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Contro il Pelecidio, Luca Sciacchitano: “Israele da decenni ingloba porzioni sempre più vaste di territorio”

Benvenuti alla quarta parte della rubrica “Contro il Pelecidio” che consiste nella pubblicazione, una volta a settimana, di una mini-intervista allo scrittore Luca Sciacchitano sui temi del suo ultimo interessantissimo saggio intitolato “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”  – edito da Multimage La casa editrice dei diritti umani – che senza filtri, con cognizione di causa ed una certa parresia, mette sotto accusa quello che è il colonialismo israeliano, il sionismo, l’occupazione belligerante di Israele in terre palestinese, i crimini di guerra, il terrificante sistema d’apartheid razzista e il “genocidio incrementale” messo in atto da ormai più di 70 anni, svelando apertamente le strategie colpevolizzanti della hasbara israeliana e della strumentalizzazione sionista della Shoah.

Cosa è la Palestina oggi? Da cosa viene soffocata e come sopravvive?

La domanda può essere approcciata da diverse angolazioni.
Da un lato potremmo dire che la Palestina, o meglio, tutto il quadro degli eventi a cui stiamo assistendo oggi in Palestina, rappresenta il tragico paradigma della contemporaneità: l’avidità senza freno dei potenti da un lato, la nostra assuefazione all’ingiustizia, dall’altro.
Ogni giorno tutti noi siamo vittime di piccole e grandi arroganze da parte dei poteri. Talmente abituati a essere bombardati dalle prevaricazioni che spesso neanche più ci ribelliamo, accettando ogni volta la nuova asticella, il nuovo limite, la nuova legge, la nuova tassa, il nuovo divieto come parte integrante dell’essere ingranaggi di una società incentrata sul potere di pochi.

L’altra faccia della medaglia però è che, non ribellandoci, noi accettiamo (centimetro dopo centimetro) che i governi, le multinazionali, le lobby ci tolgano ancora maggiori fette di libertà, diritti, indipendenza, stritolandoci sempre più tra le spire della loro pantagruelica avidità. Le democrazie sono in crisi, le ideologie sono scomparse, il lavoro ha perso la sua componente nobilitativa. Tutta la società contemporanea risulta oggi impostata in funzione delle necessità dei potenti: farci produrre, farci consumare, arricchirsi sulle nostre fatiche.

Diventa dunque imperativo iniziare a domandarci quale limite noi, il popolo, siamo disposti a sopportare prima di ribellarci. All’interno di questo quesito rivoluzionario, si innesta ciò che vediamo succedere in Palestina: siamo noi disposti ad accettare che il potere arrivi perfino a genocidare un intero popolo per 365 miseri chilometri quadrati di terra?

Dunque, una prima risposta alla tua domanda potrebbe essere che la Palestina è un simbolo: il paradigma della ferocia di un potere avido, inumano e violento che pensa di possedere tutto, finanche le anime delle persone. Ma è anche una sollecitazione alla nostra capacità di fissarci dei limiti oltre i quali la nostra umanità deve gridare “BASTA”.

Un’altra prospettiva su cui riflettere, nel rispondere alla tua domanda, è quella di inquadrare la Palestina come una creatura in via di estinzione. E come tutto ciò che rischia di evaporare nell’oblio, provare a tutelarla. Mi spiego meglio: la voracità dello Stato di Israele da decenni ingloba porzioni sempre più vaste di territorio. Colonia dopo colonia, l’estensione di ciò che oggi si può chiamare “Palestina” sulla mappa geografica si è tragicamente assottigliata.

La cosa risulta ancora più inquietante se si pensa che una manciata di decadi fa, il giorno prima del 14 maggio 1948, quando Ben Gurion autoproclamò la nascita dello stato di Israele, tutta la regione geografica compresa tra il Mediterraneo e il fiume Giordano era marcata nelle mappe geografiche come “Palestina”; non un nome coniato dai nemici del sionismo, ma risalente addirittura al XII secolo a. C. su volontà degli antichi egiziani (da Peleset, il nome dato ai Filistei), oppure quel Palaistine (Παλαιστινοί) utilizzato nel V secolo a.C. da Erodoto o, ancora, “Syria Palestina” secondo Adriano (135 d.C.).

E fa impressione, in questo grottesco teatro dell’assurdo in cui il sionismo pelecida fa a gara a spararla sempre più grossa, leggere frasi negazioniste come: “«Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un ‘popolo palestinese’ […] è una finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista” (B. Smotrich)

In questa sorta di “terrapiattismo” in chiave geopolitica, i sostenitori di questa sgangherata tesi ignorano perfino i contenuti dei documenti redatti dai sionisti per gli stessi sionisti.
La Dichiarazione Balfour, ad esempio, ovvero la lettera che l’omonimo ministro inviò a Lord Rothschild nel 1917 per auspicare “la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”.
O, ancora lo stesso Theodor Herzl, padre fondatore del sionismo, che nel suo “A Jewish State” chiedeva espressamente al suo lettore “shall we choose Palestine or Argentine?”.

Di quel vasto territorio chiamato Palestina, ed evocato come terra promessa perfino dai sionisti nel secolo scorso, cosa rimane oggi? A ovest, una striscia di terra ormai ridotta a fossa comune difficilmente abitabile. A est, una Cisgiordania ormai maculata dalla colonizzazione illegale, squassata dalla violenza, simile a una carcassa su cui si avventa ogni avvoltoio con doppio passaporto e la voglia di rubarsi un pezzo di terra a condizioni fiscali agevolate. Dunque, sì: una Palestina a rischio di estinzione.
Vengono quasi in mente gli antichi romani quando, negli spazi bianchi delle mappe, scrivevano “hic sunt leones”. I pelecidi di oggi ci scriveranno “hic non sunt amplius Palæstini”.

Sulla tua seconda domanda, ovvero da cosa viene soffocata la Palestina, la risposta sarebbe articolata ma la condenserei sul simbolo per eccellenza dell’oppressione: le mura perimetrali realizzate da Israele a partire dagli anni 2000 attorno alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania.
A mio avviso, quelle recinzioni sono le fondamenta pragmatiche sopra cui è edificata tutta l’ideologia sionista dell’apartheid.

Nel 2004, la Corte Internazionale di Giustizia ne fornì un giudizio inequivocabile: “l’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale”. Ma Israele aveva una strategia e, nonostante la sollecitazione della Corte a smantellarlo, lo mantenne in piedi.

Per capire il principio soggiacente quella strategia vanno qui riportate le parole di Michael Fakhri, relatore speciale del Consiglio per i diritti umani (ONU) quando a ottobre 2024 spiegava il report sulla denutrizione a Gaza, puntando l’indice accusatore proprio sul muro: “affamarli (i palestinesi n.d.r.) è il risultato di scelte compiute da decadi. […] bisogna andare indietro al 2000, quando Israele ha iniziato il suo blocco contro Gaza. […] Come un rubinetto che (Israele n.d.r.) può aprire o chiudere […] Contando le calorie e misurando cosa era permesso far entrare a Gaza ed essere sicuri che ciascuno rimanesse affamato, ma non così tanto da sollevare campanelli di allarme nel mondo. Così, il 6 di ottobre (il giorno prima degli attentati n.d.r.) metà della popolazione di Gaza presentava criticità alimentari e l’80% dipendeva dagli aiuti umanitari”.

Tutto quindi passa attraverso il muro: ciò che entra e ciò che esce; cose e persone.
Ad esempio, le imposte e i dazi doganali sui prodotti che varcano le mura e su cui solo Israele si arroga il diritto di commercio. Questi soldi servono, tra le altre cose, a pagare gli stipendi degli impiegati pubblici che, secondo i dati 2018 del Palestinian Central Bureau of Statistics, rappresentano un terzo dei lavoratori palestinesi. A cadenza periodica Israele decide di trattenerli: migliaia di famiglie palestinesi rimangono senza stipendio.

Oppure gli assalti ai pescherecci palestinesi per limitarne il territorio di pesca del 40% rispetto agli accordi di Oslo (fonte Euro-Med Human Rights Monitor) così da far calare il numero di pescatori registrati a Gaza da 10.000 a 4.000 unità in soli 20 anni.

Non va meglio sul fronte dell’agricoltura dove “durante tutto l’anno, gli aerei israeliani spruzzano ripetutamente erbicidi sulle terre palestinesi lungo i confini, causando danni alle colture agricole” (fonte EMHRM). A questo si aggiunga il divieto per i contadini ad avvicinarsi alla recinzione entro i 1.000 – 1.500 metri per aggiungere un’ulteriore deprivazione del 35% di territorio coltivabile.

E potremmo parlare del giacimento di Meged, il cui petrolio scorre anche sotto la Cisgiordania ma che Israele rifiuta di condividere o il Gaza Marine, un giacimento di gas a 20 miglia dalla costa di Gaza il quale, “se sfruttato adeguatamente, […] potrebbe coprire l’intero fabbisogno palestinese di gas e consentirebbe anche di effettuare esportazioni.” (fonte Geopop).

I palestinesi dunque sopravvivono in larga parte grazie agli aiuti umanitari distribuiti dall’UNRWA. Una distribuzione che non sottostando al controllo israeliano diventa disfunzionale alla politica pelecida. E così, con la scusa della manciata di lavoratori favorevoli a Hamas, su 30.000 impiegati, ecco spiegato il principale motivo della messa al bando e del susseguente tentativo di Israele di sostituirla con un’altra istituzione “rubinetto”, da poter chiudere su necessità politica.

Ma forse, alla tua domanda “cosa soffoca oggi il popolo palestinese”, la risposta più atavica e ciclica alla base dei genocidi è sempre la stessa: l’indifferenza del mondo.
L’indifferenza, complicità, propaganda, interessi economici dei potenti.
Quella stessa indifferenza che permise lo sterminio degli ebrei, nell’Europa nazista, oggi si ripresenta. E fra qualche decennio si ripresenteranno anche i ciclici memoriali, le cicliche giornate della memoria, le cicliche lacrime postume.

Chissà, forse fra venti anni ci sarà una bella stele in marmo a Gaza Riviere, luongo un Palestine Boulevard (magnanimamente concesso in terra d’Israele).
Di fronte al grattacielo edificato sopra una delle tante fosse comuni e, al largo, lo yacht dell’oligarca stipato di modelle e champagne. Nulla che la storia non abbia già visto.

Link alle prime 50 pagine in pdf del libro “Pelecidio, perchè è moralmente giusto criticare Israele”: https://www.first-web.it/pelecidio1-50.pdf

Lorenzo Poli

Treni ad idrogeno e greenwashing, Europa Verde: «Resta un progetto insostenibile»

Rovato. «Il futuro dei trasporti su rotaia della nostra Regione e dell’intero Paese passa attraverso lo sviluppo della combustione a idrogeno. Si tratta di un progetto ambizioso che da tempo la Lega sta seguendo e che adesso diventa realtà. Il primo treno a idrogeno italiano è stato sperimentato giovedì mattina in provincia di Brescia, a Rovato». Così ha dichiarato pochi giorni fa il consigliere regionale leghista Floriano Massardi, presidente della commissione Agricoltura, montagna e foreste, aggiungendo «Grazie alla lungimiranza del ministro Salvini, che ha messo a disposizione ingenti risorse economiche del Governo, e di Regione Lombardia, da tempo impegnata in una vera e fattiva transizione ecologica verso la produzione di idrogeno verde, il nuovo treno è già realtà». «L’aspetto interessante», prosegue il consigliere del Carroccio, «è che il ricorso al combustibile elettrico presenta due grandi vantaggi: non impatta sull’ambiente ma anzi lo preserva e soprattutto non necessita di particolari infrastrutture, consentendo di mantenere operative quelle già esistenti. L’indotto economico che questa scelta produrrà sull’economia locale e nell’ambito turistico sarà consistente».

Secondo Massardi: «Questo è il vero ambientalismo, e non il discutibile e finto ecologismo di certa parte politica e dell’Unione Europea. Negli ultimi anni la nostra Regione ha investito 1,7 miliardi di euro per 214 nuovi treni che daranno forte slancio al settore ed entro il prossimo anno la Lombardia potrà contare su una flotta totalmente rinnovata. Regione Lombardia a guida Fontana e la Lega al Governo ancora una volta si muovono con fatti concreti, esclusivamente nella tutela dell’ambiente, dei nostri territori e dei nostri cittadini», conclude Massardi.

Eppure i dati dicono ben altro e non si capisce con quale cognizione di causa si possa definire “sostenibile” il treno ad idrogeno. Secondo l’ex sindaco di Brescia Emilio Del Bono – ora vicepresidente del Consiglio Regionale Lombardo – il progetto prevede spese da capogiro senza aumentare la frequenza dei convogli. “Un treno all’ora nella fascia di punta, i fondi andavano usati per migliorare il servizio”. La critica principale è il mancato incremento della frequenza dei treni, a fronte di un investimento di 400 milioni di euro, ma non solo: “il costo di esercizio oggi è di 3 milioni di euro all’anno, ma salirà a 24,4 milioni all’anno. Questi numeri non sono ragionevoli e soprattutto non spostano i pendolari dall’auto al trasporto pubblico”, commentano dalla sede del Pd provinciale a ridosso dell’inaugurazione. “Il treno a idrogeno è il più grande investimento effettuato dalla Regione, ma la linea resta incredibilmente sottoutilizzata”.

Vi è inoltre un problema economico e pratico. «L’arrivo dei convogli a idrogeno al deposito di Rovato è stato accolto con incomprensibile giubilo e festa da parte delle autorità locali, ma i cittadini bresciani hanno ben poco da festeggiare» – ha afferma Paola Pollini, consigliera regionale M5s: «E’ importante che si sappia che i convogli non sono arrivati perché siano messi in servizio a breve ma sono arrivati solo per essere parcheggiati per quasi un anno e mezzo, visto che la messa in funzione è prevista per giugno 2026, come da delibera regionale, e considerando le possibili quanto certe problematiche che puntualmente si verificano su appalti di questo genere, l’attesa non può far altro che aumentare». «Oggi – evidenzia Pollini – si festeggia per tenere fermi, per almeno un anno e mezzo, dei convogli che, oltre a essere costati 180 milioni di euro per la precisione, non miglioreranno in alcun modo il servizio già oggi presente. Questo è in realtà il motivo principale per il quale l’arrivo di questi treni deve essere visto come una sciagura per il lago d’Iseo e la val Camonica e non certo un vanto perché lo sperpero di denari pubblici è ormai compiuto e difficilmente arrestabile».
«E’ ormai certificato che con l’arrivo dei treni ad idrogeno non aumenterà il numero delle corse, non migliorerà la puntualità e non aumenterà il numero di utenti trasportati. – sottolinea la consigliera pentastellata  – Nulla di tutto questo è previsto a fronte di un investimento complessivo che sfonderà i 360 milioni di euro. Chi ne gioverà? Non certo i pendolari che ogni giorno sono costretti a subire disservizi e disagi per una rete ferroviaria anteguerra. La sperimentazione del treno a idrogeno in val Camonica è solo una costosissima scommessa giocata sulla pelle dei cittadini i quali ne usciranno sempre e comunque perdenti. Eppure la soluzione alternativa ai treni diesel e all’idrogeno c’era ed è la soluzione che in gergo si chiama ad “isole di catenaria” con alimentazione mista batteria/elettrico».

Vi è poi il problema ambientale. Il Progetto H2iseO è nato con il fine di rendere la Valcamonica “la prima Hydrogen Valley d’Italia”, prevedendo non solo l’introduzione dei treni a idrogeno lungo la linea non elettrificata Brescia-Iseo-Edolo, ma anche la realizzazione di tre impianti di produzione, stoccaggio e distribuzione di idrogeno a Brescia, Iseo ed Edolo. Con l’obiettivo di contribuire alla decarbonizzazione del trasporto pubblico locale, l’iniziativa – secondo i promotori – segnerebbe un passo fondamentale verso la trasformazione energetica del territorio e lo sviluppo di una filiera industriale dell’idrogeno in Lombardia. Ma a quanto pare questa è semplicemente l’ennesima operazione di marketing della “green economy” che nulla ha di sostenibile se non a parole, inaugurando l’ennesima operazione di greenwashing.

«L’ennesima presentazione del treno ad Idrogeno da parte di Regione Lombardia, di Fnm, di Trenord e di Alstom serve per gettare nuovo fumo negli occhi all’opinione pubblica. Il tentativo è quello di far apparire la “pomposa” decarbonizzazione della Valle Camonica come un miglioramento delle condizioni dell’aria».

Lo afferma Dario Balotta referente Europa Verde Brescia. «Il 4 ottobre 2023 il treno ad Idrogeno era già stato presentato in pompa magna all’interno di Expo Ferroviaria a Milano. Da allora, in più occasioni, è stato annunciato il suo arrivo ma non ne sono mai stati descritti i vantaggi perchè il costo dell’energia prodotta dall’idrogeno è quattro volte superiore a quella dell’energia idro-elettrica. Non solo l’idrogeno prodotto non sarà “verde” ma “grigio” perchè verrà prodotto con l’inquinante combustione di metano o biometano si Snam e A2A e una minore efficienza energetica. Le preoccupazioni delle popolazione di Edolo, Iseo e Brescia, vicine ai centri di produzione dell’idrogeno, non sono ancora state fugate da nessuno, visto che il tema della sicurezza non è ancora stato normato dal Ministero dei Trasporti e dell’Interno».

«Attualmente – continua Balotta – corrono le spese e i disagi e Trenord è al collasso tecnico date le soppressioni e i continui e numerosi ritardi dei treni. La linea verrà chiusa per lavori di sistemazione delle gallerie da Marone a Edolo, per 6 mesi. FNM aveva escluso la più economica e più ragionevole elettrificazione della linea, adducendo che l’intervento avrebbe comportato lunghi lavori sulla linea. Un pretesto che si sta rivelando non vero. Anzichè elettrificare la tratta, dove l’energia idro-elettrica abbonda, si preferisce produrre l’idrogeno (grigio) con il metano di Snam e A2A. Resta anche da spiegare come mai si spendano quasi 400 milioni di euro tra treni e potenziamenti della linea per avere gli stessi tempi di percorrenza e lo stesso numero di treni giornalieri e purtroppo gli stessi ritardi se non cambia il metodo di gestione».

Rovato, presentato il primo treno ad idrogeno. In funzione nel 2026

Rovato, primo treno a idrogeno italiano: parte il progetto H2iseO

Treni ad idrogeno, Massardi (Lega): «Il futuro dei trasporti su rotaia passa dalla provincia di Brescia»

Treno a idrogeno, Del Bono: “Investimento da 400 milioni, costi 8 volte più alti”

«Treni ad idrogeno a Rovato: c’è ben poco da festeggiare»

Treni ad idrogeno, Europa Verde: «Resta un progetto insostenibile»

 

 

Redazione Sebino Franciacorta

Dopo oltre tre anni il Marocco ha scarcerato un attivista uiguro ricercato dalla Cina

“Mi hanno portato in prigione, glielo hanno chiesto i cinesi. Fate presto perché vogliono mandarmi in Cina”.

Sono le uniche parole che Idris Hasan, un ingegnere informatico uiguro di 34 anni e padre di tre figli, riuscì a dire alla moglie Zaynura in una brevissima telefonata dalla prigione di Tiflet, in Marocco, dove era stato portato il 19 luglio 2021.

Hasan aveva lasciato la Repubblica autonoma uigura dello Xinjiang dieci anni prima e viveva in esilio in Turchia, dove aveva ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Per rispondere a quel grido disperato, “fate presto”, è stato necessario attendere 43 mesi. Tanti ce ne sono voluti – nonostante addirittura l’Interpol avesse già nell’agosto del 2021 annullato il mandato di cattura – prima che le organizzazioni per i diritti umani, Amnesty International in testa, riuscissero a convincere le autorità marocchine a rinunciare a estradare Hasan in Cina, dove l’equazione uiguro=terrorista avrebbe significato una persecuzione certa.

Il 14 febbraio 2025, dopo essere stato rimesso in libertà, Hasan è volato negli Usa.

Riccardo Noury

È finita la battaglia per la libertà di Maysoon Majidi, non quella del popolo Kurdo

Maysoon Majidi prima di tutto è una giovane kurda, poi attivista e regista, fuggita dal regime islamico dell’Iran, uno dei regimi occupanti del Kurdistan, che è stato sacrificato e diviso per la volontà dell’Occidente che nel primo dopoguerra ha modificato la carta geografica e i confini del Medioriente, creando alcuni paesi e sacrificandone altri. Così il Kurdistan è stato diviso tra Iraq, Iran, Turchia e Siria e in seguito il popolo kurdo è stato sempre perseguitato. Per questo ha dovuto scegliere tra rimanere sottomesso o combattere, scegliendo di combattere; da quel momento sono iniziate la resistenza e la lotta del popolo kurdo e in un secolo i Kurdi sono stati attaccati anche con armi chimiche, uccisi in massa subendo un genocidio.

Ancora oggi quando si parla di bombardamento chimico e di genocidio, l’attenzione si rivolge subito e giustamente, a Hiroshima e alla Shoah; purtroppo la storia drammatica e la sofferenza dei Kurdi, come di altri popoli che hanno subìto genocidi negli ultimi anni, sono sistematicamente dimenticate, nel silenzio assordante delle istituzioni e dell’opinione pubblica. I Kurdi hanno vissuto la crudeltà di tutti i regimi che hanno governato e governano tuttora il Kurdistan. In Turchia ci chiamano i “turchi della montagna”, in Siria non abbiamo neanche il diritto di avere i documenti di identità, in Iraq non potevamo avere posti di lavoro se non eravamo del partito del Al-Bath, ci hanno mandato via dalle nostre case e hanno trasferito al nostro posto gli arabi per cambiare la demografia delle città kurde; in Iran eravamo considerati inesistenti: chi uccide un kurdo andrà in paradiso (fatwa di Khomeyni durante la preghiera del venerdì). In nessuno di questi stati occupanti si può parlare il kurdo, a differenza della Regione del Kurdistan autonomo in Iraq, regione federale dal 1990 dopo la guerra del Golfo, quando la lingua kurda è diventata la seconda lingua ufficiale del paese, ma ciò non vuol dire che sia tutto rose e fiori.

Il popolo kurdo, circa 40 milioni di persone, ancora oggi viene definito’ minoranza’ ed è senza una nazione. I diritti dei Kurdi sono calpestati da tutti e anche da coloro che si definiscono difensori dei diritti umani e dei valori di giustizia, che siano politici, giornalisti o attivisti. Per tornare al caso di attualità di Maysoon Majidi, tutti i media parlano in nome della difesa della libertà e dei diritti, ed invece sono i primi che li calpestano, senza che se ne rendano conto; infatti generalizzano il suo caso riferendosi alla norma del velo obbligatorio e alle leggi repressive per le donne in Iran. Riporto anche come esempio la vicenda della giovane kurda Jina Amini (che è stata la scintilla per accendere la rivoluzione “Jin Jyan Azadi” in Iran), che ancora oggi spesso viene chiamata “Mahsa”, il nome che le è stato dato dal regime per obbligo, perché i kurdi non possono avere o essere registrati con il nome kurdo. Nominarla come Mahsa rappresenta la negazione dei diritti della persona “Jina” e del popolo kurdo.

Quando si parla del regime islamico dell’Iran, della politica religiosa nel dominio assoluto, sia l’Occidente che gli stessi cittadini iraniani parlano di repressione nei quaranta anni di potere, che ha reso obbligatorio l’uso del foulard e ha limitato i diritti delle donne. Questo è vero fino a certo punto, perché democrazia e giustizia non c’erano nemmeno durante i regimi precedenti: è vero che lo shah, il sovrano di Persia, l’amico dell’Occidente, non obbligava l’uso del foulard, però non c’erano la democrazia, le libertà fondamentali e il rispetto dei diritti della persona; i kurdi erano sempre perseguitati. Ricordiamo che il carcere di Evrin era stato costruito per i kurdi, per i comunisti e per altri popoli (minoranze) oppositori in Iran. Oggi ad Evrin, dove è stata detenuta Cecilia Sala, si trovano anche tanti iraniani. I Kurdi, quindi, subiscono ingiustizia e repressione sin da quando il Kurdistan è stato smembrato, operazione che ha fatto sì che fuggissero e si rifugiassero in Europa e nel mondo.

Quindi Maysoon Majidi era ed è una dei milioni di Kurdi che si sono allontanati per salvarsi la vita e per avere la libertà; anche lei è dovuta scappare in Europa perché non ha trovato la sicurezza nemmeno in quella parte del Paese che oggi viene chiamato “Regione del Kurdistan autonomo in Iraq”, dove Maysoon si era recata per poter continuare la sua lotta e dove ha subìto gravi minacce. E’ scappata da un regime criminale e finita in un carcere italiano perché considerata ingiustamente scafista; in un paese libero invece di trovare la libertà “è caduta dalla bocca del lupo e finita nella bocca del leone”, come dice un proverbio kurdo.

Però non abbiamo mai perso la fiducia nella giustizia italiana. Maysoon da donna kurda ed attivista ha resistito e ha cercato di difendersi per avere la giustizia che non ha avuto in patria, con l’aiuto di tante persone, associazioni e anche di alcuni politici che le sono stati vicini. Ed è stata finalmente assolta!
Quello che importa sottolineare è che durante tutta l’assurda vicenda, ma anche dopo, Maysoon e il popolo kurdo continuano a subire ingiustizie e negazione dei diritti senza che vi sia alcuna attenzione dei media; c’è stato chi ha cercato purtroppo di strumentalizzare la vicenda di Maysoon per motivi politici e partitici.

E’ vero, tanti hanno difeso Maysoon ma allo stesso tempo tanti continuano a non riconoscere la sua identità di persona: alcuni giornali noti, conduttori televisivi che l’hanno intervistata e politici di chiara fama ancora oggi scrivono “ Maysoon, attivista iraniana, attivista kurda iraniana”, anzichè scrivere ‘attivista kurda’, punto e basta, o ‘attivista del Kurdistan occupato dall’Iran’, oppure ‘attivista di Rojhalat’; in questo modo, anche per ignoranza, negano l’identità e i diritti del popolo kurdo.
Ecco perché, tristemente, la storia del popolo kurdo è “la storia di uno Stato mai nato”.

Gulala Salih, donna Kurda, scrittrice e presidente di UDIK “ Unione donne Italiane e kurde”

Unione Donne Italiane e Kurde (UDIK)

Storia e memoria: incontro a Pistoia per il Giorno del Ricordo

Nell’ambito delle celebrazioni del Giorno del Ricordo, organizzate dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPT), insieme all’Anpi, lunedì 17 febbraio, presso la libreria Feltrinelli di Pistoia, si è tenuto un interessante incontro dal titolo “Violenze e traumi del dopoguerra del Novecento nella regione Alto Adriatica”.

L’incontro originariamente doveva essere condotto da Stefano Bartolini, direttore dell’Istituto Storico pistoiese, in dialogo con Marta Verginella, docente di Storia all’Università di Lubiana. Per motivi di salute purtroppo la Professoressa non ha potuto essere presente ed il dialogo si è svolto allora tra Stefano Bartolini e Francesco Cutolo, ricercato in storia e collaboratore dell’ISRPT, che ha introdotto il tema. E’ subito emersa la necessità di storicizzare gli avvenimenti verificatisi nel periodo indicato lungo il confine orientale, una regione mistilingue e multietnica di notevole complessità per le relazioni tra i vari gruppi, che per secoli avevano convissuto sotto l’Impero Asburgico, ove la costruzione di uno stato nazionale, per definizione monoetnico, incontra grosse difficoltà. Con le conquiste seguite alla Grande Guerra, l’Italia occupa nuove porzioni di questo territorio, ritenuto erroneamente italiano da sempre, scontrandosi con una realtà in cui la popolazione, si parla di circa 400.000 persone di etnia slovena o croata, ha invece grande diffidenza verso i nuovi arrivati. Tale atteggiamento sarà interpretato come apertamente ostile dall’esercito italiano, che inizia ad agire molto duramente, anche attraverso fucilazioni, accusando molti civili di essere sabotatori o spie del nemico. Dalla trattazione è emerso poi l’atteggiamento subito apertamente anti slavo e razzista del fascismo, che si è manifestato fino dal discorso che Mussolini tenne a Trieste il 2 settembre 1920, ove definì gli slavi “tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili” e che poi sfociò, il 13 luglio del 1920, nell’incendio del Narodni Dom, la “casa della cultura” slovena di Trieste, nel corso di quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato“. Con la salita al potere del fascismo si assiste inoltre alla sistematica eliminazione di ogni riferimento alla lingua e alla cultura slovena. L’unica lingua ammessa, ovunque e comunque, è l’italiano. Tutti i nomi, sia di persone, che di località vengono italianizzati e tutte le organizzazioni slave, economiche, politiche o culturali, vengono cancellate, in ciò che è stato definito un vero e proprio etnocidio.

Nel maggio del 1941 l’Italia, con la Germania, invade la Slovenia e ne annette la parte meridionale, che diventa la Provincia Italiana di Lubiana. Nell’area, dove vivevano circa 320.000 persone, sorge subito un movimento di resistenza, guidato dai comunisti sloveni, per contrastare il quale l’Italia fascista invia un esercito di circa 60.000 uomini, che mette in atto una feroce repressione e una vera e propria guerra ai civili, durante la quale, in appena due anni, circa 50.000 sloveni o persero la vita o subirono gravissime offese. Esemplari sono le parole del Generale Roatta, comandante le truppe italiane, che nel marzo del ’42, all’interno della famigerata circolare 3C, stabiliva che “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula «dente per dente», ma bensì da quella «testa per dente»”. Gli farà eco il suo sottoposto, generale Robotti, che in una nota ai suoi soldati osserva che “si ammazza troppo poco!”. Oltre a uccisioni, incendio di villaggi e altre violenze di vario tipo, l’esercito italiano colpisce la popolazione slovena con deportazioni di massa, tra cui donne e bambini, nel tentativo di creare terra bruciata intorno ai resistenti. I deportati sloveni, assieme ad altri croati, montenegrini, greci ed ebrei, per un totale di circa 100.000 persone, vengono internati in una serie di campi di concentramento, sparsi per Slovenia, Croazia e Italia, dove circa 5.000 di loro moriranno a causa di fame, freddo e malattie legate alle terribili condizioni di detenzione, intenzionalmente applicate dagli italiani. Illuminanti sono le affermazioni del generale Gambara che nel ’43, riferendosi al campo sull’isola di Arbe (Rab), scrisse “Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo”. Ad Arbe, su un totale di circa 10.000 civili deportati, compresi donne, vecchi e bambini, circa 1500 morirono per le condizioni di detenzione. Il più piccolo aveva meno di un anno, il più vecchio oltre novanta.

Tutto ciò terminerà l’8 settembre 1943, con l’armistizio e lo sfascio totale dell’esercito italiano. Nelle regioni di confine parte a questo punto la vendetta delle popolazioni slave che, con una sorta di rivolta contadina non organizzata, aggrediscono, in vendette personali e regolamenti di conti, i simboli e i rappresentanti dello stato occupante. E’ questa la prima parte della vicende delle cosiddette foibe, cavità carsiche, dove vengono gettate alcune delle persone uccise, al fine di occultarne i corpi. Questa fase si conclude rapidamente con l’arrivo dell’esercito tedesco, che riprese subito il controllo del territorio, poi direttamente annesso al Reich, e continuò l’occupazione e la guerra con la consueta catena di crimini e stragi di civili. Nella primavera del 1945 la guerra termina con la vittoria dell’armata titina, che arriva a Trieste, assieme agli Alleati e ai partigiani italiani. E’ in questo periodo che, nelle zone controllate dall’esercito jugoslavo, si svolge la seconda e più vasta fase della sanguinosa vicenda delle foibe, anche se in questo caso la maggior parte delle vittime non moriranno nelle foibe, ma nei campi di prigionia jugoslavi, non per fucilazioni, bensì ancora per le pessime condizioni di detenzione. In questa fase, alla fine della guerra, la Jugoslavia è un vero e proprio Stato comunista, che vuole imporre il proprio controllo su tutti i territori liberati, sia punendo coloro che sono considerati criminali di guerra, collaborazionisti o comunque nemici della Resistenza, sia colpendo tutti quelli ritenuti pericolosi, perché contrari al comunismo, o, nel caso del confine, perché contrari all’instaurazione del potere jugoslavo.

E’ sempre nell’ambito di queste violente vicende belliche e post belliche che si inseriscono anche gli altrettanto dolorosi avvenimenti dell’esodo da Dalmazia, Istria e Venezia Giulia, sia delle popolazione italiane che là vivevano da tempo immemore, sia di quelle immigrate dopo le conquiste territoriali della prima guerra mondiale o a seguito dei tentativi dell’Italia fascista di italianizzare i territori originariamente slavi o multietnici. L’esodo di circa 250.000 italiani e 50.000 tra sloveni e croati, si svolgerà in più fasi, che corrispondono alla stabilizzazione del quadro statuale e dei confini, con l’allargamento progressivo delle zone amministrate dalla Stato Jugoslavo il quale, pur non emanando mai alcuna norma che obbligasse nessuno ad andarsene, fece in vario modo pressioni per favorire la partenza degli italiani. Le partenze si concentrarono infatti soprattutto in occasione dei trattati del 1947 e del 1954, quando apparve chiaro che gli jugoslavi non se ne sarebbero andati dai territori loro assegnati.

Dalla lunga disamina dei relatori è emerso quindi che le tragiche vicende di foibe ed esodo vadano comprese, anche se non giustificate, all’interno di un contesto storico, che spesso non coincide con la memoria dei singoli.

Enrico Campolmi

In nome e per conto di tutti i Luca Rossi

Ci sono a volte dei corto circuiti emotivi che consentono dei collegamenti, delle connessioni che offrono sprazzi di lucidità.

Ieri sera ero a una partecipatissima serata organizzata da Hope Club e da Biella antifascista nella cittadina ai piedi del Mucrone.

Ascoltavo Perla Allegri di Antigone e Gianluca Vitale, avvocato, descrivere i dispositivi contenuti nel famigerato DDL Sicurezza, in corso di approvazione in Parlamento.

Sarà stata la stessa emozione che ha portato Perla Allegri ad aprire il suo intervento dicendo che normalmente si sente sola a trattare questi temi scomodi e invece, data la folta partecipazione, “vedere questa sala piena di persone stasera mi riempie il cuore”

Vi è stata poi, certo, una ampia e fattuale spiegazione di come questo Decreto “Sicurezza”, qualora venisse approvato, ci renderà ancora più insicuri, e di quanto sia calibrato per attaccare e rendere penalmente perseguibili i giovani, i migranti e i detenuti. E di questo scriveremo ancora nei prossimi giorni e mesi.

Eppure quella che sento viva, la mattina dopo, è ancora la parte emotiva. Ieri guardavo Perla e mi veniva da piangere di rabbia. Il perché l’ho spiegato nel breve intervento che ho fatto appena conclusi quelli dei relatori.

39 anni fa, a Milano, esattamente il 23 febbraio del 1986 morì un ragazzo a cui, pur non avendolo conosciuto, sono molto legato. Si chiamava Luca Rossi.

E’ la sera del 23 Febbraio 1986. Luca ed un amico, giovani militanti e studenti universitari non ancora ventenni, stanno correndo per prendere la filovia in Piazzale Lugano, quartiere Bovisa di Milano. In un altro punto della stessa piazza, alcune persone discutono prima con calma e poi sempre più animatamente e scoppia una rissa. Una delle persone coinvolte è un agente fuori servizio in forza alla Digos. La rissa è un susseguirsi di pestaggi e discussioni e dopo oltre quindici minuti finisce senza che l’agente chiami rinforzi. Due delle persone coinvolte fuggono in auto ed il poliziotto incapace di affrontare la situazione con la ragione e l’autorità richieste, estrae la sua pistola d’ordinanza ed in posizione di tiro, facendo arbitrariamente e illegittimamente uso delle armi, spara ad altezza d’uomo per colpire i fuggitivi. Uno dei proiettili ferisce a morte Luca che si trovava a passare per caso in quel luogo e in quel momento. Ma non è un “caso” che consente al poliziotto di sparare. E’ una legge, la cosiddetta “Legge Reale” che conta al suo attivo negli anni decine e decine di vittime “per sbaglio”. La successiva sentenza definitiva, che chiude il processo voluto dai familiari per ricerca di verità e giustizia e non certo per vendetta, riconosce l’agente colpevole di omicidio colposo aggravato.

Queste le parole che descrivono la storia di Luca sul sito dei suoi amici e compagni, che poi sono anche i miei compagni e amici.

Il riconoscimento di colpevolezza dell’agente che usò impropriamente la sua arma di servizio e che colpì Luca che correva per prendere il filobus, nel quadro normativo del DDL Sicurezza, non sarebbe più possibile, o sarebbe molto più difficile; in quanto il decreto prevede la possibilità, per il personale di polizia, di avere la propria arma personale in qualunque momento e di poterla utilizzare anche non in servizio.

Ripeto quello che ho detto ieri sera: questa norma è espressione di una ideologia autoritaria che vuole negare tutto ciò che c’è di umano non solo nelle nostre Leggi, ma proprio nelle nostre vite. E’ il caso di non rimanere ulteriormente divisi e isolati. Quello che dobbiamo fare è unirci e combattere. Per restare umani

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento,
perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto,
perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi.
Ma poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente,
perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

 

Ettore Macchieraldo

Un welfare sempre meno universalistico e sempre più disuguale

È stato pubblicato il 18° Rapporto sulla sussidiarietà, “Sussidiarietà e… welfare territoriale”, a cura di Emilio Colombo, Paolo Venturi, Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. Il Rapporto mette in evidenza le principali criticità del sistema, che sono sostanzialmente individuate: nella disomogeneità territoriale della spesa e nella sua allocazione sbilanciata, nella mancanza di un esame approfondito dei bisogni, nell’eterogeneità delle norme e nella policentricità eccessiva dei centri di governance e nella tendenza a standardizzare e irrigidire l’offerta. Il tutto in un contesto in cui crescono le diseguaglianze.

Un capitolo del Rapporto si dedica alla spesa delle famiglie per il welfare, che – dopo la drastica contrazione provocata dalla pandemia (-14,6% dal 2018 al 2020) – torna a crescere dell’11,4%. Nel 2021, le famiglie italiane hanno speso mediamente 5.317 euro per le prestazioni di welfare. La spesa complessiva è stata circa 136 miliardi di euro, pari al 17,5% del reddito familiare netto e il 7,8% della ricchezza nazionale. A questo dato potrebbero aggiungersi i 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, cioè quelle formule promosse dalle parti sociali e dalle imprese.

“Nel campo del welfare, si legge nel Rapporto, la voce più alta di spesa per le famiglie italiane è quella della salute (38,8 miliardi di euro), seguita dall’assistenza agli anziani e altri familiari disabili o non autosufficienti (29,4 miliardi). Rispetto al 2017, entrambe le aree – sanità e assistenza – hanno registrato un incremento di spesa, rispettivamente pari a 2 e 4 miliardi.

Di seguito si trova l’istruzione e l’educazione con una spesa di 12,4 miliardi (incrementata, durante il periodo Covid, dall’acquisto di device tecnologici a supporto della DAD – Didattica a Distanza); mentre si riducono nel 2020 le spese per infanzia ed educazione prescolare, crollate a causa della chiusura dei nidi e degli asili e che nel 2021 risulta essere in ripresa, con un incremento registrato da 4 a 6,4 miliardi.”

Il welfare vede, come è noto, in prima linea i Comuni, gli Ambiti territoriali sociali e le varie forme associative sovracomunali che hanno impegnato, nel 2021, 10,3 miliardi di euro, di cui 745 milioni sono stati rimborsati dalla compartecipazione pagata dagli utenti (7,2%) e 1,2 miliardi dal Servizio Sanitario Nazionale (11,8%).

I servizi sociali dei Comuni sono rivolti prevalentemente alle famiglie con figli e ai minori in difficoltà, agli anziani e alle persone con disabilità (aree di utenza che assorbono il 79% delle risorse impegnate). Il 10,8% riguarda l’area Povertà e il disagio adulti, il 4,2% è destinato ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, una minima parte (0,3%) riguarda interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,7% è assorbito dalle attività generali e dalla multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.).

La spesa comunale per il welfare sconta però inaccettabili elementi di disuguaglianza territoriale: al Sud la spesa pro-capite per il welfare territoriale (72 euro) è circa la metà della media nazionale (142 euro). Le Isole, trainate dalla Sardegna, si attestano su 134 euro pro-capite, il Centro a 151, il Nord-ovest a 156, il Nord-est a 197. A livello regionale i divari sono ancora più marcati: si passa da Regioni come la Calabria, la Basilicata e la Campania, con 37, 65 e 66 euro pro-capite rispettivamente, al Trentino Alto-Adige, con 429 euro.

Dopo la Provincia Autonoma di Bolzano, i livelli più alti di spesa sociale dei Comuni (oltre 200 euro pro- capite) si hanno in tre Regioni a statuto speciale (Valle D’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna), nella Provincia Autonoma di Trento e in Emilia Romagna. Alle differenze fra Regioni e ripartizioni geografiche si intrecciano quelle per tipologia dei Comuni: le risorse dedicate ai servizi sociali crescono, ad esempio, all’aumentare della dimensione demografica; a livello nazionale i Comuni con oltre 50.000 abitanti spendono mediamente 182 euro, ma si passa dai 106 euro del Mezzogiorno a 240 del Nord; per i Comuni più piccoli (sotto i 10.000 abitanti) la media è di 118 euro, che diventano 88 euro nel Mezzogiorno e aumentano fino a 139 al Nord.

Se da un lato nel Mezzogiorno il divario tra le classi di ampiezza dei Comuni è meno accentuato, dall’altro lato in quest’area si registra un livello di spesa molto più basso rispetto al resto del Paese, soprattutto rispetto ai Comuni del Nord Italia: in media la spesa dei Comuni più grandi del Sud e delle Isole (106 euro) è inferiore a quella dei Comuni più piccoli dell’Italia settentrionale (139 euro).

Il Rapporto evidenzia la necessità che l’Italia lavori per un welfare più moderno, con maggiori investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua e maggiori servizi alle famiglie (come gli asili nido), praticando maggiormente un approccio collaborativo e il metodo della “amministrazione condivisa” alla luce di una applicazione virtuosa del principio di sussidiarietà.

Qui per scaricare il Rapporto: https://www.sussidiarieta.net/cn4351/welfare-motore-di-sviluppo-si-ma-previa-ristrutturazione.html

 

Giovanni Caprio

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 3° parte

Eccoci alla terza e ultima parte dell’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i tragici fatti del Sud America, Aurora arriva in Europa, prima in Svezia e successivamente in Italia…

Arrivi in Italia nel 1976, quindi. Come te la sei cavata?

All’inizio, grazie a delle donne legate a padre David Maria Turoldo, trovai due case dove potevo andare a fare i lavori domestici. Poi, attraverso la mia attività col sindacato uruguaiano, trovai lavoro alla CGIL, dove ho lavorato per molti anni. In seguito ho trovato un impiego presso la Provincia di Milano, fino al 2015.

Veniamo a tutto quello che facesti in Italia per l’Uruguay

Fin dall’inizio girai tanto, anche per l’Europa, a raccontare, denunciare, quello che avveniva nel mio Paese. Facevo parte di un Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dell’Uruguay. Mi mossi anche molto con i compagni del partito comunista uruguaiano che erano in Italia, ma sempre sul piano della solidarietà. Grazie anche a Tucci, mio secondo marito, che è ancora qui con me ho potuto fare tutto questo, benchè con due figlie.

Nel frattempo scoprimmo che in Italia esisteva questo articolo 8 del Codice penale, per noi importantissimo, che dice che OVUNQUE succeda qualcosa ad un cittadino italiano, la giustizia italiana deve intervenire. Quindi noi, sull’onda del processo alla Esma (famoso luogo di tortura in Argentina) cominciammo a muoverci. Nel frattempo, il giudice Garzon in Spagna aveva chiesto il rimpatrio di Pinochet: qualcosa si stava muovendo. Così insieme ad altre quattro donne uruguaiane, ma con figli o mariti italiani, andammo alla procura di Roma. Li conoscemmo Giancarlo Capaldo, che era il Pubblico Ministero, e raccontammo le nostre storie. Lui stava già seguendo le vicende di altri cittadini italiani provenienti dal Cile e dall’Argentina, che avevano denunciato i militari dei loro Paesi. Capaldo, seguendo queste vicende (che avevano fra l’altro come centro principale Buenos Aires, dove avvenivano cose tremende) ebbe l’intuizione di mettere insieme queste storie. Ringrazierò quest’uomo tutta la vita.

Da destra: i PM Giancarlo Capaldo e Tiziana Cuggini, oltre gli avvocati dell’accusa

Avevamo iniziato a parlare di cosa fosse il Plan Condor negli anni ‘80: un piano strategico per eliminare gli oppositori alle dittature. La grandissima mano che ci permise di conoscere bene il Plan Condor ce la diede un uomo straordinario, paraguaiano, che abbiamo perso alcuni mesi fa: il professor Martin Almada. Ci raccontò che durante la sua prigionia in Paraguay aveva incontrato un militare (uno dei pochi militari oppositori del regime) che gli disse dove avrebbe potuto trovare tutta la documentazione su quello che si stava facendo in alcuni Paesi latinoamericani. Il Plan Condor dava la possibilità alle polizie dei vari paesi dell’area di perseguire ovunque nel Cono Sur i propri oppositori. In effetti una volta uno dei vertici militari aveva detto: “La sinistra non vuole le frontiere? Anche noi non le vogliamo!”.

Venne così trovato ad Asuncion, in Paraguay, quello che si è chiamato l’archivio del terrore, dove si poteva leggere tutto. Era un piano sottoscritto in Cile da tutte le dittature del continente.

Come andò il processo che metteste in piedi con Capaldo?

La giustizia italiana ci ha messo molto tempo, ma era normale, ci voleva molto tempo per avere i documenti da quei Paesi, fare le traduzioni, superare gli intoppi burocratici sia qui in Italia che lì, e poi si fecero molti viaggi in Sud America. Ci volle tempo, fatica, costanza. Capaldo raccolse moltissime dichiarazioni. Volle sentire giornalisti, esperti, storici, i testimoni furono circa 140. Alla fine, Capaldo sentì che aveva ricostruito tutto il quadro, andò davanti al giudice e venne riconosciuto che questo era un processo da farsi. Dal 1999 al 2015 furono gli anni delle ricerche, nel 2015 iniziò il processo pubblico. Certo, io avrei voluto in Uruguay un processo giusto per la morte di mio marito. Non è stato possibile. L’Italia ha compensato questa grave mancanza.

Considerate che si trattava di un processo fatto dopo decine di anni, a migliaia di chilometri di distanza, con alcuni giudici popolari che non sapevano neanche dove fossero questi Paesi. In quegli anni si sapeva poco e si parlava pochissimo di quelle dittature. Andava spiegato tutto. Nelle piazze si era parlato soprattutto del Cile, ma ben poco dei processi. Bisogna però riconoscere che le condanne definitive del nostro processo in America Latina ebbero ripercussioni enormi. Molti avvocati e giudici di là si rivolsero a noi per avere le sentenze italiane. Venne creato un precedente fondamentale. Quell’articolo 8 qui in Italia fu importantissimo. Il processo avviato da noi si concluse nel 2021 con la seguente condanna definitiva: “Tutti gli imputati vivi, all’ergastolo”. Certo, uno solo andò in galera, un militare di nome Troccoli che viveva a Salerno. Molti erano morti, altri erano già in carcere nei nostri Paesi.

Ma allora perché dici che fu l’Italia a darti giustizia?

Prima di tutto perché in Sud America non si è mai fatto un processo Condor, ma solo processi riferiti a una o due vittime.

Tu seguisti il processo a Roma: dovevi o volevi?

Io collaboravo, insieme ad altre, con il PM Capaldo nella ricerca di materiale e nelle traduzioni. La mole di carte che producemmo fu impressionante, dovemmo presentare le prove su tutto. Tutto. Di solito venivo accompagnata a Roma dai miei tre nipoti.

Da destra: la PM Cuggini, Aurora Meloni e il suo avvocato Giancarlo Maniga

Alla fine del processo giudiziario, nel ’21, tirai il fiato, ma già con la prima sentenza io avevo pianto. Qualcuno mi ha chiesto a cosa avessi pensato in quel momento… Io avevo pensato a Daniel, a Guillermo, a Luis, a tutti quelli che non c’erano più e a quelli che ancora non avevano trovato. Non devi dimenticare che noi abbiamo ancora una ferita aperta, che sono i desaparecidos. Il problema vero è che noi sappiamo che loro (i militari) SANNO. Ancora pochi mesi fa abbiamo trovato in un presidio militare i resti di una compagna scomparsa nel ’77. Sono i resti della settima vittima che ritroviamo dei 197 scomparsi che abbiamo in Uruguay. Solo 7! Dopo 50 anni! Una lentezza tremenda, anche perché non ci sono finanziamenti per la ricerca e per gli scavi. Noi poi ci rivolgiamo ad antropologi argentini per l’identificazione del DNA, non è semplice.

Comunque, per me, questo processo è stata GIUSTIZIA. Pensa che il relatore della Corte di Cassazione, il dottor Gaeta, fece un intervento di più di un’ora, determinando poi la decisione della corte, in cui analizzò punto per punto tutto quello che portava alla condanna di questi criminali. Un intervento meraviglioso, come se lo avessimo scritto noi, e da parte di un relatore della Cassazione: a questi livelli non avviene mai che vi sia un tale coinvolgimento. Quando con quest’uomo ci vedemmo presso un’università romana per un incontro, piangemmo insieme.

Quanto poi è stato reso pubblico il risultato di questo processo, in Italia?

Un po’ di risonanza ci fu. Durante il processo entrammo in contatto con diversi giornalisti, io intervenni in diversi servizi di RaiNews e Radio1, oltre ai contatti con i tanti amici in Italia e a numerosi blog che ci hanno dato spazio. Se cerchi su internet la vicenda del processo Condor, trovi moltissimo materiale. In America Latina si parla ancora dell’esito di questo processo e del plan Condor.

Chi si fece carico delle spese di questo lungo processo?

Soprattutto lo Stato italiano. Alcune regioni italiane, alle quali la vittima apparteneva, hanno aiutato. La chiesa valdese partecipò alle spese.

Cosa pensi di coloro che al giorno d’oggi hanno nostalgia di quelle dittature o sono negazionisti rispetto ai fatti che voi avete denunciato?

Noi dobbiamo continuare a raccontare la nostra storia e a spiegare che non si può negare quello che è avvenuto. Io mi sono ancora emozionata quando, pochi giorni fa, ho visto le immagini dell’estremo saluto ai resti della compagna di cui parlavo prima, fatto nell’enorme atrio dell’università di Montevideo. Ho visto un popolo che piangeva e che diceva: “la tua lotta continua ad essere la nostra”, e tra loro moltissimi giovani. Sono pochi resti, in un’urna, ma emozionano ancora moltissimo. A noi rimane l’ultima madre di quel periodo, che tra poco compirà cento anni, lucidissima. Ogni volta che posso vado a parlare, a raccontare, nelle scuole, soprattutto intorno al Giorno della Memoria. Pur se è difficile con i tempi che corrono, dobbiamo insistere perché sia davvero “nunca mas”.

Per chiudere, cosa pensi dell’essere umano e della sua capacità di compiere violenze?

Che non ha limiti. Che è ancora incredibile, nonostante la storia, pensare che un essere umano possa essere così crudele, malvagio, spietato…ma poi ci guardiamo intorno e vediamo le guerre in atto: di cosa ci stupiamo?. E non solo le guerre. Che dire: che il sopravvento è stato preso dal potere e dal denaro, come continua a ripetere Francesco.  Io credo che la forza per combattere tutto ciò si possa trovare nella lotta. Sempre. Perché credere nella vita, nell’amore e nell’essere umano è lo stimolo, e anche l’esempio che mi sento di trasmettere ai miei nipoti.

Anche in questa lotta, lunga, faticosa, dura, foste quasi esclusivamente donne. Perché?

Forse perché noi diamo la vita, quindi siamo molto attaccate ad essa. Non voglio dire che gli uomini non abbiano forza, abbiamo avuto al nostro fianco uomini bravissimi, ma la nostra è particolare.

Um’ultima nota, un po’ sciocca: hai un cognome impegnativo adesso…

(Aurora ride) Non c’entro niente.

 

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti. A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma. Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

Guerra e pace in Ucraina. La tragedia e la farsa

Capita spesso nella storia che la tragedia si trasformi in farsa per farsi ancor più tragedia, con l’approssimarsi della catastrofe che si manifesta nell’evidenza del ridicolo.
I giochi di guerra che attraversano da qualche anno l’Ucraina mutano improvvisamente i termini della propria narrazione secondo i capricci del nuovo amministratore delegato dell’impero occidentale a conduzione nordamericana. I presunti protagonisti di ieri divenendo comprimari, secondo i voleri del padre padrone, mostrano la loro natura di insignificanti pedine.

Confesso che provo quasi compassione per la sorte toccata nell’attuale congiuntura a Zelensky, il giullare di Kiev, dopo le ultime sparate di sua prepotenza Trump, il nuovo padrone d’oltre oceano. Eppure il servo ucraino a modo suo ce l’aveva messa tutta per fare contenti i suoi padroni.
Divenuto presidente di un paese segnato dal sanguinoso colpo di Stato di piazza Maidan, dalla presenza dei neonazisti inquadrati in formazioni militari istituzionali, e colpevole di avere disatteso gli accordi di Minsk sulla concessione dell’autonomia nelle regioni russofone, aveva cercato di barcamenarsi come poteva dai confini dell’impero, di fronte alle pretese del colosso russo.

Prima ancora dell’inizio della guerra e soprattutto appena dopo che il fragore delle armi aveva preso il sopravvento, con la mediazione della Turchia, delle trattative di pace c’erano pur state, e seppure non in modo definitivo, una base di possibile accordo era stata prefigurata (adesione dell’Ucraina alla UE, ma non alla NATO, con ridimensionamento dell’esercito ma con garanzie internazionali di difesa in caso di necessità, rimandando a futuri incontri bilaterali le spinose questioni territoriali).

Come si sa il tavolo fu fatto saltare dalla diplomazia americana e da un indemoniato Boris Johnson, primo ministro inglese, che si precipitò a Kiev per ordinare che nessuna pace doveva essere fatta e che la Russia poteva essere sconfitta. Il buon soldatino ucraino rispose “ubbidisco”, facendo forse un favore allo stesso Putin che probabilmente dalla prosecuzione delle ostilità avrebbe potuto ottenere anche di più.

Da quel momento, per condurre la sua guerra per procura nell’interesse dell’Occidente globale, Zelensky ha fatto incetta di denaro e di armi dando in cambio la vita dei suoi compatrioti, se necessario fino all’ultimo uomo.

Io non oso pensare (anche per non piegarmi in due dalle risate in una situazione così drammatica) quale possibile faccia abbia potuto fare il burattino ucraino nel sentire Trump definirlo un comico mediocre e un dittatore, indicandolo addirittura come il principale responsabile della guerra; lui, poveraccio, che altro non aveva fatto se non ubbidire agli ordini che gli venivano impartiti.

Pare che ora, per il nostro uomo, si prospetti un esilio in Francia. Estremo segno di generosità nei confronti dello schiavo, cui viene risparmiata la vita, ma non l’ignominia, da parte del signore e padrone d’oltre oceano, il quale in cambio della sua promessa di pace si prenderà le terre rare dell’Ucraina, che sono di fatto l’unica vera ricchezza del paese, alla faccia di un popolo costretto a combattere nell’interesse di altri. Ma si sa che chi è schiavo deve farsene una ragione (a meno di non essere capace di ribellarsi. Ma questa è un’altra storia).

A dire il vero, quanto detto a proposito del mentecatto di Kiev, lo si potrebbe ripetere per i leaders europei che hanno costretto i loro paesi e i loro popoli a dissanguarsi fornendo risorse ed armi per una guerra che non gli apparteneva; che hanno accettato in silenzio di tutto, a partire dall’obbligo di dovere rinunciare al gas russo a favore di quello molto più costoso proveniente dal nord America. Oggi la loro dedizione al padrone d’oltre oceano viene ricompensata con la concessione di poter accogliere l’Ucraina nella UE in modo da accollarsi tutte le spese della ricostruzione, lasciando le risorse del paese a chi vuole “fare l’America di nuovo grande”.

Certo l’Europa, pur nella ormai certa decadenza, conta qualcosina di più rispetto all’Ucraina, e qualcuno tenta timidamente di prendere la parola per far sentire anche la voce del vecchio continente. Ci ha provato Macron, il quale però piuttosto che polemizzare apertamente con Trump, ha preferito proporre un atto di grandeur “alla francese”, ipotizzando l’invio di 30.000 uomini in difesa del territorio ucraino.

Per fortuna con ogni probabilità il progetto fallirà per eccesso di presunzione e l’Europa si rassegnerà al suo ruolo sempre più insignificante. La proposta tuttavia, nella sua smania guerrafondaia e nella sua velleità, ripropone l’insano connubio tra il terrore e l’orrore del tragico con il comico e il ridicolo della farsa.
(Putin intanto se la ride dalla poltrona di casa sua.)

Antonio Minaldi