divisioni si stanno già manifestando tra i vari gruppi di potere rappresentati nella Verkhovna Rada (il Parlamento), un eventuale accordo raggiunto con Mosca – qualsiasi siano le condizioni accettate – getterebbe ulteriore benzina sul fuoco.

Come dopo ogni conflitto (e analogamente a quanto successe nel 2014) sarà da monitorare l’ascesa di figure provenienti dai ranghi militari, che potrebbero contribuire a creare un clima ancor più esplosivo.

East Journal

Laika. Die Rückkehr – Il Ritorno

Riceviamo e pubblichiamo dall’ufficio stampa della street artist Laika

Roma, 24 febbraio 2025.

Questa mattina, davanti al Goethe Institut di Roma, in via Savoia, è apparsa una nuova opera della street artist Laika, intitolata “Die Rückkehr – Il Ritorno”.

Il poster raffigura Alice Weidel, leader del partito di estrema destra AfD, in uniforme nazista mentre si disegna in viso con un rossetto nero i baffi di Hitler.

Un’immagine forte che denuncia la crescita inquietante della destra estrema in Germania: AfD ha raddoppiato i voti, passando dal 10% al 20%, un segnale allarmante della crescente ondata nazionalista, razzista e xenofoba.

Un fenomeno che non riguarda solo la Germania, ma si inserisce in una più ampia deriva globale, alimentata dalla nuova amministrazione Trump-Musk, che tra saluti romani e deportazioni forzate, sta legittimando e rafforzando le ideologie suprematiste.

“La storia ci ha già mostrato dove porta questa deriva – afferma Laika –, e oggi assistiamo a un’escalation determinata non solo dall’odio, ma anche dalle disuguaglianze sociali e dalla frustrazione generata da fallimentari politiche di austerity prettamente a sostegno delle banche e dei grandi capitali, portate avanti sia dalla sinistra che dalla destra moderata.

Questo ha spinto le classi più povere a rifugiarsi nel nazionalismo estremo”.

L’artista mette in guardia sul pericolo di un ‘ritorno al passato’ – “il vero obiettivo di Weidel sono le elezioni del 2029. Bisogna impedirle di trasformarlo in un nuovo 1933.

Quest’onda nera non renderà l’Europa grande, la distruggerà. Bisogna salvare la democrazia”, conclude Laika.

Redazione Italia

Elezioni parlamentari in Germania: vince la destra, ma successo della Linke

L’Unione Cristiano-Democratica (CDU) di Friedrich Merz, partito di centro destra, ha ottenuto il 28,6% delle preferenze, mentre l’estrema destra di Alternativa per la Germania (AfD) è arrivata seconda con il 20,4%. Il Partito Socialdemocratico (SPD) dell’ex cancelliere Olaf Scholz si è fermato al 16,4%, perdendo nove punti percentuali rispetto alle elezioni precedenti, i Verdi hanno ottenuto l’11,6% (- tre punti) e i liberali non hanno superato la soglia di sbarramento del 5%, così come l’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW). L’affluenza alle urne (84%) è stata altissima.

Nel panorama delineato dalle elezioni tenutesi ieri spicca il successo della sinistra radicale, la Linke, con l’8,8% dei voti (nelle elezioni del 2021 si era fermata al 4,9%): si tratta di un segnale importante, perché la Linke ha mantenuto una posizione ferma in difesa dei migranti e del diritto d’asilo, mentre tutti gli altri partiti hanno inseguito le posizioni demagogiche e razziste dell’AfD. Ha mostrato la stessa fermezza nell’opposizione alla guerra e all’aumento delle spese militari e ha basato la campagna elettorale su temi sociali come il caro affitti, il costo della vita e la ridistribuzione della ricchezza tassando i miliardari e riducendo la pressione fiscale sul 90% della popolazione. La Linke ha inoltre avuto un ruolo importante nelle mobilitazioni antifasciste in cui migliaia di persone hanno protestato per la scelta della CDU di collaborare con l’estrema destra per l’approvazione di misure restrittive sull’immigrazione.

Queste scelte coraggiose si sono tradotte in un grande aumento degli iscritti (31.000 in più da metà gennaio) e nell’appoggio dei giovani: la Linke è stata il partito più votato dagli elettori tra i 18 e i 29 anni. Merito anche di Heidi Reichinnek, 36 anni, la candidata di punta del partito e della sua intensa attività sui social media.

Tutto questo non sminuisce la gravità dell’ennesima “onda nera” che ha portato ancora una volta al successo elettorale una formazione di estrema destra e non fa ben sperare per il futuro. Se anche l’AfD verrà esclusa dal prossimo governo, possiamo aspettarci comunque una politica guerrafondaia e razzista; ragion di più per sottolineare l’importanza di un’opposizione ferma come quella che ci auguriamo porterà avanti la Linke, in Parlamento, nelle piazze e nei territori.

 

 

Redazione Italia

Migliaia di persone protestano contro Trump e Musk in tutti e 50 gli Stati

Lunedì 17 febbraio 2025 migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in tutti gli Stati Uniti per protestare contro le misure di Donald Trump ed Elon Musk volte a smantellare radicalmente il governo federale in quello che molti hanno paragonato a un colpo di stato. Le proteste si sono svolte in tutte le capitali dei 50 Stati e in molte altre città. Molte delle proteste erano all’insegna dello slogan “Not My President’s Day”.

“Abbiamo Elon Musk e Donald Trump e i fratelli DOGE, i fratelli della tecnologia, che fanno a pezzi il nostro governo, fanno a pezzi la nostra Costituzione, ignorano lo stato di diritto. E il popolo americano deve opporsi” ha dichiarato Jay W. Walker di Rise and Resist durante una protesta a New York

A Washington, i manifestanti si sono riuniti davanti al Campidoglio e alla Casa Bianca. “Il fine non giustifica i mezzi. C’è un modo giusto e un modo sbagliato per realizzare un cambiamento e il Presidente Trump ha infranto ogni regola del cambiamento democratico appropriato nella nostra società” ha denunciato Daniel Fairholm.

Democracy Now!

Ad Acquappesa oltraggiata la targa del Samudaripen

Lunedì 29 luglio 2024, presso la sala stampa della Camera dei deputati, si svolse la conferenza stampa, per presentare la proposta di legge per far riconoscere all’Italia il Samudaripen il genocidio dei rom e sinti nel corso della seconda guerra mondiale, alla quale parteciparono: l’Onorevole Devis Dori, AVS, primo firmatario e promotore proposta di legge; Onorevole Luana Zanella capogruppo AVS; Andrea Vitello storico, scrittore che ha conseguito un diploma di perfezionamento allo Yad Vashem sulla Shoah, ha scritto vari libri e collabora con varie testate; Moni Ovadia attore, regista e scrittore; comm. dott Carla Osella presidente nazionale A.i.z.o. rom sinti direttore responsabile della rivista “Rom e sinti oggi” scrittrice di oltre 50 pubblicazioni è stata nominata presso il Parlamento di Belgrado World Roma Organization commissario internazionale del Porrajmos; Commendatore Santino Spinelli (musicista, docente universitario, scrittore). Gennaro Spinelli presidente nazionale UCRI-Unione Comunità Romanès Italia. Il Parlamento Europeo lo aveva già riconosciuto nel 2015, invitando tutti i paesi membri dell’Unione Europea a fare altrettanto. 

La proposta di legge prevede che in occasione della Giornata nazionale tutti gli enti nazionali e locali e le scuole promuovano cerimonie, convegni e altre attività volte a ricordare il genocidio dei rom e dei sinti. Il testo della proposta di legge è consultabile a questo link: https://www.camera.it/leg19/126?leg=19&idDocumento=1914 

Proprio questo 27 gennaio, in occasione del giorno della Memoria ad Acquappesa, in provincia di Cosenza, era stata posta una targa commemorativa del Samudaripen. Tuttavia  in questi giorni, come si vede nella foto, è stata vandalizzata e oltraggiata. In merito a quanto successo, l’UCRI ha diramato questo comunicato stampa:

«Egregio Comune,

Viste le recenti polemiche sfociate in vili atti di vandalismo, che hanno visto la rottura e la rimozione della targa al Samudaripen, chiediamo formalmente non solo il ripristino e la cura della targa alla Memoria ma anche che l’Amministrazione prenda una posizione di ferma condanna contro questi atti di antiziganismo.

La Comunità Romanès è profondamente addolorata per quanto accaduto. Non c’è cosa peggiore di provare a distruggere la Memoria.

Sicuri di trovare nella Vostra Amministrazione un fermo alleato, 

Vi porgiamo,

Cordiali saluti.

UCRI – Unione Comunità Romanès d’Italia».

Tutte le persone che volessero protestare per l’accaduto possono inviare una mail a protocollo.acquappesa@asmepec.it

Quanto successo dimostra ancora di più, la grande importanza di riconoscere il Samudaripen in Italia, proprio per questo la proposta di legge dovrà essere approvata ai fini di fare i conti con la storia.

 

Andrea Vitello