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Politica

Giuristi Università di Brescia: “Una stagione preoccupante per la tenuta della democrazia costituzionale in Italia”

Come docenti di materie giuridiche in un’Università pubblica, riteniamo doveroso, sul piano etico e
professionale, evidenziare alcuni tratti dell’azione dell’attuale maggioranza governativa che consideriamo allarmanti e potenzialmente lesivi della tenuta dell’ordinamento democratico delineato dalla nostra Costituzione. Ci riferiamo in particolare a due provvedimenti in discussione alle Camere che, se approvati nell’attuale formulazione, rischiano di innescare una pericolosa involuzione autoritaria del nostro ordinamento giuridico.

Il primo testo su cui desideriamo richiamare l’attenzione è il disegno di legge costituzionale in materia di
giustizia e di separazione delle carriere dei magistrati. A prescindere dal merito della riforma – che presenta numerosi profili critici che qui non possiamo esaminare in dettaglio – l’aspetto più preoccupante è il contesto in cui questa proposta si inserisce e l’obiettivo ultimo che persegue, come dichiarato apertamente dal Ministro della Giustizia (il Guardasigilli), dalla Presidente del Consiglio, e da autorevoli esponenti dell’area di governo.

Da mesi, infatti, assistiamo ad attacchi quotidiani nei confronti di magistrati che emettono decisioni non in linea con le aspettative della maggioranza politica. L’ambito dell’immigrazione – in particolare la gestione degli arrivi via mare e i centri di detenzione aperti in Albania – è emblematico: di fronte a provvedimenti amministrativi ritenuti illegittimi, la prassi consolidata consiste nell’attacco personale ai giudici, subito etichettati come “politicizzati”, tacciati di voler ostacolare la maggioranza dal realizzare appieno il proprio “vittorioso” progetto elettorale, che viene esaltato come indiscutibile mandato popolare, secondo una visione regressiva della democrazia e della rappresentanza parlamentare. Negli ultimi giorni, l’attacco alla giurisdizione ha perfino oltrepassato i confini nazionali, arrivando a coinvolgere la Corte Penale Internazionale (CPI). Il Ministro della Giustizia, di fronte all’iniziativa di espellere dal nostro Paese il membro di una milizia (sostenuta dal governo libico) sospettato di crimini contro l’umanità, ha difeso il proprio operato accusando la Corte di presunte violazioni procedurali. Il vero problema, però, non sta nella denuncia di possibili irregolarità, bensì nel fatto che il Ministro delegittimi la Corte e la sua funzione, pretendendo di sostituire il proprio giudizio a quello dell’autorità competente. Questo atteggiamento è emerso in modo evidente anche nell’intervento ufficiale al Senato, dove il Guardasigilli ha rivendicato un potere di valutazione nel merito delle decisioni della CPI, del tutto sprovvisto di fondamento normativo.

La premessa culturale dell’indirizzo politico che si intende perseguire appare molto chiara: si vuole far
credere all’opinione pubblica che il controllo di legalità operato dalla magistratura rappresenti un improprio ostacolo alla realizzazione dei progetti promossi dalla maggioranza uscita vincitrice dalle elezioni. In questa prospettiva, i/le magistrati/e vengono accusati/e di promuovere un proprio contro-obiettivo politico tutte le volte che ritengono illegittimo un provvedimento di derivazione politico-parlamentare, anziché limitarsi alla sua applicazione pedissequa. In questo schema argomentativo, piuttosto rozzo e semplificato, spariscono del tutto i previsti poteri di garanzia affidati alla Corte costituzionale alla quale invece i/le giudici, prima di applicarle, devono sottoporre le leggi che reputino in contrasto con la Costituzione. Analogamente si ignora – clamorosamente – l’ormai acquisita prevalenza, stabilita sul terreno costituzionale, del diritto europeo e internazionale sul diritto interno, che pacificamente non può trovare applicazione in sede giurisdizionale laddove contraddica norme di rango sovranazionale.

Ecco perché appare paradossale e distorsivo evocare la separazione delle carriere dei magistrati ordinari
addirittura come salvifico correttivo dell’ordinamento, ogniqualvolta un/a magistrato/a assuma una
decisione sgradita agli esponenti di governo: così connotando di un chiaro intento punitivo la riforma
costituzionale, che viene presentata come la soluzione ad una patologica ingerenza di una parte influente
della magistratura nel campo della politica. In qualità di studiosi/e di discipline giuridiche, un tale disegno ci appare in tutta la sua chiara pretestuosità e ci sembra pericoloso poiché in grado di veicolare, camuffandola, una oramai superata visione ottocentesca e pre-costituzionale dei rapporti tra poteri dello Stato, nella quale l’attività legislativa e, in generale, la regolamentazione della societas è concepita come libera da vincoli sovraordinati, segnatamente di natura costituzionale. E invece l’elemento essenziale degli ordinamenti democratici moderni è proprio quello di garantire, attraverso norme costituzionali rigide, la separazione del controllo giurisdizionale dall’esercizio del potere politico, al fine di meglio favorire, in concreto, il rispetto dei diritti fondamentali della persona che non sono più nella disponibilità di chi, pur legittimamente, detiene lo “scettro del comando”.

Il secondo provvedimento che reputiamo incompatibile con i principi di uno Stato costituzionale di diritto è il cd. disegno di legge Sicurezza, già approvato in prima lettura al Senato. Anche in questo caso non abbiamo qui lo spazio per entrare nel merito delle singole misure proposte, che hanno come cifra identificativa l’inasprimento degli strumenti di repressione del dissenso, sino al punto di arrivare a punire con la sanzione penale forme di protesta non violenta, come i blocchi stradali, o addirittura la resistenza passiva, nei casi di proteste all’interno delle carceri o dei luoghi di detenzione per stranieri. Per quanto poi riguarda direttamente il mondo dell’Università, desta gravissima preoccupazione il disposto dell’art. 31 del d.d.l, secondo cui i servizi di informazione, a tutela della “sicurezza nazionale”, potranno chiedere informazioni sulle attività di studenti e docenti, in deroga alla normativa a tutela della privacy e della protezione dei dati sensibili.

Da un lato, quindi, con le continue aggressioni mediatiche ai magistrati che assumono decisioni non gradite e con il progetto di separazione delle carriere, che mira a disgregare l’unità della magistratura ordinaria (in realtà ci si preoccupa solo della giustizia penale), si vuole polemicamente e primariamente punire la magistratura inquirente, impedendole di esercitare un controllo di legalità a tutto campo, inclusa la verifica sulla possibile commissione di reati ministeriali da parte degli esponenti del Governo; dall’altro lato, con le norme che reprimono il dissenso, si vogliono intimorire coloro che si oppongono a tali misure, rafforzando come mai prima nella storia della Repubblica gli strumenti repressivi dei movimenti di protesta.

La Storia (anche quella meno risalente) ci insegna che è proprio a partire dal contrasto alla magistratura e alla libera espressione del dissenso che prendono avvio le svolte in senso autoritario. Come cittadini/e, ma soprattutto come giuristi/e che incrociano e formano studenti/esse universitari/e, sentiamo il dovere di segnalare all’opinione pubblica la gravità del progetto che sta iniziando a prendere consistenza e di mettere le nostre competenze tecniche a disposizione delle associazioni e dei movimenti che intendano opporsi, innanzitutto sul piano culturale, a questa dilagante regressione giuridica, restando sempre disponibili a ragionare nel merito delle proposte avanzate da qualsiasi parte politica, ma anche saldamente ancorati al costituzionalismo democratico occidentale e alle sue conquiste culturali, che è nostro dovere non rinnegare né per moda né per paura di dispiacere il contingente potere politico.

Brescia, 15.2.2025

Un gruppo di docenti di materie giuridiche dell’Università di Brescia (29 firmatari su 62)
Proff.

Antonio D’Andrea, diritto costituzionale
Luca Masera, diritto penale                                                                                                                                              Cristina Alessi, diritto del lavoro
Adriana Apostoli, diritto costituzionale
Rosanna Breda, diritto privato
Margherita Brunori, diritto agrario
Arianna Carminati, diritto costituzionale
Daniele Casanova, diritto costituzionale
Chiara Di Stasio, diritto internazionale
Matteo Frau, diritto pubblico comparato
Elisabetta Fusar Poli, storia del diritto
Mario Gorlani, diritto costituzionale
Massimiliano Granieri, diritto privato comparato
Giulio Itzcovich, filosofia del diritto
Stefano Liva, diritto romano
Nadia Maccabiani, diritto costituzionale
Francesca Malzani, diritto del lavoro
Loredana Mura, diritto internazionale
Federica Paletti, storia del diritto

Paola Parolari, filosofia del diritto
Luca Passanante, diritto processuale civile
Andrea Perin, diritto penale
Marco Podetta, diritto costituzionale
Susanna Pozzolo, filosofia del diritto
Luisa Ravagnani, criminologia
Fabio Ravelli, diritto del lavoro
Carlo Alberto Romano, criminologia
Giovanni Turelli, diritto romano
Laura Zoboli, diritto commerciale

Redazione Sebino Franciacorta

Partito Comunista Venezuelano: “Parteciperemo alle elezioni del 25 maggio a fianco della Rivoluzione Bolivariana”

La direzione nazionale del Partito Comunista Venezuelano  smentisce categoricamente che la nostra organizzazione politica non parteciperà alle prossime elezioni del 25 maggio, in cui verranno eletti i deputati dell’Assemblea nazionale, dei governatorati e dei consigli legislativi.

Condanniamo il fatto che coloro che svolgono la funzione di leader della nostra organizzazione, il cui capo visibile è Oscar Figuera, utilizzino i simboli della nostra organizzazione per dire al popolo venezuelano e al mondo “che il Partito Comunista del Venezuela non parteciperà al prossimo processo elettorale”. Questo gruppo guidato da Oscar Figuera e dai suoi complici è stato espulso per essersi allineato all’estrema destra venezuelana e per aver condiviso il discorso dell’imperialismo nordamericano -USA-, nell’obiettivo di rovesciare il governo rivoluzionario del compagno operaio Nicolás Maduro.

Oggi più che mai, i comunisti di questa Patria di Bolívar e Chavez, ribadiamo il nostro impegno con la Rivoluzione Bolivariana e Chavista e saremo uniti in un unico blocco unitario attraverso il Grande Polo Patriottico Simon Bolivar nella ricerca di una Vittoria perfetta il 25 maggio, per continuare a garantire con i legislatori rivoluzionari, la costruzione delle leggi necessarie per la trasformazione della nostra Patria, per continuare a creare le condizioni per una Società Socialista, che garantisca al nostro popolo e in particolare alla classe operaia e contadina, la maggior somma possibile di felicità.

Mettiamo in guardia il movimento rivoluzionario dell’America Latina e del mondo dal farsi ingannare da coloro che oggi camminano mano nella mano con i settori fascisti in Venezuela. La storia ha dato ragione a coloro che hanno deciso di salvare il nostro glorioso Partito Comunista.

Oggi il nostro Partito è dove è sempre dovuto essere, accanto alla Rivoluzione Bolivariana, accanto al nostro popolo chavista.

Venezuela 20 febbraio 2025

DIREZIONE NAZIONALE DEL P.C.V.
ENRICO PARRA – PRESIDENTE DEL P.C.V.

(da Dario Rosso, inviato a Caracas del Comitato Italia-Venezuela Bolivariano)

Redazione Italia

Un inquietante nuovo mondo

“Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Parole scritte in carcere un secolo fa da Antonio Gramsci che di nuovo oggi appaiono profetiche. I mostri spuntano come funghi nel Nuovo come nel Vecchio Mondo e si stanno impossessando del pianeta. L’Unione Europea mostra la sua inconsistenza di fronte alle guerre che impazzano al suo interno sul fronte orientale e di fronte a essa sulla costa meridionale del Mediterraneo; una terza guerra, forse la più feroce, ha per target il popolo migrante. Le sinistre, incapaci di elaborare un progetto alternativo al neoliberismo e ai nazionalismi guerrafondai gestiti da oligarchi multimiliardari, battono in testa, sbandano, abdicano perdendo per strada la loro ragion d’essere. Qualche timido segnale positivo in una Germania che vira paurosamente a destra arriva dall’ottimo risultato della Linke, capace di coniugare questione sociale, opposizione alla guerra e solidarietà con i migranti. Mentre Gaza muore e i palestinesi sono vittime di un genocidio, in Ucraina un intero popolo è costretto da tre anni a combattere una guerra voluta dagli Stati uniti, pagata dall’UE e messa in essere dalla Russia.

Il pacifismo nel mondo è rauco, gli organismi mondiali tacitati, solo una voce autorevole si è alzata contro la guerra, quella di Papa Francesco, autorevole quanto inascoltato per una frase impietosa che ha squarciato il silenzio denunciando la Nato, andata “ad abbaiare alle porte della Russia”. Ha scritto il politologo inglese Richard Sawka: “L’esistenza della Nato si giustifica col bisogno di gestire le minacce provocate dal suo allargamento”. E mentre il neoeletto Trump, circondato dai saluti romani dei suoi miliardari, apre un dialogo ambiguo e prepotente con il guerrafondaio Putin per fare cessare quella guerra sanguinosa (magari per iniziarne un’altra più cogente contro la Cina), le sedicenti democrazie occidentali gridano allo scandalo.

Il sociologo Marco Revelli trova parole convincenti: “Abbiamo due grandi ex potenze imperiali, Russia e Usa, una declinata e una declinante, entrambe però con un arsenale nucleare capace di distruggere il pianeta. Dopo un periodo sciagurato di contrapposizione totale, hanno deciso di parlarsi”; Trump e Putin, aggiunge, “sono due criminali, se si scontrassero produrrebbero un conflitto devastante, quindi meglio che dialoghino piuttosto che confliggere”.

L’idea di uno stop alla guerra in Ucraina non dispiacerebbe, sotto sotto, anche alle destre italiane e non solo ai leghisti da sempre legati a Mosca, da cui hanno incassato almeno 49 milioni di euro, ma persino ai più appassionati sostenitori di Zelensky. Dice il Ministro all’Ambiente e Risorse Energetiche, il forzitaliota Gilberto Pichetto Fratin: “Fatta la pace si torna al gas russo”. Più che l’onor poté il digiuno, il gas che ci costava 20 euro al megawattora, con la guerra lo compriamo dagli Usa a 60 euro, ed è istruttivo che siano bastate le prime avvisaglie dell’accordo trumpiano per riportarlo sotto i 50 euro. Sempre troppo per l’Italia, dove continua la caduta della produzione industriale e dei già miseri salari, mentre riparte l’inflazione e i contratti di lavoro non vengono rinnovati.

In questo inquietante chiaroscuro, i neofascismi e i neonazismi prima emarginati nelle periferie dell’UE oggi fioriscono nel cuore del continente, dalla Francia alla Germania. In Italia governano e dettano legge, lo scettro è in mano a Giorgia Meloni sostenuta da un Salvini alla ricerca ossessiva di uno strapuntino alla corte dei tiranni e un Tajani postberlusconiano pronto a genuflettersi alla corte della donna sola al comando in cambio dello smantellamento del sistema giustizia. Meloni tenta di barcamenarsi tra Washington e Bruxelles, sempre più sbilanciata verso il nuovo corso Usa pur non potendo abbandonare del tutto i privilegi che le derivano dal feeling con Von der Leyen e riducono l’impatto negativo dovuto alle politiche spregiudicate e xenofobe, ma in fondo in fondo condivise da mezza Europa, sull’immigrazione (le deportazioni in Albania contestate dalla Corte europea per i diritti umani, i patti scellerati con la Libia, fino alla violazione del mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte dell’Aia per il torturatore e assassino Almasri, riportato a Tripoli con tutti gli onori).

Meloni, nano tra i giganti, tenta penosamente di accreditarsi come pontiere fra Trump e gli interessi europei, spiegando al primo che bisognerebbe evitare l’arma atomica contro Bruxelles e all’UE che sotto sotto Trump ci ama. Nessuno le crede, ma a Washington fa comodo una quinta colonna in Europa e i nuovi padroni degli Usa sono disposti ad applaudirla quando interviene, sia pure da remoto, all’assemblea dei conservatori americani dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Più che le parole della premier italiana conta la sua presenza, a differenza del leader dei neofascisti francesi che ha abbandonato l’adunanza a seguito del saluto romano dell’ideologo di Maga Steve Bannon. In Francia, a chi come i lepenisti aspira a governare conviene andarci piano con il tifo per i nazisti, e Marine non è Jean Marie. Evidentemente, in Italia il tabù del fascismo è già caduto.

Salvo ripensamenti, Giorgia Meloni, che pure di fronte ai saluti romani e alle motoseghe argentine aveva citato la lotta del popolo ucraino senza nominare la Russia, è pronta a votare all’Onu insieme a Mosca e Washington una risoluzione trumpiana che prepara la strada a un accordo sull’Ucraina senza Ucraina e senza UE. Ma per non smentirsi ne voterà anche un’altra di segno opposto che denuncia l’invasione dell’Ucraina e chiede il ritiro della Russia dai territori occupati. Solo su un punto Giorgia Meloni può rivendicare l’unità d’intenti tra Roma, Bruxelles e Washington: il micidiale riarmo generale con soldi inevitabilmente sottratti allo stato sociale, alla sanità e all’istruzione, che in Europa raccontano in funzione di una maggiore autonomia dall’America dei dazi. In realtà, il minacciato raddoppio della spesa in armi, fatto da ogni singolo Paese visto che l’UE non è un’entità politica, con missili e droni comprati dagli Usa aumenterebbe non l’autonomia ma la dipendenza. E già ora l’UE spende per la difesa il 58% in più di quanto spenda Putin, 730 miliardi contro i 461 della Russia.

In uscita sul mensile svizzero Area

Redazione Italia

La minaccia radioattiva incombe ancora sulla testa dei Sardi

Contro il pericolo Scorie Nucleari in Sardegna
LA MINACCIA RADIOATTIVA INCOMBE ANCORA SULLA TESTA DEI SARDI

Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin tiene ancora la spada di Damocle, reattiva, sulla Sardegna. La fase di scoping, quella fase che secondo il ministro serve per imbonire gli indigeni sardi e convincerli che le ingannevoli perline date in cambio sono un compenso adeguato per permettere che la Sardegna diventi la pattumiera radioattiva dell’Italia, scadrà il 27 febbraio 2025. Era stata rinviata di ulteriori 30 giorni. La prima scadenza fissata per il 26 dicembre 2024 era stata spostata di 30 giorni e doveva scadere il 26 gennaio 2025 ma con la nuova proroga la scadenza sarà a fine febbraio.

Questa azione coloniale si aggiunge all’atto d’imperio del 2023, contenuto nell’ Art.11 – Comma 6bis – DECRETO-LEGGE 9 dicembre 2023, n. 181 «6-bis. ( Misure urgenti in materia di infrastrutture per il decommissioning e la gestione dei rifiuti radioattivi).

Alla scadenza della fase di scoping, il 27 febbraio, nella quale i comuni interessati e le regioni potevano fare osservazioni in merito alla valutazione ambientale strategica, VAS, la Sogin S.p.A. avrebbe dovuto avviare con le regioni e gli enti locali delle aree incluse nella CNAA medesima, nonché’ con il Ministero della difesa in relazione alle strutture militari, trattative bilaterali finalizzate all’insediamento del Parco tecnologico.

Tale atto era chiaramente dettato dalla volontà di imporre le scorie radioattive alla Sardegna che abbonda di servitù militari e dunque di possibili siti per il Deposito Unico delle Scorie.

Siccome nessun comune sardo, individuato come sito idoneo per il deposito dei vostri veleni, si è autocandidato o lo farà entro la scadenza, manderanno all’aria, tutte le carte della Sogin, le lunghe consultazioni, gli anni di palleggio finto scientifico e giocheranno la carta delle servitù militari pretendendo da loro l’autocandidatura ad ospitare gli escrementi radioattivi della follia nucleare tricolore?

Abbiamo capito il vostro scellerato ragionamento, caro ministro e cara Sogin, quegli escrementi vanno allontanati dalla vostra bella Italia, non intonano con la Cappella Sistina e con la cupola del Bernini, vanno portati nella discarica coloniale dello stato, lì dove avete smaltito i fumi di acciaieria, l’amianto della Riversa, li dove lasciate l’uranio impoverito delle vostre simulazioni di guerra e dove scrivete il destino di morte di coloro che ucciderete con le bombe che con il ricatto occupazionale fabbricate in Sardegna.

Sappiate che così non sarà, quelle vostre scorie in Sardegna non entreranno perché, SIAMO PRONTI A TUTTO, i sardi hanno detto no, sono andati alle urne per dirlo in modo più chiaro e forte, e non permetteranno che il loro territorio sia compromesso, per sempre, dalle scorie delle vostre scellerate scelte radioattive come non permetteranno di essere bardanati dagli speculatori dell’energia eolica e solare ai quali avete aperto le porte della nostra terra.

AJO’, BARDIANIA

Il Comitato è pronto a riproporre le NONUCLE-DIE nelle piazze, nei porti e negli aeroporti della Sardegna
chiama il popolo sardo ad una prima mobilitazione in difesa di quanto ha già deciso, del proprio territorio, del proprio destino e del futuro dei propri figli.

SIT-IN il 7 marzo 2025 alle ore 10.30

Portici sede Consiglio Regionale della Sardegna, Via Roma 25, Cagliari

Coordinamento NONUCLE-NOSCORIE – Tel. 3487815084 – 3477255895
Email nonuclenoscorie@gmail.com                                                                      Sardigna 24/02/2025

 

Redazione Sardigna

Gli Stati Uniti abbandonano la globalizzazione tanto promossa

Appena entrato in scena in veste di presidente, Donald Trump si è subito dato da fare per concretizzare la missione che si era autoassegnata, ovvero quella di sovvertire diversi aspetti dello status quo. In un vortice incessante di atti e dichiarazioni, non ha perso tempo a perseguitare ciò che non gli piaceva, andando anche contro corrente rispetto alle opinioni più in voga. Partendo dall’ambito sociale fino ad arrivare a quello “culturale”, la ricerca dell’effetto è il marchio di fabbrica di quest’uomo che, appartenente al mondo dello spettacolo e degli affari, a un certo punto ha deciso di virare verso la politica. Tralasciando il modo di fare del personaggio, c’è da dire che questa marcia indietro solleva importanti questioni rispetto alla congiuntura attuale e agli orientamenti futuri. Di particolare rilevanza appare il dossier economico, nel cuore del quale risiede il problema della globalizzazione.

La globalizzazione in affanno

Oggetto di culto, dogma indiscutibile da quarant’anni, oggi la globalizzazione non gode certo di ottima salute. I suoi difetti sono visibili a occhio nudo. Degli aspetti negativi si dibatte ormai apertamente e nel frattempo si cercano alternative. Una decisione, che solo qualche tempo fa sarebbe stata impensabile, talmente l’influenza dell’ideologia neoliberale era potente, quasi soffocante, mentre oggi l’idea della deglobalizzazione o de-mondializzazione non appare più un’eresia. Ormai, persino i dirigenti politici ed economici occidentali, da sempre paladini del neoliberalismo, la tollerano, pur mantenendola a una certa distanza. Non spargono ancora la voce, ma non la mettono nemmeno all’indice delle idee proibite. Non li abbiamo forse sentiti evocare la re-industrializzazione che va contro la delocalizzazione, la diversificazione, gli accordi regionali e il reshoring o il friendshoring, o un ripiegamento verso blocchi di partner ristretti e compatibili, che sarebbero anche alleati politici? In entrambi i casi, siamo di fronte al contrario della globalizzazione, fino a poco tempo fa tanto sbandierata. Si tratterebbe di un ritorno alla produzione nazionale, alla frammentazione dell’economia mondiale, agli ostacoli che si frappongono ai flussi commerciali internazionali e allo sgretolamento dell’ordine neoliberale che tutta la politica occidentale a partire dal 1945, e poi nuovamente dal 1980, era concepita per far cadere.

La classe dirigente mondiale, le élite internazionali, i partecipanti ai forum di Davos, sono lontani dal rinunciare alla globalizzazione. Continuano ad esserne i cantori e non nascondono la loro disapprovazione nei riguardi di Trump, delle sue buffonate e dei colpi inferti contro la globalizzazione. Ma, al di fuori di questi ambienti, il dubbio serpeggia e la deglobalizzazione non è più un’ipotesi da cancellare con un colpo di spugna.

Le cause della disaffezione

I lavoratori dei Paesi che subivano la deindustrializzazione avevano capito che erano loro a dover pagare il prezzo di questa globalizzazione neoliberale: rafforzamento della divisione internazionale del lavoro, “esternalizzazione” della produzione, abolizione di lavori relativamente stabili, disoccupazione, precarizzazione, minaccia degli stili di vita, abbassamento dei salari, indebitamento per compensare i guadagni persi e provvedere ai bisogni primari. Le aree industriali, polmoni delle economie di tutto il mondo, diventavano aree sinistrate.

L’euforia regnava nei centri d’affari, nei governi e tra i teorici del neoliberalismo. Poi, un fulmine a ciel sereno screditò la globalizzazione e indebolì l’economia mondiale: la crisi dei subprime e il fallimento di Lehman Brothers del 2008. Il mondo era a un soffio da una depressione molto simile per gravità a quella degli anni Trenta. A causa delle interconnessioni tra i vari Paesi, dell’apertura degli istituti finanziari (banche, borse e compagnie assicurative), della deregolamentazione della finanza (che portava a mille e un derivato) e del ritiro degli Stati voluti dalla globalizzazione, la crisi finanziaria, nata negli Stati Uniti, ha avuto in realtà ripercussioni in tutto il mondo.

A quel punto, i danni della globalizzazione e i pericoli che provocava alle economie e alle società apparvero chiari. Le promesse di prosperità divennero imminente rischio di povertà. Se da un lato il peggio è stato scongiurato, e solo per un pelo, dall’altro la globalizzazione neoliberale e l’ideologia alla base della stessa sono andate via via perdendo il proprio lustro. Milioni di famiglie e cittadini delle classi meno abbienti, oltre che tanti piccoli imprenditori, si sono impoveriti o in alcuni casi hanno addirittura perso tutto. La rabbia montò negli Stati Uniti.

È questo il sentimento che Trump ha intercettato e ha cercato di canalizzare durante tutta la campagna elettorale per le presidenziali del 2016. Trump parlava di un rifiuto della globalizzazione, quando ancora nessuno ne aveva fatto cenno negli ambienti ufficiali. Nel 2025, la linea è la stessa: riportare le aziende e i posti di lavoro negli Stati Uniti, proteggere la produzione americana contro la concorrenza straniera, rendere l’economia nazionale meno dipendente dall’estero. In questo non era riuscito durante il mandato 2017-2020 e non sappiamo se ci riuscirà in quello 2025-2028.

Alcuni attribuiscono alla pandemia da COVID-19 la messa in discussione della globalizzazione. L’urgenza di disporre di vaccini e mascherine ha fatto emergere le difficoltà logistiche dell’approvvigionamento (di valore) lontani, da qui il progetto di una sovranità sanitaria. Altri sostengono che il conflitto in Ucraina e più ancora le “sanzioni” contro la Russia abbiano frammentato l’economia mondiale e posto l’accento sui fattori di sicurezza, in particolare l’importanza di non dipendere dalle importazioni per i bisogni energetici primari. Si tratta certamente di ragioni valide, ma bisogna anche considerare le ragioni geoeconomiche e geopolitiche.

Una globalizzazione neoliberale che delude i suoi stessi fondatori

Il modello della globalizzazione neoliberale asimmetrico si sta sgretolando. Questo modello prevedeva una struttura verticale e gerarchica: gli Stati Uniti in cima, alcuni Paesi sviluppati nel mezzo e una maggioranza costituita da Paesi produttori alla base. Con il dollaro americano, che diventa, de facto, valuta di riserva internazionale, gli Stati Uniti potevano dettare legge in tutto il mondo e accrescere la propria ricchezza a costi bassi o vicini allo zero. È il modello dell’imperialismo contemporaneo.

Tale struttura non è stabile, dal momento che è stata rimessa in discussione dallo sviluppo economico mondiale. La prova lampante è l’emergenza folgorante della Cina, che doveva rimanere un subappaltatore delle aziende straniere e che invece è riuscita a conservare la propria indipendenza, a svilupparsi in quanto economia nazionale e a far uscire dalla povertà centinaia di milioni di cinesi. La Cina non solo ha superato il sottosviluppo ereditato nell’epoca coloniale e nel “secolo dell’umiliazione”, ma in tempi record è diventata un Paese sviluppato, all’avanguardia nel settore dell’alta tecnologia. Un risultato che gli Stati Uniti non avevano previsto né auspicato. La Repubblica Popolare Cinese è riuscita a sfuggire al controllo americano e ad approfittare di una globalizzazione, che era nata per favorire gli Stati Uniti e che doveva relegarla a un ruolo subalterno. Il colosso asiatico è attualmente la prima economia mondiale a parità di potere d’acquisto (23.000 miliardi di dollari US), è una concorrente degli Stati Uniti (20.000 miliardi) e un ostacolo al loro dominio mondiale.

I successi cinesi, registrati nell’ambito stesso della globalizzazione neoliberale, inducono gli Stati Uniti a rimettere in discussione la Cina attraverso politiche di deglobalizzazione. Essi tendono, quindi, a sventrare una creazione, di cui hanno goduto, ma che ha portato benefici non solo a loro. Per questo motivo, i discorsi a difesa della globalizzazione e del libero scambio vengono scartati quando non coincidono più con gli interessi dei promotori. È bizzarro sottolineare che ormai è la Cina a incarnare il ruolo di difensore della libertà degli scambi e della globalizzazione, sostegni essenziali di questo Paese esportatore.

Deglobalizzazione o riglobalizzazione?

Se gli Stati Uniti, dal canto loro, mettono a repentaglio la globalizzazione per ritrovare il proprio potere, è lecito chiedersi da cosa questa verrà sostituita. I blocchi economici sono una formula evidente, ma transitoria. La produzione è oggi di livello mondiale (giacimenti di materie prime, portata dei mercati, dimensione delle aziende, economia di scala); i blocchi sono troppo piccoli. Attraverseremo una fase di destrutturazione dell’economia mondiale, durante la quale gli attori ridefiniranno il proprio ruolo e i propri rapporti, prima che una nuova globalizzazione prenda forma. Per trovare un precedente, bisogna tornare al periodo tra le due guerre, tra la globalizzazione prima del 1914 e quella dopo il 1945. Questo periodo di rimaneggiamento e di riorganizzazione corrisponde anche alla riconfigurazione geopolitica del mondo e il suo passaggio dall’unipolarità alla multipolarità. Questi processi sono paralleli e conflittuali.

La globalizzazione liberale è sempre stata gerarchica. La Gran Bretagna era considerata l’«atelier del mondo» nel XIX secolo. Gli Stati Uniti hanno dominato l’economia mondiale a partire dal 1945, e ancora di più con la globalizzazione neoliberale nata nel 1980. La globalizzazione neoliberale americanocentrica, ovvero la forma attuale dell’imperialismo, non si è ancora estinta e gli Stati Uniti hanno ingaggiato un conflitto mondiale contro la Cina e la Russia per poter continuare con essa. Ma abbiamo ragione di credere che questo tentativo risulterà vano e che l’egemonia statunitense volge al termine. La de-dollarizzazione è un fatto ineluttabile e il dollaro potrà essere rimpiazzato da un’unità di valore basata sulle divise nazionali, come quella prevista in seno al BRICS. La globalizzazione del futuro sarà dunque orizzontale, multilaterale e, eventualmente, non fondata sul liberalismo economico in un ordine mondiale multipolare? Solo il tempo ce lo dirà.

Traduzione dal francese di Ada De Micheli. Revisione di Maria Sartori.

Samir Saul - Michel Seymour

La volpe, l’uva e il debito pubblico

Ogni mese la Banca d’Italia pubblica un report statistico intitolato “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”. Nel numero di febbraio 2025 si possono leggere i dati del 2024 e si possono confrontare con gli anni precedenti. Il risultato è allarmante, perché il debito netto delle pubbliche amministrazioni negli ultimi tre anni è aumentato di 83 miliardi di euro nel 2022, 104 miliardi di euro nel 2023 e 110 miliardi di euro nel 2024.

È interessante notare come il debito pubblico sia quasi totalmente relativo alle amministrazioni centrali (per oltre il 97% del totale), mentre le amministrazioni locali (regioni, province, città metropolitane, comuni) abbiano un debito ridotto (meno del 3% del totale). Inoltre, mentre il debito dello Stato aumenta, quello degli enti locali diminuisce: nel 2022 era di 88 miliardi di euro, nel 2023 era sceso a 85 miliardi e nel 2024 è calato a 82 miliardi di euro.

I rappresentanti dell’attuale governo di solito cercano di evitare di confrontarsi con i dati reali del debito pubblico, poiché sono visti come un intralcio alla narrazione sulle magnifiche sorti dello “stivale”, che camminerebbe spedito verso la crescita. Quando sono costretti a non ignorare il problema, le risposte dei principali leader politici prendono due strade divergenti. Alcuni cercano di rassicurare, sostenendo che comunque il debito è sotto controllo e in realtà non costituisce un vero problema per i cittadini. Altri danno la colpa dell’aumento del debito ai governi precedenti, che avrebbero lasciato dei buchi nel bilancio pubblico.

Viene alla mente una famosa favola di Esopo: «Una volpe affamata, come vide dei grappoli d’uva che pendevano da una vite, desiderò afferrarli ma non ne fu in grado. Allontanandosi però disse fra sé: “Sono acerbi”. Così anche alcuni tra gli uomini, che per incapacità non riescono a superare le difficoltà, accusano le circostanze».

Resta il fatto che dopo due anni e mezzo di politiche economiche e fiscali del governo attuale, il debito pubblico continua inesorabilmente ad aumentare sia in valore assoluto sia in relazione al Prodotto Interno Lordo. L’Osservatorio Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica ha calcolato che «il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (PIL) è a fine 2024 del 136,3% (contro il previsto 135,8%) e, a fine 2025, del 138,4% (contro il previsto 136,9%), 34 miliardi e 1,5 punti percentuali in più del previsto. Queste variazioni non sono irrilevanti rispetto agli obiettivi di finanza pubblica».

Se alziamo lo sguardo oltre i confini del Paese, la visione non migliora. Infatti, tra i Paesi europei soltanto la Grecia ha un rapporto più elevato tra debito/PIL ed è comunque considerata una nazione più affidabile per la restituzione del debito, dato che ha tassi di interesse inferiori a quelli applicati al debito italiano.

Un governo responsabile di fronte a questi dati dovrebbe essere molto preoccupato per le sorti del Paese e dovrebbe indicare una strategia concreta per invertire la tendenza. Chi l’ha vista?

Rocco Artifoni

Il Ministro Pichetto Fratin ammette: le nuove infrastrutture del gas sono inutili

Il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha ammesso che la Linea Adriatica Snam è inutile, come inutili sono anche i due nuovi rigassificatori di Piombino e Ravenna. Per la verità il ministro non ha dichiarato proprio questo ma, se la logica ha un senso, le sue parole portano a questa conclusione e le nuove infrastrutture per il gas decise dopo l’invasione russa dell’Ucraina dovrebbero essere eliminate. In un’intervista a La Stampa del 22 febbraio Pichetto ha affermato: “Fatta la pace si torna al gas russo”. Ora, il caso vuole che i nuovi impianti fossili siano stati giustificati proprio per la necessità di supplire al gas russo, del quale l’Europa aveva deciso di chiudere il rubinetto.

In realtà, già due anni fa – quando i lavori della centrale di Sulmona e della Linea Adriatica non erano ancora cominciati e non c’era ancora il rigassificatore di Piombino, né tanto meno quello di Ravenna – l’Italia aveva sostituito il gas russo con altre fonti di importazione dall’estero. E a confermarlo era stato proprio il ministro Pichetto che il 15 aprile 2023, in un’intervista al Corriere della Sera, aveva annunciato: “Abbiamo superato la dipendenza da Mosca grazie al gas africano”.

Che non avremmo subito alcuna conseguenza dall’eliminazione del gas russo lo si sapeva benissimo, perché l’Italia è il Paese che in Europa ha la più ampia diversificazione delle fonti di importazione di metano, con cinque metanodotti e tre rigassificatori (che ad aprile, dopo Piombino, diventeranno cinque con Ravenna). Non solo, ma ciò ha consentito di importare ancora più gas rispetto a prima, tanto che nel 2022 l’Italia ne ha rivenduto ad altri Paesi ben 4 miliardi e 600 milioni di metri cubi, un record assoluto.

Questo conferma la strumentalità delle decisioni assunte prima dal governo Draghi e poi dal governo Meloni, che si sono piegati alla volontà delle due multinazionali Eni e Snam solo per favorirne gli interessi. Meloni ha addirittura lanciato l’anacronistico “Piano Mattei”, che sarà destinato ad aumentare la nostra dipendenza energetica dai regimi autoritari del continente africano, pronti ad usare il gas come arma di ricatto. Non è un caso se il torturatore Almasri è stato liberato anche per non compromettere le forniture di metano che, attraverso il gasdotto Greenstream. arrivano dalla Libia al nostro Paese.

Dal 2005 (anno del picco massimo) i consumi italiani di metano sono passati da 86,2 miliardi di metri cubi ai 61,9 miliardi del 2024. Un crollo di oltre 24 miliardi attribuibili non a cause congiunturali ma strutturali, quali la crescita delle energie pulite e rinnovabili, l’efficientamento energetico degli edifici, le campagne di risparmio energetico, la necessità di combattere il cambiamento climatico e di raggiungere la neutralità climatica al 2050, l’aumento del costo del metano dovuto non alla sua carenza ma alle manovre speculative delle multinazionali del settore.

Nonostante l’evidenza dei fatti, il governo Meloni – preso da una inarrestabile bulimia da gas – non solo insiste nella realizzazione delle nuove infrastrutture fossili, ma ne ha in programma addirittura altre, come i due ulteriori rigassificatori di Gioia Tauro e Porto Empedocle e il raddoppio del gasdotto Tap dall’Azerbaigian, mentre in lista di attesa ci sono anche il gasdotto EastMed – Poseidon da Israele e un nuovo gasdotto dalla Spagna a Livorno.

Tutte opere non necessarie, che non solo danneggiano pesantemente il clima e l’ambiente, ma continueranno anche a sperperare enormi quantità di denaro che, invece, potrebbe essere utilizzato per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e per mettere in sicurezza il territorio. E che, soprattutto, saranno pagate per i prossimi 50 anni (che è la durata dell’ammortamento dei costi) attraverso le bollette dei cittadini italiani.

Attualmente l’Italia, escludendo la Russia, può disporre di una capacità di importazione dall’estero di circa 100 miliardi di metri cubi di metano. Se si aggiungono le opere in corso di realizzazione e le altre in itinere sì arriverebbe alla cifra di 150 miliardi di mc. Qualora dovessero essere ripristinate le forniture dalla Russia si raggiungerebbero i 180 miliardi di mc.  Una quantità di gas tre volte maggiore del consumo odierno del nostro Paese, destinato a scendere ulteriormente nei prossimi anni.

Dove dovrebbe finire tutto questo gas? Il governo continua a ingannare i cittadini cercando di far credere che l’Italia diventerà l’hub del gas per il centro e il nord Europa: una prospettiva che è solo nella fantasia dei nostri governanti. Primo, perché ci sono Paesi – come la Norvegia, la Spagna e la Turchia – molto più pronti e attrezzati per svolgere questo ruolo; secondo, perché il drastico calo dei consumi di metano non si è verificato solo in Italia, ma in tutta Europa. Rispetto al 2021 si è passati da 591 miliardi di metri cubi a 478, con una riduzione di ben 113 miliardi in soli tre anni.

Con la guerra in Ucraina molti Paesi europei hanno avviato progetti per nuove infrastrutture metanifere, ma gli esperti mettono in guardia dal rischio che tali investimenti, a fronte di una domanda in calo, potrebbero diventare stranded, cioè improduttivi. L’IEEFA (Institute for Energy Economics and Financial Analysis) ha stimato che l’Europa potrebbe ritrovarsi nei prossimi anni con oltre 300 miliardi di mc di capacità inutilizzata. Proprio per questo Paesi come la Grecia, Cipro, la Lituania e la Lettonia hanno deciso di sospendere o posticipare i loro ambiziosi progetti.

Con riferimento alla situazione italiana l’IEEFA ha redatto un rapporto nel gennaio di quest’anno in cui scrive che “il consumo di gas in Italia solleva interrogativi sul continuo investimento in questo combustibile”. Ed ancora: “La maggior parte dei ricavi di Snam sono regolati”. Questo significa che la Snam avrà il suo profitto anche se nei tubi o negli impianti di GNL non dovesse passare neanche un metro cubo di gas. Ma, aggiunge l’IEEFA, “gli incentivi derivanti dalla regolazione creano potenzialmente una distorsione a favore delle spese in capitale”.

Chi ci rimette?  I consumatori italiani che, ricorda ancora l’IEEFA, pagano il gas con prezzi “che sono tra i più alti in Europa”. E questo nonostante il nostro Paese non abbia mai avuto problemi di approvvigionamento di metano.

 

Mario Pizzola

Sardegna: nuove adesioni a Sa Manifestada contra a su colonialismu energèticu

Il prossimo 1° marzo si terrà a Quartu Sant’Elena (CA) una Manifestada contra a su colonialismu energèticu (Manifestazione contro il colonialismo energetico), che si inserisce all’interno delle mobilitazioni che da oltre due anni contrastano il piano di speculazione energetica imposto dal governo Draghi e proseguito dal governo Meloni senza consenso popolare: la costruzione di un maxi condotto elettrico affidato a Terna – il Thyrrenian Link – ai fini di collegare Sardegna e Sicilia al continente per il trasporto dell’energia prodotta sulle isole e l’occupazione di ettari ed ettari di terreni per l’installazione di pale eoliche e pannelli fotovoltaici.

Ma gli speculatori e sciacalli della transizione energetica promossa dagli imperialisti UE in barba alla maggioranza della popolazione sarda, non hanno tenuto conto della resistenza popolare. Un’isola vessata da decenni dall’occupazione militare (un quarto del territorio soggetto a servitù militare) già inquinato dalle esercitazioni a fuoco dei paesi Nato, dallo smantellamento della sanità pubblica, dal degrado di intere aree industriali dismesse e abbandonate e, in particolare nel Sulcis e nella zona di Porto Torres, il pesante inquinamento ambientale dovuto alle ex miniere mai bonificate e al petrolchimico, non può più tollerare l’abuso della propria terra e lo sfruttamento dei propri lavoratori.

Le mobilitazioni che hanno infiammato la Sardegna, dall’ampio protagonismo popolare nella raccolta firme per la legge di iniziativa popolare “Pratobello24” fino ai blocchi stradali per impedire il trasporto delle pale eoliche, ai presidi di occupazione delle terre soggette a esproprio così le decine di altre iniziative popolari che hanno attraversato la Sardegna (solidarietà al popolo Palestinese, lotta contro l’occupazione militare, lotta contro lo smantellamento della sanità pubblica e del tessuto produttivo), dimostrano che una grossa fetta delle masse popolari sarde vuole un cambiamento radicale.

Cambio radicale promesso dalla stessa giunta regionale presieduta da Alessandra Todde e dalla “campo largo” M5S-PD che però, decisa a proseguire i programmi previsti dall’agenda Draghi in Sardegna, sputa letteralmente in faccia alle decine di migliaia di sardi che l’hanno votata, non accettando la vittoria politica che le oltre 210.000 firme raccolte per presentare la legge Pratobello24 hanno dimostrato: la giunta regionale “del cambiamento” o si rimette alla volontà e le indicazioni delle masse popolari oppure è lo zerbino del governo Meloni, degli speculatori che vogliono fare della Sardegna un banchetto con cui ingrassarsi, degli imperialisti Usa, dei sionisti, della Nato e della Ue. È negli interessi di questi padroni che sono imposte le grandi opere e le scorribande di speculatori e affaristi in Sardegna, nostrani o stranieri, non di quelli delle masse popolari sarde.

Allo stesso tempo, le 210.000 firme raccolte con la campagna Pratobello24 dimostra che solo le masse popolari organizzate possono fermare la fiera delle speculazioni e degli affari e che la Sardegna non ha bisogno di governanti zerbini delle autorità italiane e delle multinazionali.

La mobilitazione contro la speculazione energetica deve alzare di tono tutte le mobilitazioni in corso in Sardegna, unirle sotto la parola d’ordine di cacciare la giunta Todde dal consiglio regionale e lo stuolo di partiti e individui che per anni hanno banchettato sulle spalle dei lavoratori sardi promettendo “autonomia” dallo Stato centrale ma asservendo sempre di più la Sardegna agli interessi delle multinazionali.

La mobilitazione contro la speculazione energetica deve unire le mobilitazioni in corso in Sardegna per imporre la costituzione di una giunta regionale di tipo nuovo che approfitta della crisi di governo e dello scontro interno al Consiglio regionale, composta da quegli organismi e individui che nel corso degli ultimi anni non hanno mai piegato la testa contro le autorità dello Stato italiano e contro gli interessi degli speculatori, che nella lotta hanno dimostrato di essere coerenti e di voler difendere e affermare i diritti delle masse popolari sarde.

Serve un nuovo governo della Regione Sardegna, che fa saltare il banco del gioco sporco con cui le multinazionali della “green economy” vogliono occupare la Sardegna e che metta mano a tutti gli altri problemi che l’Isola vive: dallo smantellamento del tessuto produttivo e dallo spopolamento ad esso collegato, all’occupazione militare e all’inquinamento da poligono, fino allo smantellamento della sanità pubblica.

Ma tutto ciò vuol dire innanzitutto combattere sfiducia, disfattismo e superare lo spirito di concorrenza fra partiti e organizzazioni politiche e sindacali in favore dell’unità d’azione, della concatenazione delle mobilitazioni e del coordinamento degli organismi che le promuovono. Solo unendo le forze di tutti verso un obiettivo comune è possibile sbarrare la strada alla classe dominante e cambiare la rotta.

Si tratta di applicare il principio per cui è legittimo tutto quello che va negli interessi delle masse popolari anche se è illegale: rendere ordinaria la violazione dei divieti e delle censure con cui le autorità borghesi cercano di impedire lo sviluppo della mobilitazione (ogni divieto è efficace solo se qualcuno lo rispetta). Far decadere il principio per cui le opere speculative proseguono sotto la giustificazione degli accordi già presi (ma da chi? Per quali interessi?) o per sbrigare “gli affari correnti”: gli accordi così come sono stati firmati possono essere stracciati!

Si tratta, infine, di superare la convinzione che l’unico ruolo che le masse popolari organizzate possono assumere verso il governo è quello di rivendicare, in un contesto e in una fase in cui, invece, l’unica alternativa realistica al marasma in cui siamo immersi è che le organizzazioni operaie e popolari si occupino direttamente di politica, di governo dei territori e di governo del paese: che assumano il ruolo di nuova classe dirigente, indipendentemente dalle tornate elettorali. Il presupposto per l’autodeterminazione delle masse popolari sarde passa attraverso la mobilitazione per la sovranità nazionale e popolare, per la costituzione di un nuovo governo dell’isola che risponda del suo operato direttamente agli organismi operai e popolari.

Redazione Sardigna

Filippine: Democrazia, memoria e riconciliazione di fronte al dilagante autoritarismo

39 anni fa, la Rivoluzione nonviolenta People Power che pose fine alla dittatura di Ferdinand Marcos segnò una svolta nella storia delle Filippine.

Nel 1983, il dittatore Ferdinand Marcos, sostenuto dagli Stati Uniti, ordinò l’assassinio del suo rivale Benigno Aquino e impose la censura dei media. Solo Radio Veritas sfidò l’oscuramento, scatenando proteste di massa settimanali. Nel 1986, messo alle strette, Marcos indisse delle elezioni lampo. Corazón Aquino, vedova di Benigno, si impose come leader dell’opposizione. Un esercito civile di 20.000 osservatori cercò di prevenire i brogli, ma Marcos dichiarò la vittoria. Nessuno gli credette. I legislatori abbandonarono il Congresso, i boicottaggi paralizzarono le sue aziende e la Chiesa lo condannò. Gli scioperi svuotarono strade e fabbriche. Una fazione militare tentò un colpo di Stato, ma Aquino insistette sulla resistenza pacifica.

Quando Marcos ordinò alle truppe di schiacciare il dissenso, il cardinale Jaime Sin invitò alla resistenza nonviolenta. Le suore si inginocchiarono davanti ai carri armati. I cittadini offrirono ai soldati riso, acqua e fiori. Le truppe si rifiutarono di sparare. Per tre giorni, il popolo paralizzò la nazione. Alla fine Marcos fuggì e Corazón Aquino assunse il potere.

Quel 25 febbraio non divenne solo la caduta di un dittatore, ma un simbolo della capacità del popolo di sanare vecchie ferite e di forgiare una pace democratica attraverso l’azione popolare.

Oggi le Filippine reagiscono al fatto che il presidente Ferdinand Marcos Jr. (figlio del dittatore spodestato) ha cancellato la commemorazione ufficiale di questa data dal calendario delle festività. Ciò solleva profondi interrogativi sull’evoluzione della riconciliazione nazionale, sulla politica interna e sulla memoria storica del Paese.

L’eredità di un passato doloroso e la ricerca della riconciliazione

La Rivoluzione del 1986 non solo ha rovesciato un regime autoritario, ma ha simboleggiato la chiusura di un capitolo sanguinoso. Per molti, rimane un trionfo della protesta pacifica, una società che ricostruisce la propria identità sulla libertà e sulla giustizia.

Il popolo filippino, con la sua diversità culturale e la sua storia di resistenza, ha ripetutamente dimostrato un impegno al cambiamento. Alcuni sostengono che l’elezione di Marcos junior, nonostante la sua controversa “eredità”, rifletta il desiderio collettivo di verificare se le vecchie ferite possano trasformarsi in dialogo tra le strade e le élite. Questo tacito consenso non è una cieca accettazione del passato, ma una scommessa sulla speranza: la convinzione che una nazione forgiata nella lotta possa reinventarsi.

Forse molti hanno considerato l’elezione di Marcos Jr. come un’occasione per guarire, dando fiducia al figlio del dittatore. In questo senso, forse la società mirava a separare l’uomo dalla colpa storica della sua famiglia. Il voto non riguardava tanto il passato quanto un esperimento di riconciliazione, in cui convergono memoria e speranza. Da una prospettiva nonviolenta, il vero merito è delle persone che hanno cercato di trasformare i retaggi autoritari in opportunità di cambiamento. Questo è certo.

Il “potere delle strade” e la trasformazione della memoria storica

La decisione di abolire la festività non può essere vista in modo isolato. Per quasi quattro decenni, scuole, università e gruppi come Pace e Bene hanno mantenuto viva la memoria attraverso strumenti educativi – persino pagine da colorare sulla nonviolenza – per insegnare alle nuove generazioni la rivoluzione. Questo sforzo riflette un’aspirazione collettiva a onorare i sacrifici fatti per la libertà.

Tuttavia, è sorprendente che un governo democraticamente eletto ometta una pietra miliare che simboleggia la vittoria dei cittadini sull’oppressione. Questo potrebbe essere visto come un brusco tentativo di “chiudere la ferita” senza una riflessione nazionale, cancellando una lezione storica fondamentale: la vera trasformazione sociale richiede il riconoscimento dei torti subiti in passato.

Per molti filippini, la cancellazione della festa impoverisce la memoria collettiva. Ci si aspettava che Marcos Jr. avrebbe abbinato le politiche di riconciliazione a gesti simbolici in onore della lotta del popolo. Spostando la commemorazione al lunedì successivo – riducendo l’impatto socioeconomico – avrebbe affermato lo spirito della rivoluzione come pilastro della democrazia. Non facendolo, il progetto di trasformazione del suo governo appare ambiguo.

L’ambivalenza di Marcos Jr: Espiazione o continuità di una “eredità familiare”?

Il dilemma di Marcos Jr. risiede nel suo complesso rapporto con l’eredità familiare. La sua elezione segnala la volontà popolare di superare la dittatura, ma azioni come la cancellazione della festività riecheggiano ombre autoritarie.

Questa dualità divide la società filippina. Alcuni ritengono che la speranza di cambiamento del popolo sia genuina, confidando che le élite abbiano abbracciato la riparazione. In quest’ottica, l’elezione di Marcos Jr. è uno sforzo collettivo per trasformare il dolore in un futuro migliore.

I critici, tuttavia, sostengono che senza gesti simbolici o riforme strutturali, l’espiazione storica rimane vuota. L’annullamento della festività costituisce un pericoloso precedente. Non riprogrammarla – nonostante il minimo disagio socioeconomico – è visto come una riscrittura della storia, che mette a tacere i combattenti per la libertà.

Questo solleva domande più ampie: Le Filippine stanno soccombendo alle vecchie strutture di potere e alle influenze esterne, come la geopolitica statunitense, o stanno vivendo un vero e proprio rinnovamento? La risposta non è chiara e i timori di un regresso alimentano l’incertezza dell’opinione pubblica.

Un parallelo globale: Autoritarismo, poteri sospetti e l’era oscura della sorveglianza tecnologica

La situazione filippina rispecchia una tendenza globale. Negli ultimi due anni, la deriva autoritaria è aumentata in tutto il mondo.

Come notano Levitsky e Ziblatt in “Come muoiono le democrazie”, le democrazie moderne non crollano a causa di colpi di stato, ma grazie a leader eletti che svuotano le istituzioni, arricchiscono le élite e i ricchi patologici e soffocano le libertà. L’Ungheria, la Polonia e l’Italia, insieme a molti altri Paesi dell’America Latina e dell’Asia, riflettono questo spostamento verso il governo degli uomini forti e la disuguaglianza.

Nel frattempo, i progressi della sorveglianza tecnologica consentono ai governi di reprimere il dissenso in modo efficiente. Entro il 2025, i droni e l’intelligenza artificiale potrebbero sostituire facilmente la polizia di strada, soffocando la libera espressione. In questo contesto, l’abbandono della festa della democrazia nelle Filippine indica la volontà di sacrificare la memoria storica per una “stabilità” a vantaggio delle élite, una stabilità che genera il caos.

Riconciliazione o regresso  – uno sguardo critico sul futuro delle Filippine

Il paradosso filippino sta nell’equilibrio tra speranza e scetticismo. L’elezione di Marcos Jr. è stato un atto di fede nel superamento dell’autoritarismo. Tuttavia, cancellare la commemorazione senza compromessi suggerisce la persistenza delle vecchie strutture di potere.

A livello globale, la lotta contro il potere concentrato e la sorveglianza definisce la nostra epoca. La sfida delle Filippine è duplice: dimostrare che la riconciliazione è autentica e garantire che la trasformazione democratica non sia dirottata da interessi autoritari.

I filippini, con la loro eredità di resistenza pacifica, potrebbero creare un precedente in cui la memoria e la riconciliazione sono alla base della vera democrazia. Ma questo richiede che i leader, le élite e la società agiscano all’unisono, ricordando che il potere risiede nelle strade e nella capacità collettiva di trasformare la storia in giustizia.

Questo è il bivio che molte democrazie si trovano ad affrontare: capitolare all’autoritarismo o dare potere agli emarginati onorando le lotte del passato. Nelle Filippine, la risposta si manifesta quotidianamente attraverso atti di memoria, proteste pacifiche e politiche che valorizzino la storia. Solo così la nazione potrà trascendere il suo passato dittatoriale.

Traduzione dall’inglese di Thomas Schmid.

Ángel Sanz Montes

Il passato dell’Austria e la responsabilità del presente

L’ anno 2025 è all’insegna di un importante traguardo storico: l’80° Anniversario della Liberazione dal regime del terrore nazista. Questo momento importante della storia e della memoria in Austria è celebrato dal comitato austriaco di Mauthausen (MKÖ) con vari eventi e iniziative, sia in loco che virtuali. L’obiettivo è preservare la memoria delle vittime e dare un chiaro segnale contro il razzismo, l’antisemitismo e l’estremismo. Le attività commemorative sono incentrate sul tema: “Insieme per un Mai più”.

L’importanza della memoria

Willi Mernyi, presidente del comitato austriaco di Mauthausen, sottolinea l’importanza della memoria nei tempi attuali: “Soprattutto in tempi in cui il nazionalismo è reso di nuovo rispettabile in tutto il mondo, la commemorazione e la memoria della storia sono particolarmente importanti. Non dimenticheremo mai dove l’emarginazione dei gruppi umani e l’odio hanno portato l’Europa più di 80 anni fa. Combattiamo gli inizi!”

Celebrazione della liberazione internazionale e festa della gioia

Un momento centrale dell’anno commemorativo sarà la Festa Internazionale della Liberazione l’11 maggio 2025 nel memoriale del campo di concentramento di Mauthausen. Persone provenienti da tutto il mondo si riuniranno per commemorare le vittime e dare un segno di pace e democrazia.

Già l’8 maggio 2025 si terrà la tradizionale festa della gioia nella Heldenplatz di Vienna. Questo anno il famoso pubblicista e moderatore Paul Lendvai parlerà come testimone dell’epoca. Lendvai, figlio di genitori ebrei, fu rapito nel 1944 con suo padre e condividerà la sua commovente storia nell’ambito dell’evento. Inoltre, una speciale mostra di testimoni dell’epoca arricchirà la Piazza a maggio.

Un altro importante evento è previsto per il 9 maggio 2025 a Vienna: la presentazione di un libro e un colloquio con i tre “Mauthausen-Babys”. Hana Berger-Moran, Mark Olsky ed Eva Clarke sono nati nelle ultime settimane prima della liberazione del campo di concentramento di Mauthausen. Le loro madri dovettero nascondere le loro gravidanze al regime nazista. L’evento offrirà una piattaforma per rendere accessibili le loro toccanti testimonianze ai posteri.

Memoria virtuale e iniziative digitali

Oltre agli eventi commemorativi fisici, il MKÖ si affida sempre più ai canali digitali. Con l’hashtag # Gedenken2025, i testimoni dell’epoca condivideranno le loro storie, pubblicheranno post sul blog e lanciano inviti online a partecipare attivamente. Tutte le persone in Austria sono invitate a deporre fiori o pietre nei monumenti di Vienna o negli ex campi di concentramento, dando così un segno visibile della memoria.

Educazione e sensibilizzazione: lavoro sul futuro per un “mai più”

La trasmissione delle conoscenze alle giovani generazioni svolge un ruolo centrale nel lavoro di promemoria. Il MKÖ prevede numerose offerte formative per i giovani, tra cui visite guidate a monumenti e memoriali, corsi di formazione sul coraggio civile e workshop sull’educazione all’ estremismo di destra. Nell’anno commemorativo 2025, questa offerta sarà ulteriormente intensificata per sensibilizzare i giovani sull’importanza del passato e sulle sfide del presente.

La memoria come responsabilità per il futuro

Affrontare il passato non è solo una questione di memoria, ma anche un impegno per il futuro. Con la scomparsa degli ultimi testimoni, diventa ancora più importante trovare nuove vie di mediazione per mantenere viva la consapevolezza dei crimini del nazionalsocialismo. In un momento in cui le tendenze antidemocratiche e la distorsione della storia sono di nuovo in aumento, è necessaria una posizione chiara. La storia dimostra che la democrazia, i diritti umani e la pace non sono scontati: devono essere difesi attivamente.

L’anno commemorativo 2025 dovrebbe quindi non solo ricordare gli orrori del passato, ma anche essere un appello a impegnarsi per una società aperta, solidale e dignitosa. Perché “mai più” significa agire oggi.

Il comitato austriaco di Mauthausen invita tutte le persone a partecipare attivamente all’anno commemorativo 2025. Insieme diamo un forte segnale di memoria, responsabilità e un futuro senza odio.

Mauthausen Komitee Österreich

Traduzione dal tedesco di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid.

Pressenza Wien