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Guerra e pace in Ucraina. La tragedia e la farsa

Capita spesso nella storia che la tragedia si trasformi in farsa per farsi ancor più tragedia, con l’approssimarsi della catastrofe che si manifesta nell’evidenza del ridicolo.
I giochi di guerra che attraversano da qualche anno l’Ucraina mutano improvvisamente i termini della propria narrazione secondo i capricci del nuovo amministratore delegato dell’impero occidentale a conduzione nordamericana. I presunti protagonisti di ieri divenendo comprimari, secondo i voleri del padre padrone, mostrano la loro natura di insignificanti pedine.

Confesso che provo quasi compassione per la sorte toccata nell’attuale congiuntura a Zelensky, il giullare di Kiev, dopo le ultime sparate di sua prepotenza Trump, il nuovo padrone d’oltre oceano. Eppure il servo ucraino a modo suo ce l’aveva messa tutta per fare contenti i suoi padroni.
Divenuto presidente di un paese segnato dal sanguinoso colpo di Stato di piazza Maidan, dalla presenza dei neonazisti inquadrati in formazioni militari istituzionali, e colpevole di avere disatteso gli accordi di Minsk sulla concessione dell’autonomia nelle regioni russofone, aveva cercato di barcamenarsi come poteva dai confini dell’impero, di fronte alle pretese del colosso russo.

Prima ancora dell’inizio della guerra e soprattutto appena dopo che il fragore delle armi aveva preso il sopravvento, con la mediazione della Turchia, delle trattative di pace c’erano pur state, e seppure non in modo definitivo, una base di possibile accordo era stata prefigurata (adesione dell’Ucraina alla UE, ma non alla NATO, con ridimensionamento dell’esercito ma con garanzie internazionali di difesa in caso di necessità, rimandando a futuri incontri bilaterali le spinose questioni territoriali).

Come si sa il tavolo fu fatto saltare dalla diplomazia americana e da un indemoniato Boris Johnson, primo ministro inglese, che si precipitò a Kiev per ordinare che nessuna pace doveva essere fatta e che la Russia poteva essere sconfitta. Il buon soldatino ucraino rispose “ubbidisco”, facendo forse un favore allo stesso Putin che probabilmente dalla prosecuzione delle ostilità avrebbe potuto ottenere anche di più.

Da quel momento, per condurre la sua guerra per procura nell’interesse dell’Occidente globale, Zelensky ha fatto incetta di denaro e di armi dando in cambio la vita dei suoi compatrioti, se necessario fino all’ultimo uomo.

Io non oso pensare (anche per non piegarmi in due dalle risate in una situazione così drammatica) quale possibile faccia abbia potuto fare il burattino ucraino nel sentire Trump definirlo un comico mediocre e un dittatore, indicandolo addirittura come il principale responsabile della guerra; lui, poveraccio, che altro non aveva fatto se non ubbidire agli ordini che gli venivano impartiti.

Pare che ora, per il nostro uomo, si prospetti un esilio in Francia. Estremo segno di generosità nei confronti dello schiavo, cui viene risparmiata la vita, ma non l’ignominia, da parte del signore e padrone d’oltre oceano, il quale in cambio della sua promessa di pace si prenderà le terre rare dell’Ucraina, che sono di fatto l’unica vera ricchezza del paese, alla faccia di un popolo costretto a combattere nell’interesse di altri. Ma si sa che chi è schiavo deve farsene una ragione (a meno di non essere capace di ribellarsi. Ma questa è un’altra storia).

A dire il vero, quanto detto a proposito del mentecatto di Kiev, lo si potrebbe ripetere per i leaders europei che hanno costretto i loro paesi e i loro popoli a dissanguarsi fornendo risorse ed armi per una guerra che non gli apparteneva; che hanno accettato in silenzio di tutto, a partire dall’obbligo di dovere rinunciare al gas russo a favore di quello molto più costoso proveniente dal nord America. Oggi la loro dedizione al padrone d’oltre oceano viene ricompensata con la concessione di poter accogliere l’Ucraina nella UE in modo da accollarsi tutte le spese della ricostruzione, lasciando le risorse del paese a chi vuole “fare l’America di nuovo grande”.

Certo l’Europa, pur nella ormai certa decadenza, conta qualcosina di più rispetto all’Ucraina, e qualcuno tenta timidamente di prendere la parola per far sentire anche la voce del vecchio continente. Ci ha provato Macron, il quale però piuttosto che polemizzare apertamente con Trump, ha preferito proporre un atto di grandeur “alla francese”, ipotizzando l’invio di 30.000 uomini in difesa del territorio ucraino.

Per fortuna con ogni probabilità il progetto fallirà per eccesso di presunzione e l’Europa si rassegnerà al suo ruolo sempre più insignificante. La proposta tuttavia, nella sua smania guerrafondaia e nella sua velleità, ripropone l’insano connubio tra il terrore e l’orrore del tragico con il comico e il ridicolo della farsa.
(Putin intanto se la ride dalla poltrona di casa sua.)

Antonio Minaldi

“Valerio vive, un’idea non muore”: manifestazione in ricordo di Valerio Verbano

Come ogni anno a partire dal 1980, terribilis annus, oltre 4.000 persone si sono radunate sotto la casa di Valerio Verbano, liceale impegnato nel quartiere e in una indagine sui gruppi eversivi di estrema destra, ucciso sotto gli occhi dei genitori legati ad una sedia. E’ utile ricordare che il dossier cui Valerio stava lavorando è sparito come pure la pistola di ‘ordinanza’ con la quale è stato freddato. Valerio è diventato cosi il simbolo di una generazione in lotta contro la grigia cappa clerico/fascista che opprimeva e opprime Roma dove i centri sociali sono sempre minacciati di sgombero, mentre Casapound ha persino le utenze gratis.

Dopo l’omaggio floreale alla targa posta all’ingresso dell’abitazione di Valerio, un corteo di giovani è poi sfilato per le vie dei quartieri del Tufello e Montesacro. Gli studenti delle scuole hanno preparato con cura la manifestazione con riunioni, assemblee e con una settimana di trasmissioni a Radio Onda Rossa. Hanno persino rinfrescato la scritta sui muri del liceo Archimede che Valerio frequentava. Alla domanda: “Siete qui per Valerio o contro il DDL sicurezza del governo?” uno studente del liceo Augusto risponde: “C’è differenza?”. Insieme agli studenti hanno sfilato curdi e palestinesi con le loro bandiere, giovani donne a ricordarci con i loro slogan che non c’è antifascismo senza lotta contro il patriarcato ed infine i compagni, ormai anziani, di Valerio molti dei quali tornati apposta a Roma. Ha praticamente sfilato tutto il III municipio.

Terribilis annus il 1980 apertosi con l’omicidio di Mattarella, seguito da Ustica e poi dalla strage alla stazione di Bologna, per concludersi con la sconfitta operaia alla Fiat (61 licenziamenti e un mese di occupazione). Come con un terremoto (Irpinia) si chiude il ventennio iniziato a Genova con la mobilitazione per impedire il comizio di Almirante. Si chiude un ventennio di conquiste sociali: diritto di famiglia, scala mobile, statuto dei lavoratori, divorzio e via discorrendo. Ma “Il vento soffia ancora” si legge su una grande bandiera bianca che al centro reca l’immagine di un coloratissimo uccello. “Sarà un caso che a partire da allora sono nati circa 2.500 Valerio e Valeria?” fa notare un compagno di lotta di Valerio.

Il corteo si è concluso con un concerto, perché l’antifascismo si pratica anche con la socialità e la cultura.

Rachele Colella

Redazione Roma

L’irresistibile attrazione delle banche verso l’industria delle armi

L’aggressione russa all’Ucraina ha spinto, anche in Italia, a una corsa globale agli armamenti. Nel 2024 la spesa militare globale ha raggiunto i 2.443 miliardi di dollari, segnando un nuovo record in un contesto di crescente instabilità geopolitica. Dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio 2022, l’Ue e i suoi Stati membri hanno mobilitato 124 miliardi di euro a sostegno dell’Ucraina, una cifra significativa rispetto agli investimenti previsti per il Green New Deal. Per quanto riguarda il nostro Paese, utilizzando il Database SIPRI si nota che nell’arco temporale 2015-2023 la spesa militare italiana passa da 23,83 miliardi a 32,63 miliardi di dollari (+36,9%). In termini di incidenza sul PIL, siamo passati dall’1,2% all’1,6%. Ciò implica una spesa pro-capite che è lievitata da 368,35 dollari nel 2015 ai 603,50 dollari del 2023. Anche per quanto riguarda l’esportazione di materiale d’armamento l’Italia ha una posizione di tutto rispetto: si trova al 6° posto come Paese esportatore di armi nel mondo. Il database aggiornato annualmente del SIPRI colloca l’Italia subito dietro la Germania, ma prima del Regno Unito. Con il 4,3% dell’ammontare delle esportazioni mondiali nel quinquennio 2019-2023 l’Italia ha visto crescere dell’86% quest’attività rispetto al quinquennio precedente (2014-2018). Il 71% delle sue esportazioni, l’Italia le dirige verso il Medio Oriente, una delle aree a maggior densità di conflitti endemici del pianeta. In quest’area si collocano tre dei maggiori 10 importatori di armi: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. Gli Stati Uniti, sempre secondo SIPRI, coprono il 52% delle esportazioni totali verso il Medio Oriente. A seguire la Francia (12%), l’Italia (10%) e la Germania (7,1%).

Siamo di fronte ad un preoccupante trend di crescita delle spese militari, che tutto fa pensare che sarà purtroppo destinato a continuare anche nel prossimo futuro. Spese militari verso le quali, come ha evidenziato “ZeroArmi”, alcune banche italiane subiscono un’irresistibile attrazione. Il progetto ZeroArmi rappresenta il primo strumento di valutazione dell’esposizione bancaria italiana verso l’industria delle armi. L’iniziativa è frutto della collaborazione tra Fondazione Finanza Etica e Rete Italiana Pace e Disarmo, con il coinvolgimento delle principali banche italiane. ZeroArmi analizza il grado di coinvolgimento del sistema bancario nel settore militare, ponendo l’accento sulla trasparenza e sul dialogo critico con gli istituti bancari. La valutazione copre le seguenti banche: Banca Mediolanum, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare Etica, Banco BPM, BPER Banca, Cassa Centrale Banca, Cassa Depositi e Prestiti, Crédit Agricole Italia, ICCREA, Intesa Sanpaolo. Mediobanca e Unicredit.

Stando ai risultati 2024 di ZeroArmi presentati alla fine dello scorso gennaio, Banca Etica si conferma l’unico istituto con un coinvolgimento nullo nel settore militare. Cassa Centrale Banca, BPER, Banco BPM e Cassa Depositi e Prestiti mostrano un coinvolgimento minimo, con punteggi tra 10 e 20, attribuibili alla loro storia, a scelte strategiche recenti e alla disponibilità a confrontarsi con ZeroArmi. La seconda fascia di coinvolgimento moderato (20-40 punti) è leggermente più numerosa: Banca Mediolanum, Crédit Agricole, Mediobanca e ICCREA si posizionano tra 20 e 25 punti, mentre Banca Popolare di Sondrio si trova nella parte alta di questa fascia. Infine, le due banche tradizionali con il maggiore flusso di cassa, Intesa Sanpaolo e Unicredit, si posizionano all’interno della terza fascia (40-60) a conferma del loro storico ruolo di protagoniste strutturali nel settore, con un coinvolgimento significativo. 

Scrive Simone Siliani nel Report ZeroArmi: “Dove finiscono i soldi delle persone risparmiatrici quando vengono depositati in banca? Esiste un diritto a essere informati su come vengono impiegati? Considerando che quei fondi restano di proprietà di chi li ha affidati alle banche con l’obbligo di tutelarli e utilizzarli per muovere l’economia, questo diritto assume una importanza ancora maggiore quando i risparmi vengono impiegati per finanziare settori dell’economia eticamente sensibili, come quello degli armamenti.” Per affrontare il crescente coinvolgimento delle banche italiane nell’industria bellica, ZeroArmi propone azioni concrete: 1. Promuovere la trasparenza, rendendo pubblici i dati relativi ai finanziamenti al settore militare. 2. Definire policy restrittive per escludere effettivamente il supporto a industrie produttrici di armamenti controversi. 3. Favorire il disinvestimento, sostenendo la riallocazione di capitali verso settori a elevato impatto sociale e ambientale positivo. 4. Coinvolgere chi risparmia, informando i cittadini e le cittadine sull’impatto delle loro scelte finanziarie per favorire decisioni consapevoli.

Qui per scaricare il Report: https://finanzadisarmata.it/risorse/zero-armi/

 

Giovanni Caprio

A Palermo in corteo per il Congo

Sabato 22 febbraio, organizzato, insieme alla comunità congolese, dalla Cgil Palermo, Diaspore per la Pace, Donne di Benin City, Movimento Right to be, Algeria Trinacria per la Cooperazione, Mondo Africa, Africa Solidale, Arci Palermo, è partito nel primo pomeriggio da Piazza Crispi il corteo in solidarietà alla popolazione della Repubblica Democratica del Congo.

Il colore sfila sotto la pioggia. Colorati sono gli ombrelli aperti e poi richiusi ad intermittenza, come la pioggia appunto. E colorati sono gli striscioni e le bandiere. Sul fondo azzurro il giallo di una stella e il rosso di una striscia, diagonale. Colori di un paese lontano che qui, a Palermo, trova casa nei colori mescolati dei volti e delle voci che chiedono pace per tutti i figli e le figlie di questo mondo.

In Ucraina come a Gaza, fin laggiù, nella Repubblica Democratica del Congo, nel cuore di quell’Africa, terra di saccheggio oggi come ieri, dove la guerra fratricida è solo l’ennesima mossa della mano rapace dell’Occidente. Chiedono pace, come in un arcobaleno dopo la pioggia, le mani piccole dei bambini e delle bambine che ne sventolano, piccola, una bandiera tra le bandiere dei grandi.

Maria La Bianca

Manifestazione a Cagliari: siamo tutti antifascisti

Promosso dal coordinamento antifascista cagliaritano ATZIONI ANTIFASCISTA DE CASTEDDU un corteo di alcune centinaia di persone ha percorso le vie del capoluogo sardo, ritmando lo slogan: SIAMO TUTTI ANTIFASCISTI!

L’iniziativa è nata fra gli studenti, nelle università, ma anche nelle scuole superiori e ne è la riprova la nutrita partecipazione di giovani. Perché, raccontano in prima persona, sono soprattutto i giovani ad essere più esposti alle intimidazioni fasciste nelle scuole, quelle stesse scuole pubbliche che vorrebbero instradarli verso il militarismo grazie ai progetti delle Forze Armate, nelle aule e poi nelle caserme. Tra l’altro in città si sono recentemente registrati alcuni episodi di aggressione a studenti ed attivisti, da parte di gruppi di estrema destra.

Uno studente al microfono ha voluto ricordare i motivi della manifestazione e ha voluto ricordare l’anarchico sardo Franco Serantini, ucciso dalla polizia durante una manifestazione a Pisa nel 1972, di cui scrisse Corrado Stajano nel libro “Il sovversivo”. Passato e presente, uniti dal filo dell’antifascismo. Erano presenti anche i sindacati di base, i nonviolenti, gli anarchici, le associazioni palestinesi, che hanno ricordato che Gaza e tutta la Palestina sono tutt’ora sotto minaccia di genocidio.

La presenza della sede di Casa Pound, formazione che si richiama al fascismo, in una strada adiacente al percorso, ha portato le forze dell’ordine a schierarsi in tenuta antisommossa e a blindare letteralmente le strade, impedendo l’afflusso anche ai passanti. Uno spiegamento di forze plateale, che è eufemistico definire eccessivo, che ha condizionato il clima interno al corteo, nonché gli spostamenti dei semplici pedoni. Ci domandiamo se una simile solerzia da parte degli apparati dello Stato potremo riscontrarla anche davanti alle aggressioni neofasciste. Ma gli antifascisti cagliaritani hanno dimostrato grande maturità, non accettando provocazioni e marciando uniti fino a piazza Costituzione. Già, quella costituzione nata dall’antifascismo e dalla resistenza, mai davvero realizzata e sempre meno applicata.

Il corteo di sabato 22 febbraio a Cagliari, è servito anche a ricordare che l’antifascismo ci deve accomunare, in un momento storico in cui c’è un triste e drammatico ritorno ad ideologie suprematiste.

Carlo Bellisai

I rischi del web per le nostre ragazze e i nostri ragazzi

Il 58% dei giovani sotto i 26 anni individua nel revenge porn il rischio maggiore che si corre sul web.

Seguono l’alienazione dalla vita reale (49%), le molestie (47%) e il cyberbullismo (46%).

Con l’abbassarsi dell’età è però proprio il cyberbullismo che diventa il rischio più temuto: indicato dal 52% degli under 20.

Sono alcuni dei dati dell’indagine dell’Osservatorio indifesa realizzato da Terre des Hommes, insieme a Scomodo, che ha coinvolto oltre 2.700 ragazzi e ragazze sotto i 26 anni.

I ragazzi chiedono una maggior regolamentazione del web: il 70% ritiene, infatti, che regole più severe potrebbero essere utili nel limitare la violenza online.

Il 13% rimane comunque scettico, sostenendo che una regolamentazione non servirebbe a niente; solo il 6% ritiene che ciò potrebbe limitare la libertà.

Se il revenge porn è il fenomeno più temuto, è perché i ragazzi si rendono conto dei rischi di condividere materiale intimo, come foto e video, con altri, con il partner o con gli amici: l’86% riconosce questa pratica come pericolosa.

Percentuale che si alza tra le donne e si abbassa leggermente col crescere dell’età.

I ragazzi sono inoltre consapevoli di poter denunciare la condivisione di materiali a contenuto intimo e chiederne la rimozione, anche se il 12,5% non sa cosa fare o pensa di non poter fare niente.

Nonostante la consapevolezza dei rischi per la privacy oltre la metà degli intervistati dichiara di aver condiviso la password del proprio telefono o dei propri social media.

A proposito di condivisione, il 75,6% considera una forma di controllo inaccettabile che il/la proprio/a partner acceda al cellulare per controllare quello che fa, solo il 2,5% al contrario pensa che sia una forma di rispetto, ma a più di 1 persona su 5 (22%) questo gesto non crea problemi.

E il dato sale se si guardano le fasce di età più basse (32% per la fascia 15-19, 36% per gli under 14).

Dall’Osservatorio indifesa emerge una generazione che ha esperienze di violenza e che la sa riconoscere, anche nelle sue forme più sottili.

La metà dei ragazzi intervistati (48%) dichiara di aver subito un episodio di violenza.

Le forme più comuni risultano: violenza verbale e psicologica (59,5%), catcalling (52%), bullismo (43%), molestie sessuali (38,5%).

Mentre la violenza verbale e psicologica viene subita in egual misura da maschi e femmine e in percentuale più alta (78%) dalle persone non binarie, le altre forme hanno una rilevante connotazione di genere, con catcalling (F 67%, M 6%) e molestie sessuali (F 45%, M 18%) subite in larga maggioranza dalle ragazze e, al contrario, bullismo (F 35%, M 66%) dai maschi.

Sale moltissimo la percentuale di maschi under 14 che ha subito bullismo (89%), dimostrando che questa forma di violenza è particolarmente sentita nei contesti scolastici o tra gruppi di coetanei.

Le persone non binarie sono, invece, vittime di tutte e tre le tipologie: al 50% di bullismo e catcalling e al 42% di molestie sessuali.

L’incidenza di catcalling e molestie sessuali, inoltre, aumenta con l’età, mentre gli atti di bullismo sono più frequenti nelle fasce d’età più basse.

Sebbene tra la GenZ sia forte la consapevolezza dei pericoli della rete, resta la scuola, trasversalmente per ogni età, il luogo dove, per la maggior parte degli adolescenti, è più probabile che avvengano episodi di violenza, è così per il 56,5% dei ragazzi e delle ragazze.

Sono percepiti come pericolosi anche la strada (48%) e i luoghi di divertimento (47%) e sappiamo dai nostri Osservatori precedenti che anche il web si posiziona al 39%.

Terre des Hommes, in collaborazione con OneDay e ScuolaZoo, porta avanti dal 2014 l’Osservatorio indifesa per ascoltare la voce dei ragazzi e delle ragazze italiane su violenza di genere, discriminazioni, bullismo, cyberbullismo e sexting.

Con il 2025 la Fondazione ha avviato una nuova partnership con Scomodo, la comunità reale di under 30 che dal 2016 crea spazi di espressione, condivisione e crescita per le nuove generazioni in tutta Italia.

Ad oggi più di 72.000 adolescenti di tutta Italia sono stati coinvolti in quello che rappresenta, l’unico punto d’osservazione permanente su questi temi.
Uno strumento fondamentale per orientare le politiche delle istituzioni e della comunità educante italiana.

Qui per approfondire: https://terredeshommes.it/comunicati/osservatorio-indifesa-2025-i-rischi-del-web-secondo-la-genz/.

Giovanni Caprio

Appello per la pace in Congo

Non è il metaverso e nemmeno uno di quei videogiochi della play ad altissima risoluzione in cui qualcuno si diverte a sparare e uccidere.

È mondo reale. Un genocidio che dura da 30 anni e con 10 milioni di vittime, più di 3000 solo nelle ultime settimane dopo la presa di Goma e Bukavu, i capoluoghi rispettivamente del nord e del sud Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. La terra più ricca del mondo per le risorse del sottosuolo mentre la sua gente muore di fame, di machete e di mitra.

Decine di migliaia gli sfollati, centinaia di bambini senza famiglia abitano per strada, centinaia le donne violentate barbaramente.

Questo succede nel 2025, mentre altrove si indaga il cosmo, si progettano reti e sistemi di satelliti per collegare il mondo globalizzato e si discetta di intelligenza artificiale.

E succede proprio per alimentare l’industria tecnologica che vive di coltan, la terra rara di cui la RD Congo è ricca, insieme a diamanti, oro, cobalto, rame e altri minerali preziosi.

Migliaia di miniere in cui lavorano bambini, presidiate da milizie armate.
Traffici internazionali illeciti di preziosi non tracciabili fanno di altri paesi, e non del Congo, i più grandi venditori delle ricchezze del sottosuolo congolese.

Primo tra tutti il Rwanda che è dietro alle milizie irregolari, tra cui la feroce M23, che da anni dillaniano e occupano il nord Kivu.
Senza avere coltan nel suo territorio, il Rwanda ne è uno dei più grandi esportatori e fortunatamente dopo la presa di Goma il Parlamento europeo ha sospeso gli accordi commerciali con Kigali anche per l’approvvigionamento di questo minerale fondamentale per la realizzazione dei microcircuiti dei nostri cellulari.

“Quella del Rwanda è un’invasione che viola il diritto internazionale – grida la società civile – nè più nè meno di quella russa in Ucraina”. E le proteste hanno colpito anche il cantante John Legend che ha tenuto proprio ieri un suo concerto a Kigali, pubblicizzato come una brochure turistica: “Visitate il Rwanda”.

Ma il Rwanda non è il solo a depredare la Repubblica Democratica del  Congo, a braccetto con la stessa Europa, USA, Francia, Regno Unito, Russia, Cina e Israele, insomma mezzo mondo, inclusi i caschi blu ONU che con la missione Monusco hanno presidiato la zona fino al loro recente ritiro applaudito dalle popolazioni locali. Non si può poi ignorare la massiccia dose di corruzione delle autorità congolesi che agevolano il tutto.

L’industria israeliana, per esempio, è la più grande esportatrice di diamanti dalla provenienza difficilmente identificabile, una volta tagliati. Le sanzioni imposte dagli USA nel 2017 e diverse inchieste giornalistiche fanno di un magnate israeliano, Dan Gertler, l’uomo ammanicato con le istituzioni congolesi e a capo di un vero e proprio impero dei “blood diamonds”, cioè dei diamanti insanguinati estratti in Congo, che si sospetta finanzino lo sterminio di vite umane a Gaza.

Dunque la guerra in Repubblica Democratica del  Congo riguarda tutti e non può restare in sordina. Ma soprattutto non può e non deve lasciare noi italiani indifferenti perché esattamente 4 anni fa, il 22 febbraio 2021, proprio vicino a Goma persero la vita, senza che sia ancora stata fatta giustizia, il nostro ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. E qui si apre un altro capitolo che lascio nella penna.

Dovremmo tutti parlare il più possibile della guerra nella Repubblica Democratica del  Congo e firmare l’appello per la pace.

 

 

Cecilia Capanna

“Morte civile”: cosa significa essere un obiettore di coscienza in Turchia

L’evento Morte civile: cosa significa essere un obiettore di coscienza in Turchia presso la sala Poli del Centro Studi Sereno Regis è stata un’occasione per conoscere la realtà degli obiettori di coscienza in Turchia.

Moderati da Zaira Zafarana, coordinatrice dell’advocacy internazionale di Connection e.V. e responsabile dei rapporti internazionali del MIR Italia, sono intervenuti in remoto Hülya Üçpinar, avvocatessa per i diritti umani in Turchia e gli obiettori di coscienza Hüseyin Civan, Merve Arkun, İnan Aru[1].

A livello di diritto internazionale l’obiezione di coscienza al servizio militare è un diritto umano che deriva dall’articolo 18 (libertà di coscienza e religione); il lavoro di advocacy su questo tema a livello internazionale è quello di far rispettare questo diritto umano nei vari paesi.

Il diritto all’obiezione di coscienza non è previsto in Russia ed in Grecia. in Ucraina in teoria c’è, ma in pratica non viene rispettato.

In Turchia il diritto all’obiezione di coscienza non viene riconosciuto e la Corte europea dei diritti dell’uomo ha definito la situazione degli obiettori di coscienza turchi come morte civile.

Hülya Üçpinar racconta la storia del movimento degli obiettori di coscienza turchi, un movimento senza un’organizzazione gerarchica che usa metodi nonviolenti; il movimento collabora con altri gruppi, compresi gruppi femministi ed ha un proprio linguaggio contro l’ingiustizia e contro qualsiasi tipo di guerra.

La società turca è fatta di cittadini soldato ed ha una generalizzata cultura militarista; i primi obiettori che si sono dichiarati pubblicamente negli anni 90 hanno minato alla base l’idea che ogni persona nasce come soldato e come turco.

Il rifiuto di servire nell’esercito viene segnalato sui documenti rendendo impossibile per gli obiettori una vita normale; qualsiasi organizzazione che rileva lo stato degli obiettori può far partire una nuova causa legale con relativo processo provocando quella “morte civile” citata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’accanimento verso gli obiettori non si ferma nemmeno al raggiungimento dell’età di 41 anni che coincide con la fine di fine dell’obbligo militare.

Emotivamente molto coinvolgente è stato il racconto dell’esperienza personale di İnan Aru: la sua scelta di obiettare è nata 25 anni fa, maturata dalla sua famiglia di resistenti che si sono opposti al colpo di stato degli anni 80. Già all’età di sette anni decise che non avrebbe fatto il servizio militare, ma nessuno sapeva come fare.

Il servizio militare è visto come un rituale per diventare dei veri uomini e per rinsaldare l’appartenenza al paese; è legato alla mascolinità e si rispecchia su tutta la vita sociale; non è semplicemente un rifiuto ad un obbligo legale, ma il rifiutare un’intera forma mentale, un’intera cultura.

Per me il servizio militare era totalmente estraneo al mio essere e l’esempio del primo obiettore di coscienza turco nel 1997 mi mostrò la strada per evitarlo; quando dichiarai la mia obiezione nel 2008 sembrava che la Turchia stesse attraversando un periodo di crescita dei diritti, ma la situazione è precipitata nel 2014-2015 quando tutte le opposizioni sono diventate degli obiettivi per l’oppressione, compresi gli obiettori di coscienza e gli antimilitaristi.

Un obiettore non può lavorare in maniera regolare né per lo stato né per i privati in maniera regolare; in caso di fermo, riceve un documento per presentarsi entro quindici giorni al centro di reclutamento e ricomincia il ciclo; “io ho ricevuto sette condanne per il medesimo fatto che sono diventate multe o arresti domiciliari; un mese fa ho ricevuto una nuova convocazione”

İnan Aru è intervenuto a raccontare la sua esperienza anche in piazza durante la 155° Presenza di Pace, ricevendo la solidarietà di chi ha lottato per il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza in Italia; nel nostro paese l’obiezione di coscienza è stata riconosciuta per la prima volta nel 1972[2].

In precedenza, gli obiettori hanno dovuto affrontare processi e carcere militare ed uno stigma sociale non molto diverso da quello che riconosciamo oggi per gli obiettori turchi.

 

[1] Merve Arkun, uno dei vicepresidenti dell’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza e membro esecutivo di War Resisters’ International, fornirà informazioni sulla situazione attuale del diritto all’obiezione di coscienza in Turchia ed esempi del lavoro svolto. Condividerà inoltre le prospettive di genere sull’obiezione di coscienza come diritto umano.
Hüseyin Civan è un obiettore di coscienza ed è stato sottoposto a restrizioni dei suoi diritti civili e sta sperimentando la “morte civile” (termine usato dalla Corte europea dei diritti umani per descrivere la situazione degli obiettori di coscienza in Turchia) a causa del suo rifiuto di servire nell’esercito.
İnan Aru è un obiettore di coscienza ed è stato processato e imprigionato più volte con la stessa accusa a causa del mancato riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza da parte della Türchia.
Hülya Üçpinar è un’avvocatessa turca specializzata in diritti umani e ha una lunga esperienza di campagne per il diritto all’obiezione di coscienza in Turchia. Ha anche esperienza nella richiesta di questo diritto umano all’interno del sistema europeo e delle Nazioni Unite. È membro del comitato esecutivo di War Resisters’ International e tra i cofondatori del Centro di educazione e ricerca nonviolenta di Istanbul.

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Obiezione_di_coscienza_in_Italia

Giorgio Mancuso

Elezioni parlamentari in Germania: vince la destra, ma successo della Linke

L’Unione Cristiano-Democratica (CDU) di Friedrich Merz, partito di centro destra, ha ottenuto il 28,6% delle preferenze, mentre l’estrema destra di Alternativa per la Germania (AfD) è arrivata seconda con il 20,4%. Il Partito Socialdemocratico (SPD) dell’ex cancelliere Olaf Scholz si è fermato al 16,4%, perdendo nove punti percentuali rispetto alle elezioni precedenti, i Verdi hanno ottenuto l’11,6% (- tre punti) e i liberali non hanno superato la soglia di sbarramento del 5%, così come l’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW). L’affluenza alle urne (84%) è stata altissima.

Nel panorama delineato dalle elezioni tenutesi ieri spicca il successo della sinistra radicale, la Linke, con l’8,8% dei voti (nelle elezioni del 2021 si era fermata al 4,9%): si tratta di un segnale importante, perché la Linke ha mantenuto una posizione ferma in difesa dei migranti e del diritto d’asilo, mentre tutti gli altri partiti hanno inseguito le posizioni demagogiche e razziste dell’AfD. Ha mostrato la stessa fermezza nell’opposizione alla guerra e all’aumento delle spese militari e ha basato la campagna elettorale su temi sociali come il caro affitti, il costo della vita e la ridistribuzione della ricchezza tassando i miliardari e riducendo la pressione fiscale sul 90% della popolazione. La Linke ha inoltre avuto un ruolo importante nelle mobilitazioni antifasciste in cui migliaia di persone hanno protestato per la scelta della CDU di collaborare con l’estrema destra per l’approvazione di misure restrittive sull’immigrazione.

Queste scelte coraggiose si sono tradotte in un grande aumento degli iscritti (31.000 in più da metà gennaio) e nell’appoggio dei giovani: la Linke è stata il partito più votato dagli elettori tra i 18 e i 29 anni. Merito anche di Heidi Reichinnek, 36 anni, la candidata di punta del partito e della sua intensa attività sui social media.

Tutto questo non sminuisce la gravità dell’ennesima “onda nera” che ha portato ancora una volta al successo elettorale una formazione di estrema destra e non fa ben sperare per il futuro. Se anche l’AfD verrà esclusa dal prossimo governo, possiamo aspettarci comunque una politica guerrafondaia e razzista; ragion di più per sottolineare l’importanza di un’opposizione ferma come quella che ci auguriamo porterà avanti la Linke, in Parlamento, nelle piazze e nei territori.

 

 

Redazione Italia

Calano gli omicidi in Italia, ma aumentano gli autori minorenni

E’ in atto una diminuzione costante del numero degli omicidi volontari consumati nel nostro Paese, con un calo del 33%, passando da 475 eventi del 2015 a 319 del 2024, con un decremento del 6% registrato tra il 2023 (340 eventi) e il 2024 (319). Una flessione ancora maggiore si rileva negli omicidi che riguardano contesti di criminalità di tipo mafioso, in decremento del 72% (da 53 a 15). È quanto si evince dal report realizzato dal Servizio analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della Pubblica sicurezza, “Omicidi volontari consumati in Italia”, che analizza il fenomeno durante il decennio 2015-2024. “Un trend in costante decremento, si legge nel report, che fa registrare il valore più basso nel 2020 (anno caratterizzato dall’emergenza legata alla pandemia da Covid19), seguono una fase di incremento nel triennio successivo e una nuova decisa decrescita nell’ultimo anno (2024), con 319 casi a fronte dei 340 dell’anno precedente.”

Si tratta dl un trend confermato anche dai dati Eurostat relativi agli omicidi volontari registrati in Europa che, per il 2022, collocano l’Italia tra i Paesi più sicuri per questo tipo di reato, riconoscendola, in ambito UE, come il Paese con il minor fattore di rischio di eventi omicidiari. Il Report, realizzato attraverso lo studio e l’analisi dei dati acquisiti dalla Banca dati delle Forze di polizia, confrontati con le informazioni fornite dai presidi territoriali di Polizia di Stato e Arma dei carabinieri, offre una panoramica del fenomeno criminale nel periodo 2015-2024, soffermandosi sul biennio 2023-2024 con approfondimenti incentrati su genere, età e nazionalità di vittime e autori, sulle relazioni tra gli stessi e su altri aspetti caratterizzanti ogni evento, come l’ambito in cui si è svolto, il movente e il modus operandi.

Le vittime di nazionalità italiana rappresentano il 75% del totale in entrambi i periodi, mentre quelle straniere costituiscono il 25%. Per quanto riguarda gli autori, gli italiani rappresentano circa il 70% in entrambi i periodi e la fascia d’età maggiormente rappresentata nel 2024 è quella compresa tra 18 e 40 anni. In rilevante incremento, rispetto al 2023, l’incidenza degli autori minorenni che, nel 2024, è dell’11%  a fronte del 4% dell’anno precedente. Gli omicidi del biennio 2023-2024 risultano essersi verificati, nella maggior parte dei casi, al culmine di una lite degenerata; nel 2024, in particolare, ciò è avvenuto nel 49% dei casi, a fronte del 45% del 2023. Gli omicidi in cui, invece, l’autore risulta aver agito per motivi passionali, si attestano, per il 2024, al 5%, in diminuzione rispetto al 2023, in cui avevano rappresentato l’11% del totale. Per quanto attiene al c.d. modus operandi, nel 2024, così come nell’anno precedente, si rivela preminente l’uso di armi improprie e/o armi bianche (133 casi nel 2024 a fronte dei 156 nel 2023), mentre le armi da fuoco risultano utilizzate in 98 casi nel 2024 e 101 nel 2023. Seguono le aggressioni (45 omicidi nel 2024 a fronte di 53 nel 2023) e l’asfissia/soffocamento/strangolamento (37 casi a fronte dei 26 del 2023). Risultano, infine, 6 gli omicidi volontari consumati tramite avvelenamento registrati nel 2024, a fronte dei 4 del 2023. In termini territoriali, invece, sono la Campania, la Lombardia e il Lazio le regioni che fanno registrare, nel biennio, i valori maggiori e tra queste, la Campania evidenzia, nel 2024, anche un deciso incremento rispetto all’anno precedente (+31%).

Un esame a sé meritano gli omicidi ascrivibili a contesti di criminalità di tipo mafioso. “In passato, si legge nel report, le organizzazioni criminali di stampo mafioso, come Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta e criminalità organizzata pugliese ricorrevano all’omicidio come uno degli strumenti principali per intimidire e risolvere conflitti interni o esterni, sia pure con le dovute differenze relative alle rispettive caratteristiche strutturali e organizzative. In contesti criminali di stampo camorristico, infatti, l’omicidio era finalizzato a segnare la supremazia dell’organizzazione stessa su un determinato territorio, intimidire i clan rivali o rafforzare il proprio potere e la propria influenza all’interno delle comunità locali.

Negli altri ambienti mafiosi, invece, caratterizzati da un’organizzazione verticistica di stampo prettamente familiare, la violenza era usata o per eliminare gli esponenti dello Stato e della società civile, percepiti come minaccia, o per punire chi non si sottometteva o non rispettava le regole del gruppo, alimentando quella paura che rendeva difficile la denuncia e la collaborazione con le Forze dell’ordine e la magistratura. A partire dagli anni ’90, gli omicidi che si sono registrati hanno avuto un forte valore simbolico e hanno riguardato spiccate personalità dello Stato: esponenti della magistratura e/o appartenenti di alto profilo delle Forze dell’ordine impegnate nella lotta contro le mafie, la cui neutralizzazione fisica appariva come l’unico modo per ripristinare un’egemonia messa sotto attacco dalle istituzioni. Nel corso del tempo, però, il modus operandi delle mafie è cambiato. Dopo la stagione stragista degli anni ’90, l’uso della violenza ha assunto forme più sottili e meno visibili. Le organizzazioni mafiose hanno infatti capito che per ottenere maggiori risultati dall’attività di pulizia del denaro sporco (il riciclaggio) dovevano evitare clamori e quindi il numero degli omicidi di mafia si è ridotto notevolmente.”

Qui il Report completo: https://www.poliziadistato.it/statics/32/elaborato.pdf.

 

 

Giovanni Caprio